Paola
Giannetti
Questo è il racconto del primo tratto
della mia difficilissima vita. Da qui nascono la mia forza e la mia
resistenza, di cui ho avuto spesso bisogno nel mio viaggio verso la
consapevolezza del senso di tutto. Vi ringrazio di accogliermi tra di voi. |
L'EREDITA'
Ogni riferimento a persone e luoghi non è affatto
del tutto casuale, ma perfettamente aderente alla verità dei fatti
vissuti da me e perciò inconfutabili.
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella
che si ricorda. (G.M.Marquez)
Non importa chi fosse mio padre; importa ciò che
mi ricordo di lui. (Anne Sexton)
1.
Non ricordo un suo bacio.
Non ricordo una sua carezza.
Non ricordo un suo benevolo sorriso.
Non ricordo un suo abbraccio.
Non si tratta di oblio, di dimenticanza, di mancanza di memoria. Ma è,
invece, il ricordo della privazione, di quello che mi aspettavo, ma che
non ho mai avuto e che non mi è mai arrivato.
L'infanzia dovrebbe essere per tutti noi un tesoro prezioso in cui
immergersi, un patrimonio di memorie, di scoperte meravigliose e di
sensazioni sorprendenti.
Il bagaglio indispensabile per iniziare la costruzione della nostra vita.
Ma, quando l'infanzia è ferita, oltraggiata, violata, tutto crolla. Non
c'è scampo.
Il dolore assale devastante. La sofferenza s'insinua nell'anima e
dilagando non allenta la sua presa per tutta la durata della vita. Perché
tutta l'ansia, la rabbia, il desiderio di riscatto, i dubbi che resteranno
partono da quel momento irrecuperabile che è l'infanzia. L'ira che
improvvisamente assale non è altro che figlia di un dolore lontano, della
disperazione di non essere stati accolti, delle minacce subite nel momento
di massima fragilità.
E così nella nostra mente nella camera della memoria ci sono i ricordi di
ciò che si è avuto, che si è fatto, che si è provato, ma anche di
tutto quello che non c'è mai stato, delle sensazioni e dei sentimenti che
si sarebbe dovuto, voluto, potuto provare, ma che non si è mai avvertito.
Le attese, le aspettative, ma anche le delusioni, il senso di vuoto che
nessun altro, tranne "quella" persona, può colmare si
cristallizzano nell'anima; le sottrazioni morali subite si accumulano,
sedimentano fino ad occupare uno spazio enorme, che ti fa scoppiare
dentro.
Vorresti fuggire da te stesso, sognare di essere un'altra persona, ma è
impossibile.
Allora che fare?
La vita può essere terribilmente tragica, ma
bisogna conservare sempre il valore della propria dignità e la forza
d'animo, che significa accogliere se stessi, con le nostre ombre, le
nostre sconfitte e il nostro dolore. Dolore che va accettato,
attraversato, superato, come elemento appartenente alla vita, così come
la felicità.
E, anche se per dolore si può morire dentro, bisogna cercare la via
d'uscita. E questa è la convivenza con esso, come compagno segreto che
vive in noi fino alla nostra fine.
Ciò che siamo è ciò che gli altri hanno costruito di noi. E anche nei
momenti più bui, dobbiamo credere in questa costruzione, anche se non ci
piace. Non abbiamo altro.
Siamo il monumento storico della nostra esistenza, forse diroccato, ma pur
sempre testimone dei nostri giorni. Il pericolo di crollo incombe in ogni
istante, ma dobbiamo resistere. Lo dobbiamo a noi stessi, alle macerie
raccolte, preziose per la nostra incessante ricostruzione; lo dobbiamo
alla vita che ci ha tramato contro.
Gli strumenti più utili e necessari per resistere sono l'ironia,
l'autocritica continua, il sentirsi sempre sull'orlo del precipizio, mai
sicuri di nulla, sempre preparati a vacillare e a cadere. Ancora una volta
pronti a rialzarci per continuare il nostro cammino.
E' stata questa specie di "insicurezza preventiva" a salvarmi, a
portarmi ogni giorno un passo più in là. L'insicurezza come corazza.
D'altronde l'unica certezza è l'incertezza e l'illusione della propria
sicurezza rende deboli, vulnerabili, esposti.
Allora bisogna cercare, scavare, esplorare la nostra anima, dove forse si
potrà trovare una zattera a cui aggrapparsi. E' la resistenza interiore.
La thimoeidès di Platone, lo spirito rigoroso, ossia la resilienza, la
mobilitazione di tutte le nostre risorse per non soccombere, la lotta
tenace per restare in piedi.
2.
Il fidanzamento dei miei genitori fu brevissimo,
cosa di pochi mesi, Non era il grande amore, ma mia madre desiderava più
di ogni altra cosa un figlio; mio padre si spacciava come un uomo per bene
e quindi lei accettò questa unione come un facile accomodamento per
persone già mature.
Invece mio padre, più vecchio di dieci anni, proveniente da una famiglia
economicamente e culturalmente assai modesta, aveva trovato un'ottima
sistemazione con una donna più colta di lui, dal lavoro ben retribuito e
proprietaria di una casa: combinazione difficile per i primi anni '60!
Dopo un anno di matrimonio arrivai io, ma, se il buon giorno si vede dal
mattino, mio padre non fece affatto salti di gioia, giacché venne a
conoscermi senza alcuna fretta e senza troppo entusiasmo solo il giorno
dopo la mia nascita.
L'accoglienza quindi non fu delle migliori da parte sua, considerando
anche che alla nascita ero stata in pericolo di vita a causa del cordone
ombelicale attorcigliato al collo. Ma, grazie alla solerzia dei medici,
eccomi qui a raccontarmi.
Mia madre ed io saremmo state risucchiate in un buco nero, avviluppate
nella tristezza e nella trepidazione:
mio padre stava per regalarci l'infelicità.
Ciò che riferirò è frutto solo della mia memoria. Soltanto l'episodio
della mia nascita mi fu riferito, ma non da mia madre.
Infatti ella non mi ha mai raccontato cose negative o ostili su mio padre.
Non lo nominava mai. Ostentava sempre allegria e serenità, anche nei
giorni più bui. E quando io, una volta diventata grande, cercavo di
smontarla, perché mi faceva rabbia la sua sopportazione, lei mi
rispondeva: " E' sempre tuo padre. Senza di lui non ti avrei
avuta".
E così, per questo motivo, per l'appagamento del suo primo desiderio:
essere madre, mia madre sopportava, ingoiava, non reagiva mai, non
proferiva mai parola contro di lui.
Era felice di me e questo le bastava, le riempiva la vita.
E in memoria di mia madre io mi sono attenuta al suo rigore, alla sua
compostezza, alla sua dignità.
I ricordi che per anni ho accumulato in silenzio e in solitudine, per non
ferire mia madre, risalgono alla mia prima infanzia e, malgrado i miei
pochi anni di vita , sono rimasti impressi nella mia mente, come un lungo
film. Sono ricordi precisi, vivissimi, orribili.
Tutto quello che subivo, lo tacevo, lo nascondevo. Erano cose solo mie.
Sopportavo sia perché ero impotente, sia perché non volevo assolutamente
accrescere il dolore in mia madre. Me lo portavo tutto io, addosso come un
macigno. Nessuno poteva aiutarmi. A quei tempi i giudici pensavano solo ai
diritti-doveri dei genitori. A noi bambini nessuno ci ascoltava. Nessuno
ci chiedeva: tutto bene? C'è qualcosa che non va?
E poi anche il mio carattere non mi aiutava. Ero timidissima, chiusa a
riccio, solitaria. Solo l'ascolto della musica e il contatto con gli
animali mi davano serenità, annullavano il macigno.
Ma i ricordi sono rimasti. Sono indelebili i ricordi. E pure preziosi,
anche se negativi.
Distruggono nel cervello, ma costruiscono nel cuore. E in me l'effetto è
stato la costruzione di un odio sconfinato, colossale, infinito per mio
padre.
Si, odio. Inutile fingere orrore!
Al diavolo l'ipocrisia della retorica dell'amore e del perdono!
ODIO ODIO ODIO
Non mi apparteneva.
Non era dentro di me.
Mio padre me lo ha inoculato.
Mio padre me lo ha nutrito.
E' cresciuto.
Mi ha invaso.
Fortunatamente solo contro di lui.
3.
Visse nella mia stessa casa a Latina per soli tre
anni.
Gli bastarono.
Con noi viveva mia nonna materna.
Anche se piccolissima, ricordo benissimo il clima qual era.
Mia madre e mia nonna sopravvivevano nella sua completa soggezione. Lo
trattavano con estrema gentilezza, così da non infastidirlo o irritarlo.
Cercavano sempre di organizzare tutto con precisione e puntualità.
Mia nonna, poi, per discrezione si appartava anche per ore nella sua
camera. Spesso partiva per andare da un'altra figlia.
Lui, invece, si aggirava tra noi con il suo sguardo sempre feroce e
tagliente. Il sorriso sempre sardonico. La voce dal tono sempre
autoritario e perentorio.
Ma era anche un tipo imprevedibile, pieno di sorprese.
All'improvviso bastava una briciola, che lo infastidisse o che non lo
soddisfacesse abbastanza, a scatenare la sua violenza e si lanciava a
picchiare come un forsennato.
Era il panico.
Non capivo. Proprio non capivo. Perché?
La nostra cucina era quella di una volta, con la cucina a legna, il
lavatoio di granito, le mattonelline piccole celesti e al centro della
camera il tavolo col piano di marmo bianco, dal quale, oltre al cassetto
per le posate, si estraeva il matterello per tirare la sfoglia.
Era la sua arma preferita.
Ricordo ancora la sua mano tozza, cattiva sfilare il matterello dalla
tavola in un sol colpo e colpire, colpire, colpire…
Noi urlavamo dalla paura, lo imploravamo di smettere e scappavamo a
rifugiarci in salotto perché lì c'era il telefono per chiamare in aiuto
mio zio o i vicini. Era la nostra unica salvezza in quel momento.
Ricordo mia madre agitatissima e tumefatta.
Io stavo sempre in braccio a mia nonna, che in tutti i modi cercava di
calmare il mio pianto. Ma sentivo nel suo abbraccio il cuore che le
galoppava in petto.
Quando accorrevano i vicini, lui tornava in se', minimizzava,
tranquillizzava tutti apparendo completamente diverso da quello che
conoscevamo noi.
Ma noi eravamo ancora chiuse nel salotto. Uscivamo dopo parecchio tempo.
Silenziose.
Accorte.
Rassegnate a riprendere la vita dall'attimo prima della sua furia.
Mia nonna riponeva il matterello lasciato chissà dove e mia madre si
dedicava a me, raccontandomi tante favole, giocando e sorridendo nel
tentativo di far finta che nulla fosse successo.
A distanza di tanto tempo tento di riprovare i sentimenti di allora, che
si accavallavano nel mio cuore. Non ero capace di distinguerli perché ero
troppo piccola. Intanto però la mia mente aveva immagazzinato tutto.
Un'altra volta, ricordo, la fuga per le scale.
Lui riesplose.
Mia nonna non c'era.
Invece che metterci al sicuro nel salotto, mia madre pensò di scappare
via.
Lui l'aveva già bastonata.
Ricordo che in quel momento mi trovavo seduta sul seggiolone.
Fui presa al volo da mia madre che si gettò fuori della porta giù per le
scale.
Scendeva a perdifiato. Io mi tenevo stretta stretta al suo collo per non
cadere.
Lui c'inseguiva. Io lo vedevo arrivare alle spalle di mia madre, quando
con tutta la sua forza le sferrò un pugno proprio al centro tra le
scapole. Le si arrestò il fiato e cadde in avanti sbattendo il viso sugli
scalini.
Il suo viso insanguinato.
Gli occhiali in frantumi.
Anche io ero caduta, ma il mio dolore non lo sentivo.
Guardavo mia madre e vederla in quelle condizioni mi annientava, mi
distruggeva.
Non sopportavo di vederla così. Avrei voluto essere cieca. Non essere
lì.
Forse non riesco a descrivere bene ciò che mi sentivo esplodere dentro.
Ero piccolissima e non sapevo decifrare con esattezza la marea di
sensazioni che mi sommergevano.
Era l'inferno in Terra per noi.
Venne il medico.
Asciugamani insanguinate fatte sparire in fretta alla mia presenza.
Odore di alcool.
Telefonate ai parenti.
4.
La domenica si andava a Terracina nella casa in cui
abitavano i genitori di mio padre ( dovrei chiamarli nonni?), una sorella
e un fratello.
Ricordo una casa vecchia e maleodorante. Si trovava nella parte alta e
antica del paese.
Si entrava dapprima in un portone buio, le cui pareti già emanavano
sentore di squallore e degrado.
L'ambiente era ostile. Mai una tenerezza da parte di alcuno nei miei
confronti, ne' tanto meno alcuna cordialità verso mia madre.
Anche lì la violenza. Lui mi scaraventò come un sacco sul letto del
fratello in una camera buia e sconosciuta e tornò nel corridoio per
schiaffeggiare mia madre.
Vidi tutto.
Ancora gli occhiali che le volavano via.
Il sangue dal naso e dalla bocca schizzato sulla parete.
Gli zigomi tumefatti.
Nessuno intervenne a difenderla.
Io non potevo.
In seguito, dopo molti anni, mia madre mi disse che allora avevo poco più
di un anno.
Dentro di me l'immagine è nitida come se l'episodio fosse appena
accaduto.
Di questi episodi ce ne furono molti dello stesso
tenore davvero drammatico.
Mia madre non lo denunciò mai, ma finalmente si decise a mandarlo via
chiedendo la separazione.
La sua presenza nella nostra casa era un insulto quotidiano all'idea
stessa di famiglia, di armonia, di amore.
Giustamente mia madre non si fece scrupoli nei miei confronti, dal momento
che in quei tre lunghissimi anni non si era mai assistito ad alcun gesto
d'affetto, a nessuna tenerezza, a nessun riguardo nei miei confronti.
Se ne andò alla sua maniera.
Volle portarsi via l'unico acquisto fatto per il matrimonio: la camera da
letto.
Rovesciò tutti i cassetti. Smontò l'armadio gettando tutto per l'aria.
Lenzuola scaraventate a terra, vestiti sparpagliati qua e là, le mie
piccole cose buttate senza alcun riguardo.
Ero in braccio a mia madre, spaventata ancora una volta nell'assistere
alla sua furia. Non capivo cosa stava per accadere. La stanza stravolta,
il rumore sordo del legno, le sue urla, il suo ghigno cattivo.
Tornò a Terracina.
Io avevo tre anni.
5.
Mia madre naturalmente vinse la causa di
separazione; io fui affidata a lei e mio padre poteva vedermi tutte le
domeniche e un mese d'estate. Fu inoltre stabilito un importo che lui
doveva per il mio mantenimento, che però non diede mai. Addirittura per
anni mantenne la residenza anagrafica in casa nostra per farsi accreditare
gli assegni familiari che percepiva per me, ma che teneva per se'. La
prova di ciò è agli atti.
La possibilità di vedermi di domenica mio padre la usò a periodi
alterni, quelli cruciali per intimidire mia madre. Il mese d'estate non fu
mai "sfruttato".
Arrivava sempre una buona mezz'ora prima dell'ora
stabilita dal giudice per avermi una domenica "tutta per lui" a
Terracina.
Per rapirmi, per segregarmi, per umiliarmi, per torturarmi.
Posteggiava ben in vista, come un avvoltoio pronto ad avventarsi sulla sua
vittima predestinata: mia madre.
Il mezzo per farlo, il suo artiglio ero io.
Il movente: la vendetta per essere stato cacciato.
Spiavo le sue mosse dalla finestra della cucina,
senza scostare le tendine , per non dimostrargli la mia agitazione e la
mia paura.
Poi, arrivata l'ora esatta, quando scendeva dalla macchina incamminandosi
verso il cancello di casa mia, di scatto correvo dietro la porta
d'ingresso ad auscultare la sua presenza, dietro quell'ultimo diaframma
che mi separava da lui.
Sentivo i suoi passi avanzare, avvicinarsi, salire.
Era sul mio pianerottolo.
Allora un'energia fortissima m'invadeva, l'energia della ribellione,
l'energia dell'ultima resistenza.
E correvo a nascondermi sotto il letto.
Sapevo già che mi avrebbero trovata, presa e portata via, ma non ci
rinunciavo.
Mi aggrappavo saldamente ai piedi della rete: freddi, muti, ma di casa
mia.
Ero schiacciata con la faccia sul pavimento a mattonelle, anch'esse gelide
ed inospitali, ma in quel momento mi sembravano un giaciglio meraviglioso.
Avrei voluto essere una di loro per non muovermi mai da lì.
Il cuore cavalcava.
Il cervello impazziva.
Però non piangevo.
Poi arrivava mia madre. Accovacciata sulle ginocchia, si sporgeva verso di
me.
Le sue labbra sorridevano, come sempre, ma i suoi occhi no.
E io i suoi occhi guardavo.
E con calma apparente e padronanza forzata mi convinceva ad andare.
Io non volevo. Non volevo.
Ma lui era lì sulla soglia e la porta era aperta. Certo, mia madre non lo
invitava ad entrare, ma lui poteva farlo. E una volta dentro, la sua furia
poteva scatenarsi ancora.
Io lo sapevo e avevo paura che continuando ad ostinarmi nel mio rifiuto,
mia madre avrebbe subito ancora violenza, questa volta per colpa mia.
Allora uscivo.
6.
Andare con lui significava per me trascorrere le
giornate più tristi e orrende che mi potessero capitare.
Sapevo già precisamente quello che avrei vissuto, perché era sempre
uguale. Mai una novità, una bella sorpresa.
Dovevo solo aspettare che finisse il giorno per tornare a casa mia.
In macchina mi faceva sedere dietro di lui.
Durante tutto il tragitto tra Latina e Terracina rimaneva in silenzio. Non
una parola. Non un'attenzione. Proprio come se trasportasse un oggetto.
Anzi peggio! Almeno talvolta agli oggetti uno sguardo lo si dà!
Io invece non potevo non guardarlo. E la vista di lui mi nauseava, mi
inorridiva.
La nuca rasata, i capelli a spazzola, il collo tozzo incassato tra le
spalle squadrate appartenevano ad una persona che dentro di me non
riuscivo a collocare.
Era mio padre. Per natura doveva amarmi e dovevo amarlo, dovevo piacergli
e mi doveva piacere. Ma non era così.
Non riuscivo a collocarlo nel mio cuore, non capivo che tipo di rapporto
potevo avere con lui. Se fosse stato un estraneo, le cose mi sarebbero
state più chiare.
Per me il risultato più evidente era la sua identificazione con la
violenza e con l'assenza di amore.
Arrivata in quella casa buia e fetida, subito
lanciavo lo sguardo alle pareti del corridoio per vedere se c'erano ancora
tracce del sangue di mia madre.
Nella prima camera a sinistra dell'ingresso c'era il soggiorno, dove avrei
trascorso tutta la domenica.
Mio padre mi piazzava sul divano e, senza neanche salutarmi, usciva per
andare dagli amici. Sarebbe tornato per il pranzo per poi riuscire fino al
momento di riportarmi a Latina.
Io rimanevo da sola in balìa dei presunti nonni e zii , persone che
sentivo totalmente estranee, ostili e di cui aveva molta paura.
Di solito, quando arriva in casa dei nonni una nipotina di pochi anni, che
vive in un'altra città, la si accoglie con gioia, con affetto, col
sorriso. Per me nulla di tutto ciò.
Ero scaricata lì in quel lurido tugurio, senza, innanzitutto, un padre
affettuoso e desideroso di starmi vicino, di costruire un qualsiasi
rapporto con me, di recuperare la lontananza; senza un gioco da fare;
senza nessuno che mi portasse almeno a fare una passeggiatina o, magari,
ad una giostra. NULLA.
Anzi no! Un cosa l'avevo da fare. Ascoltare.
Infatti, dal momento in cui entravo fino a quando uscivo da quella
prigione, la mia presunta nonna e la mia presunta zia cominciavano una
litania estenuante, all'unisono o in controcanto, di improperi, critiche,
parolacce e quant'altro nei confronti di mia madre. Falsità, giudizi
gratuiti e ingiurie di ogni genere. Ore e ore così.
Io stavo malissimo. Sentivo una rabbia enorme scoppiarmi dentro. Mi pareva
che il cuore mi palpitasse nelle orecchie. Ore e ore così.
Volevo fuggire, ma non potevo. Potevo rispondere, ma non volevo. Avevo
paura. Era gente cattiva, violenta.
Ascoltavo, stringevo i denti e tacevo. Ore e ore così.
Loro parlavano, parlavano… e io restavo seduta nell'angolo del divano e
guardavo il cielo fuori la finestra.
Volavano le nuvole, gli uccelli, la pioggia, le foglie. Liberi.
E io aspettavo.
Aspettavo che quel rettangolo di cielo scolorisse e poi imbrunisse.
Era il segnale della mia liberazione.
7.
Il matrimonio era stato religioso, ma non ne seguì
un'assidua frequentazione della chiesa.
Quando il parroco Padre Bruno, noto Dongiovanni del quartiere, venne a
sapere della separazione, convocò mia madre e le propose di sciogliere il
matrimonio presso la Sacra Rota, perché lui non gradiva la presenza di
una donna separata nella sua parrocchia.
Mia madre rifiutò sdegnosamente l'offerta, ribattendo di sentirsi una
perfetta cristiana proprio nel non voler annullare il suo matrimonio, nel
quale aveva creduto e per il quale aveva sopportato e sofferto molto. Se
la sua presenza gli pesava tanto, poteva lui cambiare parrocchia, perché
il suo problema non la riguardava.
E' abominevole come la Chiesa si erga spesso a Giudice Supremo in ogni
situazione, arrogandosi il diritto di calpestare la gente, di offenderla,
di giudicarla a priori in nome di un Dio, di cui si fa scudo per
perseguire unicamente il suo scopo. Per sottomettere moralmente, per
intimorire, per manovrare le persone si usa in modo scandaloso il
paramento, la sacralità dell'investitura religiosa. Un abuso di potere
legittimato dalla tonaca!
Per fortuna c'è qualcuno che qualche volta non si lascia intimidire.
8.
I miei genitori lavoravano presso la stessa banca,
ma in sedi diverse.
Tale banca, per la festa della Befana, metteva a disposizione dei figli
dei suoi dipendenti un budget da spendere in giocattoli in un grande
magazzino di Roma.
Poiché ero stata affidata a mia madre, ogni anno andavamo a prendere i
giochi che mi spettavano.
Una volta, arrivate al negozio, ci dissero che era già passato mio padre
per ritirare i giocattoli destinati a me: una bambola e una macchinetta
per cucire rossa. Così tornammo a mani vuote, già convinte che non avrei
mai ricevuto quelle cose.
Infatti, qualche domenica dopo, mio padre venne a prendermi e, dopo i miei
soliti strazianti rifiuti, andai con lui a Terracina.
Arrivata nella sua orribile casa, trovai su un tavolino fiammeggiante e
splendente la "mia" macchinetta per cucire e spaparanzata sul
divano la "mia" bambola.
Erano cose mie e non dovevano stare lì in quella casa con quella gente.
Subito la "cara" zia mi intimò di non toccarle: erano di
Marialetizia! L'amatissima nipote di mio padre.
E io subito decisi di ignorarle, di non reclamarle affatto.
Non mi spettavano.
Me le avevano rubate.
Punto e basta.
Il paradosso era che la tal Marialetizia era già un'adolescente e di quei
giochi se ne infischiava completamente!
Ma per loro l'importante era toglierli a me.
9.
Ero una bambina molto curata, sempre in ordine e
ben vestita.
Ricordo benissimo che per quell'inverno mia madre mi aveva comprato un
giubbino di lana celeste caldo e morbido e un paio di scarpe col cinturino
di traverso e le punte arrotondate. Mi piacevano tantissimo.
Arrivò la domenica e quella volta anche mio padre.
Trascorsi la solita "idilliaca" giornata a Terracina.
Come al solito, per tutto il tempo lui non ci fu e quindi non notò
affatto il mio giubbino e le mie scarpe.
Chiusa nel mio solito silenzio, me le guardavo e me le riguardavo.
Rivedevo mia madre mentre me le comprava qualche giorno prima e il ricordo
di lei mi rendeva felice. Mi confortava e mi dava un po' di calore dentro.
Quando la sera fui riportata a casa, mio padre, forse per sbaglio, mi
guardò e si accorse dei nuovi acquisti. Ma appena vide che mi mostravo
tutta contenta, risollevata e felice di essere tornata da mia madre, di
scatto si abbassò ai miei piedi, mi strappò le scarpe e col suo sorriso
sardonico le gettò via nel buio oltre le sbarre, nel campo abbandonato
confinante con la mia casa.
Io rimasi sconvolta nel vedere le mie amate scarpette finire così in
mezzo alle sterpaglie, però non piansi.
Se ne andò, lasciandomi sola e scalza nella scale.
Salii. Suonai. Entrai.
Quella volta non potei nascondere nulla.
10.
L'apice della cattiveria lo raggiunse un'altra
volta.
Avevo l'otite e la febbre alta.
Era arrivata la domenica e mia madre chiamò la mia dottoressa che
certificò il mio stato di salute.
Dopo un po' arrivò lui.
Quando mia madre gli spiegò la situazione e gli fece vedere il
certificato, lui, sempre col suo sorriso sardonico, lo strappò in mille
pezzi e intimò di portarmi via.
Io mi sentivo malissimo, ma la paura mi convinse ad andare.
Mia madre mi intabarrò in una coperta avvolgendola attorno al capo. Mi
coprì bene e mi baciò.
Quel bacio me lo ricordo più di tutti gli altri. Mi sembrò una
benedizione.
Giunti alla macchina, il mio caro padre adorabile, onorabile e venerabile
mi fece sedere come al solito dietro di lui, mi strappò via la coperta,
abbassò completamente il finestrino vicino al mio orecchio malato e mi
fece fare tutto il viaggio così, in pieno inverno. In aggiunta mi
minacciò di non alzare il finestrino, altrimenti mi avrebbe abbandonata
in mezzo alla strada.
Io non fiatai. Mi sembra ancora di sentire quella fitta lancinante
nell'orecchio, ma non emisi lamento alcuno. Col mio silenzio avrei
annullato la sua "geniale" trovata di quell'altra domenica da
cani.
Passando per l'Appia, all'altezza di Porto Badino, su in cima alla
montagna si vede una statua della Madonna. Io la guardavo sempre quella
silenziosa sentinella dei miei passaggi e quella volta, forse, pregai.
Oggi ancora riporto i segni di quel giorno con la sordità proprio a
quell'orecchio.
Naturalmente anche di questo "amorevole" trattamento non riferii
nulla a mia madre.
Non era necessario che sapesse. Glielo raccontai dopo molti anni.
Quando potevo, minimizzavo o tacevo totalmente su quello che mi accadeva
quando ero con lui. Ma la mia sofferenza maggiore non derivava tanto da
ciò che subivo, quanto dal dolore che egli aveva arrecato a mia madre nel
vedermi allontanata da lei e nel sapermi indifesa vicino a lui.
Quando ero via, la immaginavo sola, spenta, triste e mi sentivo straziare,
torturare il cuore. Alla sua sofferenza fisica si era sostituita la
tortura morale. E questo mi è bastato per farmi odiare mio padre per
sempre.
Potrei o, come qualcuno predica, dovrei mai perdonarlo?
NO. MAI.
Se ciò avvenisse, mi ripugnerei in eterno. Rinnegherei il tempo, i sogni,
le speranze, la serenità che egli ha distrutto.
11.
Il giorno del mio compleanno era la festa del
vicinato.
Mia madre preparava una festa ricchissima di dolci e manicaretti: quando
arrivava a casa, il pasticciere copriva tutti i mobili del salotto con i
suoi pacchi gonfi e profumati.
Per mia madre era impensabile non festeggiare il giorno della mia nascita.
Io ne avrei fatto benissimo a meno perché le feste non mi sono mai
piaciute. Per me non c'era proprio nulla da festeggiare. Mia madre non
riusciva a capire il mio comportamento e si dispiaceva, ma era più forte
di me.
Ovviamente non ho mai ricevuto da mio padre ne'un regalo ne'una telefonata
di auguri, e neanche dalla sua famiglia.
La data della mia nascita per lui era svanita nel nulla.
In ogni caso, ogni anno il rito si ripeteva.
Arrivavano decine di bambine e bambini. Io li accoglievo, ringraziavo per
i regalini, di cui non mi importava nulla, e, quando tutti si erano ben
amalgamati, mi eclissavo nel bagno a leggere per tutta la durata della
festa.
Alla fine uscivo, facevo una veloce soffiata sulle candeline e poi non
vedevo l'ora che se ne andassero tutti. Erano stati bene alla mia festa;
si erano divertiti con i miei giochi che lasciavo a loro disposizione,
rubandomene anche qualcuno. Ma non mi importava e fingevo di non
accorgermene. Beati loro!
Non era ostilità la mia. Era estraneità.
Per me era stato tutto diverso. Sentivo di avere pochissimo in comune con
i miei coetanei.
Le loro cose, i loro giochi, i loro comportamenti mi lasciavano sempre
indifferente, lontana.
Si, partecipavo ai campanoni, ai giretti in bici, ai nascondini, ma io mi
sentivo diversa.
Non era la mancanza del padre che faceva la differenza. Non mi sentivo
priva sua presenza nella mia vita. Anzi mi consideravo la più fortunata
di tutti per la madre che, in compenso, avevo. Mi sentivo fortunata di non
avere fratelli o sorelle con cui dividermela. Fortunata per la grande
unione che ci legava.
Ma con i miei coetanei restavano altre diversità che mi condizionavano.
Loro non venivano rapiti dai loro stessi padri.
Loro non avevano i miei segreti.
Loro non dovevano proteggere le loro madri.
Io si.
Queste erano differenze che continuamente mi martellavano nelle tempie.
Allora, quando non ce la facevo più a stare con loro, mi allontanavo,
tornavo a casa e mi rinchiudevo nel mio silenzio.
12.
Sulle Tavole fu scritto "Onora il padre e la
madre".
Sulle Tavole non fu scritto "Rispetta il figlio".
Si è dimenticato il rapporto causa - effetto tra questi personaggi.
La procreazione - la vita imposta e non richiesta -l'autorità parentale
in contrapposizione l'impotenza - la rassegnazione ad accettarla la vita -
la sottomissione fisica e morale.
Se il genitore vuole essere onorato deve essere onorabile.
Come potevo io provare affetto, stima, rispetto, considerazione per un
uomo che "padre" non sapeva neppure cosa volesse dire? che,
oltre alle violenze su mia madre in mia presenza, violentava moralmente
anche me ogni volta che mi incontrava? Che non ha mai partecipato alle
tappe della mia vita? Che anche economicamente mi ha privato totalmente
dell'assistenza a cui avevo diritto?
Un uomo violento, gretto, completamente disinteressato a me e infame
quando presente.
Come si può onorare un padre simile dono della Sorte?
Nessun Comandamento lo può imporre. Nessun prete lo può predicare.
Prima di tutto, invece, è il figlio che deve avere la priorità.
Ogni genitore deve inchinarsi di fronte ai diritti e alle speranze del
proprio figlio.
Nel destino di ogni bambino che nasce risiede la coppia che lo ha
desiderato e generato : i suoi genitori.
E, se anche è mancato il desiderio, egli ha diritto di veder soddisfatti
i suoi bisogni, non solo vitali, quanto affettivi.
Se, invece, è l'amore ad essere negato, allora è una promessa infranta
per sempre.
Se non c'è entusiasmo, felicità, appagamento per la sua presenza, almeno
che abbia una vita tranquilla, forse anonima, spenta, vuota, ma senza
scossoni e turbolenze che poi lo inseguiranno per sempre.
Questo "dovrebbe" essere l'obbligo morale che ogni genitore
"dovrebbe" sentire. Ma spesso ciò non accade.
I bambini sono trascurati, ignorati, lasciati a se stessi. Bambini
trasparenti. Come fui io per mio padre.
Sicuramente, come ogni bambino venuto al mondo, desideravo essere amata;
volevo sentirmi accolta; avevo bisogno di sentirmi accettata. Ma così non
fu.
Eppure ho avuto tante occasioni per stare con mio padre! Ma in nessuna ho
respirato i miei desideri, le mie speranze. Mai ho sentito un pur minimo
moto d'affetto o d'interesse alcuno nei miei confronti. Mai.
Solo indifferenza totale.
Mi perseguitava il dubbio, la sensazione di non essere capace di farmi
amare.
Cosa c'era in me che non andava? Che non faceva scattare nel suo cuore
quella scintilla, che secondo natura gli avrebbe impedito di comportarsi
come gli era solito.
Mi ammattivo a voler scoprire dentro di me quale fosse il mio
comportamento che mi faceva rifiutare da mio padre.
Non distinguevo tra quello che dipendeva da me e quello che non dipendeva
da me.
Quando incontravo le mie amichette con i loro papà, le osservavo, le
scrutavo per cercare di carpire il segreto della loro seduzione.
Certamente quando arrivava non correvo verso di lui per baciarlo e
abbracciarlo.
Certamente non ero sorridente ne' allegra. Proprio non mi era possibile.
Non mi veniva.
Restavo pietrificata, impaurita, muta.
Se non scappavo a nascondermi, serravo le mascelle e implodevo in me
stessa alla ricerca della forza necessaria per sopportare il nostro
incontro. E la fonte di questa forza la trovavo nella compassione per mia
madre, che doveva vedermi sempre presente a me stessa.
Non piangevo mai. Davanti a lui non ho mai versato una lacrima. Non me lo
sarei mai perdonato.
Ad ogni modo, superato il momento della fuga sotto il letto, il mio self -
control mi faceva apparire una bambina obbediente, docile e sottomessa. Ma
evidentemente non bastava.
Inoltre c'era un logorante senso di colpa a perseguitarmi.
Ero convinta che la mia nascita era la causa del disgregarsi dei rapporti
tra i miei genitori.
Con il mio arrivo, paradossalmente, era abortita la mia famiglia. Non
esisteva più.
Era stata la chimerica illusione di mia madre, non il raggiungimento della
sua felicità.
Ed ero stata io a rompere il suo incantesimo. Ma indietro non potevo
tornare e così mi dilaniavo senza sosta.
Non ho mai sperato ne' desiderato la loro rappacificazione, perché
mancavano i presupposti di base, e nello stesso tempo mai ho pensato che
mia madre avesse sbagliato a separarsi. Avevo solo la tragica
consapevolezza che tutto era andato storto e non c'era nulla da fare per
rimetter a posto i cocci.
Ciò contribuì negli anni alla mia totale sottomissione ai desideri di
mia madre, sentendomi felicissima di accontentarla sempre,
ricompensandola, a parer mio, del danno che inconsapevolmente le avevo
provocato.
Ma la mia corazza di notte si sgretolava, senza che io potessi impedirlo.
13.
Dormivo accanto a mia madre nel lettone.
Per un lungo periodo caddi in preda ad incubi notturni, che mi impaurivano
molto.
Sognavo tante zucche intagliate, tipo quelle di Hallowen, dal sorriso
sardonico, come quello di mio padre, che mi deridevano e volevano portarmi
via. Erano tante, su uno sfondo nero, e mi venivano incontro, mi
chiamavano e ridevano, ridevano…
Poi, all'improvviso, mi ritrovavo sull'orlo di un vortice buio, che mi
risucchiava dentro. Tentavo di non cadere, guardavo giù in fondo dove
sapevo che c'era una volpe vorace ad aspettarmi. Mi sentivo scivolare,
scivolare, mi aggrappavo ai bordi del precipizio, ma inutilmente. Cadevo e
sapevo che stavo per essere sbranata dalla volpe. Allora mi svegliavo di
soprassalto, sudata, agitata e piangente.
Mia madre si svegliava anche lei e mi rassicurava. Ma ogni sera avevo
paura di rifare lo stesso sogno, che infatti si ripresentava spesso. Durò
parecchi mesi.
Non sapendo come risolvere il mio problema, mia madre mi portò da un
pediatra, molto amico dei bambini. Questi consigliò di riportare su un
quaderno tutti i miei sogni per diversi giorni per poterli leggere ed
analizzare.
La sua conclusione fu che i miei incubi derivavano dal devastante rapporto
con mio padre e che per me sarebbe stato molto meglio essere orfana,
piuttosto che sua figlia.
Grazie papà!
14.
Ho incontrato la poesia sulle dolci labbra di mia
madre.
Un giorno, quando avevo all'incirca nove anni, mi disse:
" Vuoi sentire la poesia più bella?" e cominciò a parlarmi in
Francese. Non capivo. Alla fine me la ripeté in Italiano.
Era " L'uomo e il mare " di Baudelaire, il suo poeta preferito,
scoperto durante gli studi universitari.
Ancora oggi nel rileggerla, sento la sua voce dentro di me.
Poesia meravigliosa. Mi colpì molto quell'inno alla libertà.
Quell'immagine riflessa tra l'uomo e il mare nel loro eterno tramutare.
Quell' intima corrispondenza.
Sentii, capii bene dove risiedeva la mia libertà: nei miei silenzi, nella
mia solitudine.
Nessuna costrizione, nessuna prepotenza mi avevano ne' mi avrebbero mai
strappato, allontanato da questa dimensione interiore.
La solitudine come libertà, come autocoscienza, come forza inattaccabile.
Non avrei incontrato mai più nella vita al di fuori di me stessa alcun
concetto trascendente al quale riferirmi, nel quale cercare protezione.
La Religione coi suoi precetti e i suoi dogmi ci illude sulla vita eterna
e sulla giustizia divina.
La Scienza stabilisce leggi solo apparentemente immutabili, che spesso
sono confutate e vanificate.
La Politica ci fa sognare coi suoi ideali evanescenti.
Tutte queste certezze, regole, leggi vogliono imporre un ordine solo
apparente; in realtà ci vogliono indurre soltanto ad una sorta di
schiavitù mentale, imprigionando la nostra razionalità.
Io non mi sarei mai fatta catturare. Avrei creduto solo alle mie
capacità, ai piccoli traguardi da raggiungere giorno dopo giorno. Avrei
vissuto secondo me stessa. Solo questo sarebbe stato il mio senso.
Si, perché il senso della vita non sta al di là da essa, un senso uguale
per tutte le vite.
Ma sta qui, ogni giorno, nella verità che ogni vita è unica: può
esserci amica o nemica.
Sta a noi decidere se abbandonarci ad essa o contrastarla nella sua
essenza: con la resistenza interiore.
15.
Poi, all'improvviso, dai miei 7 agli 11 anni, mio
padre sparì. Non venne più. Evidentemente si era stancato di scorazzarmi
tra Latina e Terracina.
A me e a mia madre non sembrava vero. Io ero felicissima. Finalmente era
scomparso. In realtà, a nostra insaputa, per salvarsi la faccia,
avvicinava le persone che mi conoscevano, recitando la parte del buon
padre affettuoso ed abbandonato. Chiedeva mie notizie, si lamentava di non
vedermi e si dimostrava orgoglioso dei miei risultati. Come se fosse stato
merito suo!
Io, man mano che mi venivano riferiti questi episodi, mi chiudevo a
riccio, erigevo un muro tra me e quelle persone spesso pettegole e
morbosamente curiose. Difendevo con i denti la riservatezza della mia
storia familiare. Non dovevo dare conto di nulla. Non ci doveva essere
spiegazione alcuna delle dolorose vicende che mi avevano travolto.
Lasciavo tutte quelle persone al di fuori di me e, quando potevo, rompevo
i rapporti con chi aveva dato credito ingiustificatamente a mio padre.
Sapevo benissimo che il suo non era desiderio di riavvicinarsi a me, di
ricreare un certo rapporto.
Era solo il suo teatro.
Se davvero era pentito e voleva riparare, erano ben altre le cose che
doveva fare!
Innanzitutto chiedere scusa a me per avermi rovinato irrimediabilmente
l'infanzia e a mia madre per le violenze che aveva subito da lui senza
meritarle minimamente.
Mostrare sincero rimorso e in ultimo, ma non per ultimo, dare a mia madre
tutti i soldi che da anni le doveva per legge per il mio mantenimento.
Invece nulla. Recitava e rubava.
In ogni modo in questo periodo mia madre ed io eravamo ormai felici e
serene e non ci importava nulla dei suoi furti e delle sue pagliacciate.
Non avevamo bisogno di lui. Anzi, mi correggo, avevamo finalmente bisogno
della sua assenza. Era proprio una pacchia!
Conducevamo la nostra vita sempre vicine, affiatate, unitissime.
Avevamo tante amiche, viaggiavamo, andavamo a teatro…
Il nostro era un rapporto meraviglioso.
Indescrivibile era il nostro affiatamento.
Eravamo amiche, sorelle, compagne.
Spesso si invertivano le parti e io mi sentivo madre di mia madre. Ero
felice della sua serenità. Di me mi importava poco. Era per lei che
facevo qualsiasi cosa. Mai per me.
Purtroppo però questa nostra immensa gioia sarebbe durata solo qualche
anno ancora.
16.
Alla fine della mia infanzia, quando raggiunsi gli
11-12 anni, mi sentii pronta e abbastanza forte per affrontare l'argomento
e così rivelai a mia madre tutto quello che mi portavo dentro, i mille
episodi vissuti senza di lei e le mille parole udite su di lei.
Mia madre trasecolò, restò sbalordita. Non le sembrava possibile che io
ricordassi tante cose, tanti particolari risalenti a quando ero
piccolissima.
Intanto, per motivi di sicurezza, in quel periodo frequentavo la scuola
media nell'Istituto di suore confinante con la Chiesa del sunnominato
Padre Bruno, scuola che si trovava nella stessa strada di casa mia.
L'arrivo della figlia della "separata del quartiere" non passò
inosservato e infatti di lì a poco la cosa avrebbe avuto una certa
conseguenza.
Mi sentivo guardata con curiosità, ma cercavo di non farci caso e pensavo
solo a compiere i miei studi nella mia solita maniera precisa e
puntigliosa.
Come insegnante di Lettere avevo suor Anna; per le altre materie i
professori erano laici.
Durante il primo anno andò tutto liscio e fui promossa a pieni voti.
Alla fine dell'anno, come seppi in seguito, mio padre, in quel momento
latitante, era andato a vedere i miei risultati sui quadri apposti
all'ingresso della scuola e si era presentato alle suore, recitando la sua
solita parte del "papà abbandonato e dimenticato".
Alla ripresa della scuola cominciò per me un vero supplizio che durò due
anni.
Suor Anna aveva preso molto a cuore la mia situazione, ma dal versante
opposto alla verità dei fatti.
Iniziò ad introdurre nelle sue lezioni, in qualsiasi materia svolgesse,
dal Latino alla Storia, passando per l'Italiano e la Geografia, prediche e
ammonimenti riguardanti lo stile di vita e il futuro dei figli dei
separati.
Ovviamente trattava l'argomento secondo il suo punto di vista: le famiglie
non andavano mai disgregate, a nessun costo; i figli dei separati
sarebbero diventati degli sbandati e i genitori colpevoli dello sfascio
sarebbero stati puniti da Dio.
Le prime volte pensai che quei discorsi fossero del tutto casuali, ma,
essendo l'unica figlia di separati della classe, ben presto capii che il
destinatario delle sue prediche ero io.
Allora, come in ogni altra occasione del genere, reagii con la più grande
indifferenza.
Ogni giorno la aspettavo. Appena cominciava a tralasciare la materia
prevista per addentrarsi nei suoi soliti pistolotti, allungando al mio
indirizzo sguardi più che eloquenti, io giravo la testa e mi mettevo a
guardare fuori la finestra. Rimanevo ferma così, anche per un'ora. Ero
pratica della cosa. Mi sentivo intirizzire il collo, ma non mi voltavo
più verso di lei fino a che non aveva finito.
Lei si indispettiva molto e io me ne fregavo molto.
Non ribattevo alle sue affermazioni; non la contestavo; la ignoravo
totalmente.
Passarono molti giorni in questo modo.
Suor Anna ormai mi aveva preso in odio per il mio atteggiamento
indisponente e i voti nelle materie letterarie iniziarono a scendere,
certo non perchè io studiassi meno, ma io finsi di non accorgermene.
Ormai tutta la classe sapeva che ero il suo bersaglio e che ogni santo
giorno avrebbero sentito le sue prediche stupide quanto inutili, perché,
se anche avesse avuto qualche ragione, noi figli di separati quale
responsabilità possiamo avere di ciò che abbiamo subito contro la nostra
volontà? E perché dovremmo ricavarne un comportamento immorale quale
perenne colpa?
Per suor Anna su di noi avrebbe pesato per sempre la colpa dei nostri
genitori e ci prediceva un futuro di perdizione.
Io non capivo cosa provocava tale livore e non mi sembrava giusto che mi
trattasse come una potenziale delinquente, dal momento che invece ero una
ragazzina tranquilla, diligente ed educata.
Venne un giorno che mi stufai e la affrontai. Le chiesi il motivo del suo
assurdo comportamento e lei mi raccontò dell'incontro avuto con mio
padre. Allora mi fu tutto chiaro. La avvisai di non fidarsi degli
sconosciuti e di non dare giudizi e pareri senza conoscere la verità.
Per me il discorso era chiuso lì.
Ci eravamo chiarite una volta per tutte e basta.
Invece lei considerò il ghiaccio ormai sciolto e proseguì nel suo
"interessamento" in modo più accanito di prima.
Il desiderio di sapere qual era la verità dei fatti era enorme e lo
giustificava col fine di farmi riavvicinare a mio padre.
Ogni giorno prese a chiamarmi fuori nel corridoio della scuola, mentre
stavo seguendo lezioni di altri insegnanti, per la sua
"investigazione" privata nelle faccende della mia famiglia.
Io ubbidivo, come sempre, ma mi irrigidivo.
Lei con parole melliflue e ambigue mi si proponeva come mia confidente di
fiducia, sicura del risultato grazie all'abito che indossava. Voleva
sapere. Moriva dalla voglia di sapere come era andata.
Io, dapprima eludevo gentilmente le sue morbose curiosità, ma dopo
qualche giorno cominciai a risponderle davvero male.
Non le raccontai nulla, anzi le intimavo di pensare ad insegnare le sua
materie, invece di intromettersi in cose a lei estranee.
A muso duro le dicevo di farsi gli affari suoi e di smetterla di
perseguitarmi, perché io le avrei risposto solo nelle materie letterarie.
Nessuno le dava il diritto di chiedere spiegazioni e resoconti sulla mia
storia. Nessuno.
Ne' Dio.
Ne' mio padre.
A nessuno avevo mai permesso di invadermi, di intrufolarsi nel mio
passato. Mai. Tanto meno ad una religiosa che usava il suo status per
estorcermi ciò che bramava in quel momento la sua curiosità.
Quando suor Anna si doveva arrendere alla mia ferma resistenza, si
inviperiva e mi sbraitava contro tutta la sua rabbia, smascherando così
la sua impotenza.
Era scontro aperto.
A mia madre in quei due anni non raccontai nulla. Lo feci solo quando
uscii da quella maledetta scuola.
Quando tornavo a casa ero molto nervosa, a volte infuriata. Mia madre se
ne accorgeva, ma io zitta.
Studiavo sempre con lo stesso impegno, ma la suora continuava imperterrita
ad abbassarmi i voti.
Io non protestavo e incassavo in silenzio. E proprio il mio silenzio e la
mia ostinazione la facevano imbestialire, ma per me compensarono la
persecuzione che ingiustamente mi aveva inflitto.
In ogni modo terminai la scuola media con il massimo dei voti, perché in
sede di esame fu indiscutibile la mia bravura.
17.
Inaspettatamente, durante la seconda media, mio
padre tornò.
Una domenica suonarono alla porta.
Mia madre aprì e rimase atterrita.
Lui chiese di me e lei mi chiamò spaventatissima.
Io immediatamente presi coraggio e mi affacciai sul varco dell'uscio.
Se da piccola ero stata una roccia, figuratevi cosa ero diventata a 12
anni con il contributo ormonale della pubertà! Ero una guerrigliera.
Voleva entrare e io dissi no.
Voleva parlarmi di lui (come se non lo avessi conosciuto!) raccontandomi
una marea di sciocchezze.
Io lo smascheravo vomitandogli addosso i ricordi che mi aveva lasciato. E
aveva anche il coraggio di ribattere che erano mie pure invenzioni!
Mi rimproverava alzando la voce.
E io lo ingiuriavo alzandola più di lui.
Volevo chiudere la porta per terminare il nostro "idilliaco"
incontro, ma lui frapponeva il piede nell'apertura; allora io glielo
schiacciavo violentemente con la porta fino a fargli male.
Volevo, potevo, dovevo vincere io.
Dentro di me sentivo una forza enorme invadermi, propagare. Mi sentivo
finalmente giunta alla resa dei conti.
Ero fiera, superba, orgogliosa. Ormai non mi avrebbe più imposto nulla.
Le volte successive venne accompagnato da sconosciuti, forse per crearsi
testimonianze oculari del mio incivilissimo comportamento. La cosa mi
eccitava ancora di più, perché mi dava l'occasione di dimostrargli tutto
il mio menefreghismo nel rispondergli picche, come se fossimo stati soli
in un deserto.
Il piede il verme non lo metteva più, perché gli avevo dimostrato quanta
forza fa sprigionare la rabbia, ma quando chiudevo finalmente la porta, si
divertiva a restare attaccato al campanello anche per un'ora, pur di dare
ancora fastidio. Allora io accendevo la televisione a tutto volume per
annullare la sua presenza. Immaginate il frastuono!
Dopo un paio di domeniche così, chiamai un elettricista per disattivare
dall'interno della casa il campanello all'occorrenza e il padre
"esemplare" fu messo fuori gioco.
Scomparve un'altra volta.
18.
Durante tutti questi anni, oltre alle varie
amenità già raccontate, mio padre si dilettò anche in un altro genere
di persecuzione.
Denunciò per ben tredici volte mia madre.
Inventava motivi inesistenti e presentava falsi testimoni per suffragare
le sue ragioni.
Fu così diabolico e funambolico che perse tutte e tredici le volte!
Veniva a casa nostra per portarci le citazioni un maresciallo dei
Carabinieri, che conosceva la nostra storia e si era affezionato molto a
me. Era un uomo alto, dall'espressione buona. Vederlo mi rassicurava e mi
allarmava nello stesso tempo.
Mi prendeva in braccio; giocava con me mentre mia madre leggeva le sue
carte giudiziarie. Io lo consideravo un po' come un nonno, anche se non ne
avevo avuto uno ( in verità c'era il padre di mio padre, ma quello non
era un nonno!).
Ogni volta che veniva si scusava; era imbarazzato perché sapeva benissimo
che si trattava di pure infamità.
Mia madre, quindi, era costretta a rivolgersi all'avvocato per la sua
difesa, pur sapendo dell'inconsistenza delle accuse contro di lei.
Intanto io fremevo dalla rabbia. Per quanto attorno a me di sforzassero di
dissimulare e minimizzare la faccenda, io capivo benissimo quello che
succedeva.
Ricordo quando stavo a scuola proprio nei giorni in cui mia madre doveva
comparire in tribunale per sedere sul banco degli imputati. Era
un'immagine odiosa. Non la sopportavo.
Mi assaliva un furore enorme. Avrei voluto scappare da scuola e correre
correre per raggiungerla.
Più volte l'avevo pregata di farmi andare con lei in tribunale, ma si era
sempre opposta.
Per me pensarla sola e ancora una volta ferita era come gettare benzina
sul fuoco.
Il mio odio divampava al massimo.
19.
Passò solo qualche anno e mia madre si ammalò.
Fu una malattia grave e dolorosissima.
Io la aiutai, la sostenni e le fui vicino fino alla morte.
Aveva 49 anni e io 19. Quel giorno in parte morii con lei.
Un dolore devastante, assoluto, da schiantare il cuore e la mente.
Inaccettabile.
Rimasta sola, fui costretta a cambiare città per vivere presso parenti.
Un'altra rivoluzione per la mia vita: lasciare la mia casa, i miei amici,
il mio futuro svanito.
Dopo circa un mese, mi arrivò una lettera da mio padre, in cui osava
accusare mia madre, da poco sepolta, di avermi messo contro di lui, di
essersi intromessa nel nostro rapporto e allegava un assegno di Lire
150.000 come contributo spese.
Esplosi. Gridai. Piansi tutte le lacrime represse in vent'anni. Lacrime
dure, sassi da anni cristallizzati nei miei occhi.
Feci in mille pezzi quella lettera e quell'assegno.
Un'ulteriore onta, un ulteriore affronto a mia madre e alla sua vita
perduta.
Volevo ucciderlo. Torturarlo. Bastonarlo. Farlo divorare da cani rabbiosi.
Farlo spolpare vivo da tutti gli avvoltoi della Terra.
Ma trovai ancora una volta la forza di ignorarlo completamente.
20.
Spesso, specialmente di notte, col pensiero ritorno
a Latina.
Apro la stanza dei ricordi e mi ritrovo a camminare nella mia casa
silenziosa. Non c'è più nessuno.
Entro col pensiero in ogni stanza. Rivedo la mia scrivania, dove studiavo
e scrivevo le mie lettere. Apro tutti i cassetti e ritrovo le cose
disposte esattamente come stavano. Anche la luce chiara e serena che
invadeva la mia casa è la stessa di allora.
Risento il suono del campanello dell'ingresso. La radio in sottofondo.
In cucina l'immagine di mia nonna intenta ai fornelli è sempre lì.
Nel salotto il mio pianoforte, la mia poltrona preferita, e il telefono,
che ha accompagnato, la mia vita in ogni chiamata.
Ripercorro ogni attimo vissuto, bello o brutto che sia stato, e la
nostalgia mi assale in maniera struggente.
Ricordo quando a Natale mia nonna preparava il Presepe, sempre sul solito
mobile e mi sembra di sentire ancora la musica degli zampognari chiamati
per la Novena.
Mi tornano in mente le caldi estati e le sere trascorse sul terrazzino in
cerca di refrigerio, a guardare le stelle abbracciata a mia madre, in
compagnia delle cicale che frinivano nel campo vicino. Eppure, malgrado
tutto, mi sentivo felice.
I miei sono ricordi semplici, ricordi di bambina, ma li sento tanto più
preziosi perché di quel tempo lontano ho perso tutto. Non mi è rimasto
più nulla.
21.
Il tempo passò.
Mi sposai. Ebbi un figlio. Riconquistai una certa serenità.
La felicità, no. Non mi è stato più possibile perché il macigno è
ancora lì a ricordarmi le perdite e le piaghe del mio cuore.
Qualche anno fa mi giunse la sua ultima lettera.
Tra farneticazioni senza senso e caricature di personaggi famosi fatte da
lui, mi avvertiva che stavo per essere contattata da un avvocato, il quale
mi avrebbe chiesto di sottopormi al test del DNA, perché il mio
disinteresse verso di lui non corrispondeva a quello di una figlia
affettuosa e nutriva il dubbio sulla reale paternità.
Non sapeva più cosa inventarsi per colpirmi.
Ci feci una risata su e, naturalmente, non si presentò alcun avvocato.
Nel corso degli anni, ogni tanto qualcuno continuava e riferirmi di averlo
incontrato: chiedeva di me, "affranto e addolorato" della mia
lontananza. Evidentemente la vecchiaia non gli aveva donato la saggezza di
tacere una volta per tutte. Così, ormai adulta e indurita al punto
giusto, un giorno decisi di affrontarlo.
Il solo pensiero di risentire la sua voce dopo decenni mi inorridiva. Era
l'eco della mia infanzia perduta, di mia madre morta prematuramente, della
mia casa abbandonata.
Gli telefonai.
"Sono Paola".
"Chi Paola?", rispose. Si può mai cancellare il nome del
proprio figlio? Ogni commento è superfluo.
Gli intimai di non "cercarmi " più e gli suggerii, se proprio
voleva usare la lingua, di andare in chiesa a chiedere perdono per quanto
aveva fatto.
Forse solo in quel luogo qualcuno lo avrebbe assolto dai suoi peccati,
perché io gli avrei portato solo eterno odio.
22.
Ora è morto. Solo.
Circondato a distanza da avvoltoi pronti ad avventarsi sulle sue sostanze.
Lo hanno spolpato a dovere. Lo ha meritato.
Naturalmente ha provveduto in tempo ad elargire appartamenti e denari a
chiunque non fosse me. Ma la cosa non mi ha certamente meravigliato. Non
ho mai fatto conto su di lui. Ne'da vivo. Ne'da morto.
L'unica meravigliosa eredità che mi ha lasciato è la bellissima parte di
mia madre che per sempre vivrà in me. Grazie papà!
Non credo che si sia mai fermato a pensare a me, a mia madre e a ciò che
ha fatto. Ne'all'amore che avrebbe ricevuto, se ce ne avesse dato un po'.
Ne'al calore, ne' al conforto che ne avrebbe ricevuto, se avesse voluto
costruire la nostra famiglia giorno dopo giorno.
Suppongo che abbia vissuto immerso nel ruolo che si era creato, quello del
padre vecchio e abbandonato dalla figlia.
Quando provo a guardarmi un po' da lontano, a capire quale sia stata la
mia posizione in tutta questa vicenda, ho sì sofferto e combattuto molto,
ma mi consola il fatto di non essermi mai sentita "la perdente".
Mai.
Anche se è ovvio che io abbia perduto molte cose, morali e materiali, che
mi spettavano di diritto, il vero perdente in realtà è stato mio padre.
Ha perso la sua dignità come padre, come marito, come uomo. Ha vissuto
una vita senza valore, senza onore, senza amore. Io no.
Non mi interessa sapere dove sia la sua tomba.
Ma se la sua anima è ancora qui, allora in eterno sentirà il tormento
della mia. |