Arianna
De Luca
è dottore di ricerca in Teoria del
linguaggio e scienze dei segni, corso di dottorato di ricerca dell’Università
di Bari, e collabora con il Dipartimento di Pratiche linguistiche e
analisi di testi della stessa università. Tra le sue pubblicazioni,
Scritto nella Pietra. Lettura biblica nel romanzo di Thomas Mann, Giuseppe
Laterza 2004, e le raccolte di racconti, Il sepolcro misterioso, Schena
2004 e La danza del tempo, Schena 2001. Ha curato l’edizione italiana
del libro di Adam Schaff, Sociolinguistica, Graphis 2003. |
LA GAZZA
C'era una volta, non tanto tempo fa, una campagna
verdissima, ma così verde che fu scelta tra migliaia d'altri campi
verdeggianti come sfondo per un paio di spot pubblicitari di successo. E
per fortuna o per caso, non lo so, da un giorno all'altro essa ascese alle
luci della ribalta, per poi tornarsene ai suoi verdissimi sogni di
sconfinata quiete all'arrivo della nuova stagione.
Qualcuno, magari, avrà già intuito che era una campagna sempreverde.
Seguiva le leggi di madre natura alla lettera. Era tranquilla ma solo di
giorno. Poiché all'imbrunire, quando la notte buia spargeva le falde del
suo mantello nero per tutta la terra, invece di acquietarsi al fruscio dei
venti tra le foglie e al bisbigliare degli animali notturni, essa
improvvisamente si destava per un'altra vita. Difatti, nascosto fra le
verdi dune, da un basso casolare fumava un alto comignolo. La costruzione
era interamente rivestita di mattoni rossi sebbene un po' anneriti dal
fumo, e larga quanto bastava per accogliere i suoi tanti frequentatori
notturni. E, dovunque si volgesse lo sguardo, neppure l'ombra di un'altro
fabbricato, abitato o disabitato che fosse.
Era appunto una casa solitaria, sperduta nel verde ma non aveva per niente
un'aria triste o abbandonata. Persino di giorno. La breve terrazza che
introduceva all'uscio di casa era pulita, ben curata e piena di fiori
variopinti. In un angolo in disparte sotto alla bassa recinzione che
cingeva la veranda, giacevano più di una pila di vasi lucenti di ceramica
infilati accuratamente uno dentro l'altro come bamboline russe. Sul lato
est della casa più esposto alla luce del giorno, si apriva una finestra
dalla cornice lignea e robusta. Sul davanzale brillava invece un piccolo
diapason.
II
L'abitante del casolare sperduto nella verdissima
campagna era un ometto dalla faccia tondeggiante come Charlie Brown e i
capelli un po' radi, teneramente brizzolati. La vista doveva difettargli
poiché di tanto in tanto dimenticava sopra la testa un paio d'occhialetti
dall'ossatura un po' larga. In realtà è probabile che non li avesse mai
indossati in qualche altra maniera. Del resto, portati così, gli
conferivano l'aspetto di un artista nel pieno della sua attività
creativa. Come la famosa matita appoggiata all'orecchio del matematico
immerso in un universo d'altri mondi possibili, oppure come il carboncino
di un pittore, con la punta più morbida e smussata. Che unità di
intenti!
Come non immaginarseli, infatti, tutti e tre, dopo aver tracciato di getto
numerosi schizzi sul quaderno, mentre riprendono fiato e lasciano
finalmente che l'orecchio e gli occhi del compositore, del matematico e
del pittore misurino ogni particolare con la dovuta attenzione?
Dunque, l'uomo dalla faccetta tonda dimorava nella casa sperduta nella
verdissima campagna. Era un musicista. Aveva studiato pianoforte e
composizione al conservatorio. Amava la musica di Mozart ma soprattutto di
Brahms, e al contempo corteggiava i ritmi neri e irresistibili di numerose
bande jazz, alle prese con il ragtime degli esordi, il rock dagli
interminabili assolo mozzafiato. Ma a volte si perdeva ore e ore nella
magia strumentale di certe colonne sonore, per lui stravaganti e gustose,
come Mission Impossible. Per farla breve, non era solo un appassionato
d'ogni genere d'espressione musicale, ma la musica era il suo pane
quotidiano ovvero la sua stessa vita. D'altra parte si può dire che
avesse a disposizione una tavolozza musicale molto ricca su cui intingere
non solo la punta del pennello, ma persino tutte le dita, il palmo e il
dorso della mano! E delle sue tele c'è chi ancora sostiene che furono
sempre veri e propri capolavori! Di giorno, in assoluta solitudine, egli
lavorava con instancabile grinta e esuberanza a brani e partiture. Pescava
e ripescava dentro vecchie e nuove emozioni, attingeva linfa dagli
incontri e dalle fantasie musicali che erano appartenute alla notte
trascorsa da poco, o forse alle innumerevoli altre notti che l'avevano
preceduta. E, spesse volte, senza che se n'avvedesse per tempo, il dolce
oblio della notte era già calato.
III
Le notti, invero, erano la parte più luminosa
nella sua vita d'artista. Accadeva, infatti, che la casa sperduta nella
vastissima campagna sempre verdeggiante nonostante l'oscurità stellare si
popolasse di un'infinità di luccichii multicolori che tremolavano in
lontananza come lucciole. La porta sulla terrazza continuava ad aprirsi
ininterrottamente per ore e ore dopo che il sole era andato a coricarsi
nel buio, dietro le ultime colline. Essa aspettava un momento per poi
richiudersi con un sonoro tintinnio di campanelli svizzeri dietro le
spalle di qualche nuovo ospite. Tutti entravano tra grandi sorrisi e urla
giocose a mo' di parola d'ordine. Una gran bella stretta di mano e via! In
quattro e quattro otto piovevano sax, percussioni tra le più insolite,
pifferi d'ogni formato e foggia, e poi bassi, chitarre acustiche…,
insomma un vero e proprio arsenale da lavori in corso! E, in effetti, la
bella casetta dai mattoni rossi diventava in breve un autentico cantiere
di lavoro, come nella scena di un videoclip vecchio stampo dove il
musicista è immortalato alle prese con lo strumento.
Il giorno, invece, s'affacciava al riparo dalle luci e dai rumori notturni
quasi col timore d'avere troppa fretta, sempre molto discreto e accorto
con i sognatori. Accadeva come ad uno spettacolo al cinema o magari in un
auditorium o perché no, in teatro. Era tutto calibrato. Tutto aveva un
preciso significato. Per prima cosa sullo sfondo più remoto, fuoricampo,
poi in lontananza iniziava a diffondersi una tenue ma vivacissima
luminosità. E così via a intervalli già annunciati e precisi come la
distanza tra il tuono e il fulmine, il crepuscolo mattutino scivolava
danzando su rupi e verdi colli, poi avanzava filtrando tra le fronde ancor
più verdi giù a valle che nascondevano allo sguardo i sentieri chiari di
ciottoli e ghiaia. Infine correva a perdifiato sulla piana verdeggiante
smisurata che immediatamente brillava di luce, e solo allora salutava
ammiccando come con una strizzata d'occhio la nota casetta, per continuare
a far piroette e passi di valzer in giro per la sonnolente superficie
terrestre.
Per inciso, il cammino del giorno su questo mondo è nient'affatto
improvviso e violento. Avviene con delicatezza. Solo che l'uomo destandosi
al levar del sole sente d'essere incredibilmente indifeso. Escluso d'un
tratto dal caldo torpore del suo sonno, ha i gesti bruschi e scomposti di
chi avverte tutta la propria nudità e debolezza di fronte
all'imponderabile. E non s'avverte di nulla. Quando va bene. Altrimenti
impreca e sbraita perché vorrebbe rimanere lì dove si trova, contento e
al sicuro, invece di dover rivedere la luce del giorno. Ecco il giorno,
dunque, croce e delizia d'ogni creatura.
IV
Avvenne un bel giorno che al nuovo risveglio
mattutino l'ometto non fosse in verità per così dire proprio deliziato.
La notte era stata più civettuola del solito e si era protratta
inverosimilmente. E lui le aveva strizzato entrambi gli occhi. Se
n'accorgeva solo adesso leggendo gli inequivocabili segni di stanchezza
sul volto riflesso nello specchio. Due occhietti scuri ispezionavano tra
le fessure semichiuse delle ciglia uno dei ritratti dell'artista meno
somigliante e riconoscibile degli ultimi tempi. Con gli zigomi ancora
arrossati dal tepore delle coperte, i pochi capelli arruffati come piume
svolazzanti, l'immagine riflessa gli ricordava piuttosto un ragazzino poco
sveglio e assonnato invece dell'uomo fatto che egli era diventato.
Auguste ne fu profondamente meravigliato. Tanto è vero che indovinò
subito che doveva aspettarsi qualcosa altro in quella giornata con una
simile faccia. Era come un presentimento, anche se del tutto immotivato, e
gli balenò in mente proprio mentre stentava a riconoscere che quel volto
stanco e quello stomaco in preda ai crampi, ricordo dei bagordi notturni,
erano proprio i suoi. In principio aveva guardato quasi per abitudine. Ma
più cercava di schiudere il suo sguardo su quel viso tondeggiante più
restava indifferente. Quasi alla maniera dei gatti, o di certi animali
domestici, che torturati di tanto in tanto da bambini pestiferi nel
tentativo che possano finalmente riconoscere nella macchietta scura che si
allarga sullo specchio, o che al contrario rimpicciolisce fino a diventare
un unico puntino nero, solamente se stessi.
V
È forse vero che Auguste quella mattina trovasse
qualche difficoltà a partire con la faccia giusta ma al contempo il suo
udito funzionava perfettamente. E sì che possedeva un orecchio più che
sensibile dopo tanti anni di severo allenamento acustico. La finestra che
dava di lato sulla veranda, cinta attorno dallo steccato basso e dal
groviglio di rampicanti frammisto d'edere e buganvillee, era appena
accostata e immersa in un bagno di sole. Ma da lì fuori egli riuscì
chiaramente a sentire un coretto un po' stridulo che, dopo un inizio
incerto, piuttosto titubante, prese a lamentarsi in un travolgente
crescendo di voci a dispetto della sua fortissima emicrania. Grandioso! Ci
mancava solo questa altra seccatura. Con tutto quel che aveva da fare.
Inaudito! - ripeteva fra sé. In realtà da quando si era ritirato nella
sua bella casa di mattoni rosso-fumo, immersa nella verde quiete della
campagna come sotto ad una coperta di lana, era la prima volta, da che
ricordava, che udiva un simile cicaleccio e proprio sotto alle sue
finestre. Non era mai stato un attento estimatore degli uccelli anche
perché, strano a dirsi, capitava di rado che si avvicinassero a tal punto
al suo rifugio da poterlo in qualche maniera interessare.
In realtà fino a quel momento avevano condotto, Auguste e gli uccelli,
due esistenze parallele seppure quanto mai ravvicinate. La campagna
verdeggiante era lo scenario privilegiato delle acrobazie, delle piroette,
delle picchiate e planate, dei tuffi all'indietro, e d'innumerevoli altre
esibizioni, o semplici passaggi, di una gran varietà di volatili. Si
muovevano quasi in formazione, alla maniera del corpo alato delle frecce
tricolore. E attraversavano la volta del cielo sopra quel mare colore
smeraldo, inneggiando versi allegri ai quattro venti e slanciandosi in
alto per poi impegnarsi a turno in improvvise accelerazioni.
Ma mai nessun solista si era avventurato nello spazio sovrastante il
casolare rosso di Auguste, quasi vigesse una sorta di tacito accordo di
buon vicinato con l'uomo dalla faccia tonda. Auguste, da parte sua, aveva
il suo da fare per accorgersi del rispetto che l'allegra banda alata
attribuiva al suo mestiere di musicista. Così seguitava indisturbato a
scrivere e a sperimentare di giorno, come anche ad abbandonarsi
all'incanto d'altri suoni, di voci e storie a lui familiari durante la
notte. Ma senza darlo troppo a vedere. Auguste adorava la frenesia delle
sue notti brave. E, di conseguenza, ai suoi occhi, alla sua testa, alle
sue membra il risveglio del giorno dopo era pressoché apocalittico.
Puntualmente, dunque, egli atterriva la bontà del giorno con il suo umore
nero.
VI
In breve, quella volta fu presto mattina. E prima
ancora di recuperare a pieno la sensibilità dei suoi occhi feriti dalla
fresca luce solare, l'orecchio di Auguste rivolto in direzione della
finestra socchiusa che dava di lato al terrazzo percepì di colpo una
singolare gamma di suoni per lo più sovrapposti e confusi e tra l'altro
straordinariamente acuti. Offesi da tanto baccano, l'orecchio e Auguste si
ritrovarono di colpo sull'uscio di casa. Auguste balzò di fuori come il
più furente dei predatori, oltrepassando il portico ancora per metà
ombreggiato e le recinzioni inghirlandate d'edera e di brina lucente,
dietro il misterioso richiamo che, ad ogni altro passo, diventava più
chiaro e distinto.
Ben presto si arrestò ai piedi di uno degli arbusti dai rami pieni di
foglie verdi disposti lungo il viale che conduceva alla casetta rosso-fumo
e vide chiaramente tre minuscole creature dal piumaggio buffamente
arruffato, sporco di terra, forse dai toni scuri, che si lamentavano
rumorosamente. Là vicino trovò anche quel che dovevano essere i resti di
un nido e del rametto, spezzato forse da un improvviso colpo di vento, che
per un po' di tempo doveva averli ospitati. Invece non c'era traccia della
madre.
Bastò un'unica occhiata alla sfortunata nidiata che tutto il suo
disappunto svanì come aria. Auguste risalì verso casa, filò dritto al
terrazzo assolato, e di sotto ad una bella bambolona russa sfilò con
maestria da prestigiatore un cestello di vimini dall'orlo gentile e
arrotondato. Poco dopo era già a cavalcioni di un ramo robusto, mentre
cercava di sistemare alla meno peggio un altro ricovero tra le braccia
dell'albero oramai inondato dai raggi del sole. Al nuovo domicilio unì i
cocci del vecchio nido, perché - questo era il suo pensiero - gli
uccelletti potessero sentirsi più a casa. Dopodiché li depose là in
alto con molta cura, sollevando al cielo le dita sensibili senza fretta
come se stesse eseguendo al pianoforte un pezzo di Beethoven. Ecco fatto.
Tutto a posto. Soddisfatto, ora poteva tornare alle cose serie.
Difatti il resto del giorno Auguste lavorò febbrilmente. Saltò persino
la pausa del pranzo. Solo all'imbrunire, quando con la solita difettosa
puntualità dei musicisti la folla notturna prese a riempire a frotte
l'androne e tutto il soggiorno, compreso studio e tinello, di un'infinità
di pulsanti lucette, e l'intera casetta rosso-fumo riecheggiò di jazz,
rock e fiumi di buon vino primitivo, finalmente Auguste spiluccò
qualcosa. Per tutto il tempo egli aveva dimenticato completamente la
covata. Fino all'indomani.
VII
Pee ckaakh pee ckkaaakhhh peee cckaaaaakkhhhh… Ma
che diavolo?!? Che suono terribile! E andò avanti ancora per un pezzo
prima che Auguste riuscisse a ricordare. Poi, come il mattino precedente,
si fiondò giù per il viale dirimpetto all'alberello dove aveva rinvenuto
la nidiata. D'istinto volse gli occhi assonnati in basso dove le radici
sollevavano un poco la terra e riuscì a distinguere diversi rametti
ancora aggrovigliati l'un con l'altro. Ma il grosso del nido era ancora al
suo posto. Dunque si sporse in alto, in modo da raggiungere i pestiferi
uccelletti, e con una presa ben salda tirò giù la cesta e tutto quel che
conteneva.
Ora che li aveva davanti agli occhi, Auguste poteva osservarli meglio. Di
certo erano affamati. Strillavano senza pudore, tanto è che non
accennarono minimamente a smettere quando si ritrovarono tra le sue mani.
Tutte e tre avevano il becco nero e il corpicino vistosamente segnato di
striature di colore bianco-grigio-nero, sebbene appiccicaticcio di terra e
fili d'erba. All'estremità del dorso scuro ma ravvivato da splendidi
riflessi metallici blu e verdi era attaccata una lunga coda nera, sottile
ma elegantemente tesa, anch'essa abbellita da fluorescenze bluette. Per
quanto uno solo degli uccelletti avesse la coda a macchie più verdastre
che blu. Si trattava di piccole gazze che la madre con tutta probabilità
aveva abbandonato. Forse le aveva perse di vista a causa del ramo spezzato
e del nido andato in pezzi. Oppure, concluse Auguste, non doveva aver
gradito molto la sua intrusione nella covata.
Ad ogni modo Auguste risalì indietro verso casa con la cesta fra le
braccia. Superò un paio di porte e si diresse verso il tavolo, appena
sotto il davanzale della solita finestra, che era anche molto vicino ad
una cassapanca e al bel pianoforte a mezza coda dove egli componeva. La
posò accanto ad una pila di spartiti accatastati senza troppa cura. Poi
sgombrò il sedile della cassapanca ad angolo, lo tirò su e partì alla
ricerca di qualche vecchio scampolo per scaldare il nido. Presso il
camino, invece, recuperò alcuni rametti asciutti. Con molta attenzione
accomodò alla meglio le piccole gazze e sparì di nuovo fuori l'ingresso
di casa.
VIII
Pee ckaakh ppee ckkaaaakkhhh peee cckaaaaakkkhhhhhh…
Incredibile a dirsi! Quel curioso cicaleccio perdurava. Vibrava nell'aria
per pochi secondi. Poi cessava brevemente per riprendere il suo verso
magari con qualche variazione. Ma Auguste adesso se ne compiaceva. E poco
dopo si ripresentò ai loro occhietti imploranti proprio al seguito di
quel richiamo. Aveva racimolato un po' degli insetti habitué della
cantina, dove riposavano le cinque botti del pimitivo. E ancora una mela,
metà pera, delle foglie tenere e dai colori assortiti che Auguste
sminuzzò con estrema lentezza. A essere sinceri, non avrebbe saputo fare
di più di quanto stesse già facendo. Ora era là fermo e desiderava
soltanto che quelle creature riprendessero un po' le forze. Finalmente la
gazza con le macchie verdognole sulla coda scura si fece coraggio. E
pizzicò con il becco nero un bocconcino di quel pasto. Solo in seguito le
altre due si fecero meno ciarliere e si avvicinarono a spintoni alla più
temeraria fra loro. E infine tacquero del tutto per nutrirsi a dovere.
Auguste guardava affascinato le code brillanti dai riflessi blu e
verdastro che tagliavano con eleganza l'aria circostante quasi volessero
scandire il tempo di un'allegra canzone d'operetta alla maniera di
Rossini. E solo allora, per la verità, gli sovvenne la musica
scarabocchiata sui tanti pentagrammi, sparpagliati alla rinfusa sopra al
pianoforte aperto che lo attendeva. Allora sedette al suo sedile con lo
sguardo ancora rivolto ai suoi uccelli. E nella stanza riecheggiò il
seguito di Rossini che già aveva iniziato ad assaporare nei suoi
pensieri. Quando i tre finirono di beccare, Auguste suonava ancora. E
tacitamente presero sonno.
IX
Per un'intera settimana la casa rosso-fumo sperduta
nel gran prato verde risuonò di un'altra musica. Durante il giorno le
piccole gazze saltellavano come grilli per la stanza. Esploravano
l'insolito territorio che le ospitava con la curiosità dei bambini alle
prese con i primi passi. Spiccavano agilissimi balzi lungo i ripiani
lucidi della bella libreria in struttura lamellare, composta di vari legni
sovrapposti, che percorreva quasi per intero la lunghezza dello studio.
Svolazzavano rumorosamente dappresso al soffitto, attirate dai magici
riflessi della luce del giorno sui cristalli di grosse lampade piangenti
come chiome di salici. A volte esse sostavano sullo schienale della
vecchia poltrona dalla pelle morbida, e a tratti consunta, dove Auguste
amava sprofondare quando non si accorgeva per tempo d'essere troppo
esausto per arrivare alla camera da letto. Il sonno lo coglieva di
soppiatto e gli spalancava la notte buona che lo cullava tra le braccia
con la tenerezza di una madre.
Per di più sembrava anche che quell'appostamento riuscisse
particolarmente simpatico alla giovane gazza dalle striature verdemare
sulla bella coda lunga. Essa restava lassù a lungo muovendo ritmicamente
avanti-dietro il capino nero come per annuire. Ma chissà poi a cosa
annuiva. Da principio si trastullava con il pomello delle tende chiare,
dalla trama fittissima e dai ricami ondeggianti in pizzo, che scorrevano
davanti alla porta finestra. Ma dopo un paio di beccate decideva di
lasciare il campo al compatto vincitore non senza aver subito
impietosamente qualche duro colpo di ritorno in testa. Allora stiracchiava
le ali, s'alzava in volo con aria smarrita, ma leggera come una libellula,
e dopo qualche ardita circonvoluzione atterrava senza esitazione su una
spalla di Auguste, o persino sulla sua testa tonda a chiedere conforto.
Auguste stava al gioco. La prima volta l'aveva osservata quasi di nascosto
con la coda dell'occhio. Era piombata giù dal bel lampadario brillante
nel centro della stanza come se avesse avuto la coda fra le zampe.
Dapprima la gazza aveva esitato. Ma subito dopo aveva trovato riparo
sicuro sulla sua spalla. Quella volta si era trattenuta solo per breve
tempo, forse per un istintivo senso di pudore. Forse voleva chiedere la
sua tacita approvazione prima di addomesticarlo a fargli da spalla. In
seguito le riuscì del tutto naturale. Ripeteva la sua esibizione più e
più volte il giorno ma soltanto con e per Auguste. E non ci fu verso
perché s'arrendesse alle lusinghe di qualcun altro. Era lui ad avere
molta cura della piccola gazza. L'ometto la seguiva con occhi amorevoli ed
era commovente quando essa per risposta intratteneva gli occhietti vivaci
sul suo sguardo. Talvolta adoperava in aggiunta uno svariato repertorio
d'altri segni che a lui oramai erano divenuti familiari, come ad esempio
bei numeri compiuti con la coda e con il corpo, particolari movenze ed
espressioni del capo, per non parlare delle vocalizzazioni di cui essa
aveva già dato in precedenza abbondante prova. Auguste capiva che voleva
rendergli a modo suo un piccolo ringraziamento per l'attenzione ricevuta.
X
Non ci volle molto che le gazze presero più di una
mezza confidenza con la casetta rosso-fumo. Com'erano diventate ancora
più belle e sinuose. Al risveglio sbadigliavano un poco mentre già
rilucevano le piume nere ai primi raggi del timido sole. Si scuotevano
energicamente dal tepore del sonno e girellavano un poco in volo prima di
beccare la colazione. Ad Auguste piaceva molto osservarle mentre
dormivano, o quando si dedicavano alla loro toilette con tanta cura come
se fossero state prime donne. Certo, erano un po' civette. Ma erano anche
tanto affabili, e averle in giro per casa gli faceva bene al cuore.
Un giorno però parvero stranamente irrequiete. Saltellarono in giro per
mensole e scaffali, esplorando dovunque, e beccando monetine, piccoli
talismani, sonagli, insomma gli oggettini più invitanti e maneggevoli tra
tutti, e disordinando tra l'altro il gran mucchio di pagine scritte sul
pianoforte che andavano ad ingombrare la lunga tastiera d'ebano e
d'avorio. Da lontano Auguste seguì impassibile quelle ripetute incursioni
e gli episodi di saccheggio. Più tardi, una dietro l'altra, le gazze
s'infilarono agilmente dietro la trama grezza della tenda alta e da quel
momento furono inesorabilmente nascoste alla sua vista. Sicché prese a
diffondersi di becco in becco un ostinato picchiettare di colpi contro i
vetri, fino ad imprimervi sopra un ritmo e una rapidità tale, da scorrere
a tutta birra, come un ruscello.
Auguste immaginava le testoline nere degli uccelli schiacciate dietro le
finestre come nasi di bambini. Poi aggrottava la fronte, e sorrideva con
occhi pieni d'inquietudine. Pensò che era venuto il momento. La vita là
fuori le chiamava a gran voce. Oltre il tepore del nido che Auguste aveva
preparato per loro con tanta sollecitudine. Oltre la casa dai mattoni
rossi, e la veranda odorosa d'edera e buganvillee. Oltre il viale ombroso.
Lì correva un sentiero di luce attraverso campi sterminati e prati verdi.
Lì non sarebbero state più sole. Ogni giorno avrebbero appreso nuove
cose. Avrebbero assaporato le vere gioie terrene, le incertezze, la fame,
la fatica, e poi il volo, la ricerca, gli alberi frondosi, lo stormo, i
tramonti… Ecco, Auguste vedeva tutte queste cose chiare nella sua mente.
E come si trattasse di un altro uomo, poi, si vide impallidire, con
l'animo già sgombro dalla loro presenza, scostare con un tocco leggero le
tende dalla parete e…
XI
Al tramonto del sole l'ometto sedeva di fuori
accanto all'uscio di casa. L'aria si rinfrescava dolcemente mentre nel
cielo calavano le tenebre più solerti che avesse mai ricordato. Ogni
sospiro, ogni dito di vino che sorseggiava s'accompagnavano ad un altro
salto nel buio. Le cose tutte intorno perdevano i contorni. In un battere
di ciglia il paesaggio circostante fu sorpreso dall'oscurità. Finalmente
la notte voltava pagina ad un giorno forse un po' triste.
Eppure… di nuovo il mattino tornò a splendere. Il lieve mormorio del
vento solleticava minuscoli interstizi sulle imposte chiuse. Tutta la casa
ancora dormiva. Poiché la brezza aumentava gradatamente, Auguste non fu
troppo sorpreso quando di lì a poco sentì una serie di colpetti decisi
alla sua sinistra, di fianco nella stanza. Qualcosa aveva, infatti,
percosso e fatto vibrare ripetutamente i vetri della finestra, a tratti,
con maggiore o minore forza. Auguste venne giù dall'alto come se fino a
quel momento fosse rimasto lui stesso in volo, scivolò fuori dei sogni
infranti della notte, e finalmente si alzò da dove era seduto. Con gli
occhi stanchi e il cuore silenzioso avanzò come un fantasma nella
direzione da dove proveniva il rumore. Scostò l'uscio di casa e dal
fresco portico, con un guizzo, una gazza s'insinuò nella stanza con un
gran fragore d'ali.
Pee ckaakh ppee ckkaaaakkhhh peee cckaaaaakkkhhhhhh… Auguste spalancò
gli occhi ma non potè frenare il suo stupore. La sua magnifica gazza dal
manto splendente più nero della pece, raccolte le ali ornate di striature
verdemare come la lunghissima coda, si sollevò in alto fin quasi a
toccare il soffitto. E continuò per qualche minuto ancora a sfrecciare,
cadere all'indietro, capitombolare, ed effettuare altre incredibili
acrobazie, virate e voli radenti lungo la tenda chiara appena riscaldata
dal sole, e lungo tutta la lunghezza della stanza. Forse non andò proprio
così, forse Auguste era così preso dall'emozione, che l'improvvisa
apparizione della gazza gli toccò così dolcemente il cuore da rimanere
indelebile nel suo ricordo leggera e lieve come una carezza, come in
sogno.
Per lungo tempo l'uomo dalla faccetta tonda e la gazza sinuosa furono
insieme nella bella casa rosso-fumo al limitare di uno sterminato oceano
verdemare, dove anche i ruscelli mormoravano piano, per ascoltare la
musica che fluiva da un bel pianoforte a mezza coda. Poi, una mattina la
gazza semplicemente non venne. Restò lontano. Da principio Auguste si
stupì di non trovarla lì al suo risveglio. La chiamò più volte,
dunque, da sotto al portico. Finché capì che non sarebbe più tornata.
Allora non la chiamò più. Ma chiuse gli occhi e la rivide in sogno.
Volava con lo stormo che strideva e sussurrava lungo i prati verdi,
estranea ad ogni sforzo, come in un quieto abbandono, libera, nell'aria
blu del cielo oltre la linea d'orizzonte oramai più sottile di un filo
d'erba, …lontano, molto lontano da qui, eppure in lui trattenuta,
nell'immagine riflessa dei suoi pensieri, dove svolazza ancora.
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