Fabrizio
Rinaldi
Mi chiamo Fabrizio Rinaldi,
ho 22 anni e vivo a Ciampino. Scrivere è la mia vita. Da sempre.
Questo racconto parla della nostra società, e di un bisogno assurdo
di estetica e di bellezza. Quando invece è meglio osservare dentro
di noi e scoprire chi siamo veramente.
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LEI
TI INGANNA
Una vita come tante, la mia,
una vita orizzontale, come un film senza emozioni, quando pare di vedere
sempre la stessa scena, e più ti sforzi di seguirla e più
ti perdi nella noia.
Bel miracolo, la vita.
Ma beato chi ci crede.
Io non ho più voglia di attendere una grazia. Io prendo la vita
così come viene.
Mi chiamo Giovanni Malvisi, per gli amici Gianni. Ho 31 anni, e un lavoro
che odio e che mi logora nell'abitudine.
Lavoro in un Ufficio Postale.
Come semplice impiegato.
Sono quell'uomo che sta dietro gli sportelli, un uomo qualunque che
non si distingue mai nella folla. Sono quell'uomo a cui voi pagate i
vostri conti correnti, e ascolta le vostre prediche, e vi spiega mille
volte le stesse modalità di un pagamento, e vi indica il punto
in cui dovete firmare una raccomandata, e asseconda le vostre lamentele
quotidiane nei confronti di questa società balorda.
E tutte le mattine, alla stessa ora, io mi alzo e mi lavo, e mi vesto
con raffinata eleganza, bevo un caffè e prendo la 24 ore in similpelle
nera che è poggiata in bella vista sul corridoio, lo so questa
valigia e questa cravatta sono inutili ma servono a lasciare una buona
immagine di me e l'immagine è tutto.
Quindi apro la porta di casa e mi affaccio nel mondo.
Dietro di me non lascio un bacio, o un saluto, perchè ormai vivo
da solo da molti anni, da quando Maria è fuggita via con un altro
uomo. Un uomo, forse, peggiore di me.
Io la amavo davvero Maria, con tutto il cuore, ma non l'ho mai vista
partecipe dei miei entusiasmi, e pareva si crogiolasse con me in una
storia di sole abitudini, e niente altro.
Eravamo troppo giovani per amarci senza tempo.
Ma lei adesso appartiene al passato e a me non va più di volgere
le spalle all'indietro, perchè nella vita bisogna sempre guardare
avanti.
E quindi torniamo al presente.
A questa mattina. Uguale alle altre. Dove si ripete sempre la stessa
scena.
E lo stesso tragitto per arrivare a lavoro.
Un chilometro e passa di strada che io percorro a piedi, con la valigia
24 ore in mano, a passo svelto senza guardarmi intorno.
Solo ogni tanto alzo gli occhi sul mondo, ma sembra di vedere sempre
la stessa gente, la stessa espressione banale stampata sul viso, come
la mia, mentre trascinano la loro vita lungo un percorso che conoscono
a memoria. Come il mio.
Via Tuscolana, Roma. Subito dopo gli studi cinematografici di Cinecittà.
Solo ogni tanto alzo gli
occhi sul mondo e una folla di visi sconosciuti, e al tempo stesso noti,
perchè è come se li ho già visti, mi scivola accanto
e io mi diverto a osservare i loro abiti, e attraverso un rapido sguardo
indovinare quale mestiere li distingua uno dall'altro.
Perchè l'immagine è tutto.
Jeans smacchiati e strappati qua e là, maglietta di cotone in
tinta unita, azzurro cielo, un'andatura baldanzosa, monili e collane
vistose sulle braccia e sul collo: esperto di volantinaggio.
Ma forse oggi è al riposo, perchè non si intravede nessuna
goccia di sudore, o di stanchezza, sul viso.
Tailleur, molto elegante, in grigio cenere e un logico profumo di Chanel
che si spande nell'aria, bella donna, trucco leggere e preciso sulle
labbra e sugli occhi, e qualcosa ancora da dire, e da dare, all'universo
degli uomini: consulente finanziaria.
Lavoro prestigioso, in carriera e ogni giorno è un giorno nuovo,
un'occasione in più per mettersi in gioco.
Giacca e cravatta, blu scuro e nera, pantaloni lunghi di seta cuciti
in un tessuto elegante e antico, capelli ben curati, barba appena rasata
e un'andatura svelta, decisa, di chi ha poco tempo da perdere, ma un'espressione
annoiata sul viso: impiegato in un Ufficio Postale.
Quest'ultimo sono io, mentre mi specchio in una luminosa vetrina che
si affaccia sulla via Tuscolana.
E in quella vetrina ogni giorno finisce il gioco dei miei pregiudizi,
perchè subito dopo sulla destra c'è l'Ufficio Postale
e non ho più tempo e voglia di vagare con la fantasia. Ritorno
me stesso, più banale che mai e affronto una moltitudine di pagamenti
vari, e futili ingiurie contro il Potere e contro ogni sua istituzione.
Non gioco più, non guardo la gente, sono un automa al servizio
dello Stato.
Mille ore dopo il mio turno
si conclude e abbandono subito il posto di lavoro, saluto in fretta
e senza calore i miei colleghi, quindi torno di nuovo sulla via Tuscolana,
a rivedere la gente e a giudicare le loro vite, con un rinnovato stimolo
di percezioni dentro di me.
Pantaloncini corti, di marca, e una Polo sportiva manica corta, rosso
chiaro, e un i-pod che si sostiene con precisione tra i due indumenti
e spara una musica a tutto volume, il tatuaggio di Che Guevara sul polpaccio
sinistro : studente universitario, iscritto alla facoltà di Scienze
Politiche.
Pantaloni bianchi, trasparenti, e un tanga che lascia intravedere molto
bene il paradiso, com'è da dietro, e il resto non conta perchè
lo sguardo del mondo è calamitato tutto lì, su quel sedere:
parrucchiera, o estetista, o profumiera, o un lavoro che abbia comunque
a che fare con la bellezza.
E poi di nuovo io, in giacca e cravatta, specchiato in una vetrina che
ancora una volta mi umilia, perchè quell'abito, lo so, non si
addice a me, non mi appartiene, perchè io alla Posta ci potrei
anche andare con un pantalone in cotone jackson e una Golf camicia a
maniche lunghe.
Ma l'immagine è tutto.
O almeno io pensavo fosse così.
Fino a ieri quando Patrizia, una mia collega, mi ha detto che vestito
in questo modo sembro ridicolo, che non sono un Direttore di banca,
che a lavoro io valgo quanto lei, e lei si veste in modo tranquillo,
magari un po' vivace, ma certo non appariscente.
Mi ha scosso dal torpore, Patrizia. E io sono rimasto in silenzio ad
ascoltarla, non sapendo cosa dire.
Mi ha scosso da torpore e ieri, sulla Via Tuscolana, al ritorno non
ho più giocato.
Qualcosa si era profanato in me.
Per sempre.
E tutto questo a causa di Patrizia, l'unica persona che si presta ad
ascoltare i miei deliri, e i miei pregiudizi. L'unica collega che mi
rivolge una parola, un abbraccio, un attimo di affetto.
E io di Patrizia ne sono quasi innamorato, perchè lei mi affascina
con quei suoi capelli neri, così ricci, e un sorriso che irradia
tutto il suo volto, e una voce pura e tiepida che mi delizia come un
incanto. Ma Patrizia concede pochi riguardi verso il suo guardaroba,
osservandola per strada non si certo resta stupiti e travolti dalla
sua bellezza.
Eppure mi piace.
E ieri, con le sue parole, e con quel profumo fresco di Acqua di Colonia
che si spargeva intorno a lei, ho pensato che forse l'immagine non è
tutto.
Conta anche qualcos'altro nella vita.
Contano centomila altre cose.
Basta, ho capito, sono un
uomo nuovo, stasera torno a casa e abbandono per sempre in un cassetto
questa cravatta a tinta unita che mi irrigidisce il collo e questa camicia
che mi tiene così stretto a me e questi bei pantaloni che si
sporcano e si ammaccano in un battibaleno.
Rivoluziono la mia vita.
Domani mi vestirò in modo diverso.
Perchè l'immagine non è tutto. Forse è solo una
maschera che copre la nostra anima dal bene e dal male che portiamo
dentro.
Ma comunque ci appartiene. E non la dobbiamo trascurare.
La sveglia distrugge l'aria
e i sogni come ogni mattina, rintocca alla stessa ora, e mi induce a
svegliarmi di scatto, senza preavviso, e fuggire nel bagno per trovare
un ristoro ai miei primi bisogni corporali.
Mentre piscio, oggi, mi tornano in mente le parole di Patrizia e le
riflessioni che in me seguirono a causa di quel colloquio.
E mentre gli occhi vagano in uno sguardo confuso nel cesso, osservando
la gittata dell'urina, il mio cervello, al contrario, diventa sempre
più lucido e inventa d'improvviso il disegno di un abito che
io, da quel giorno, userò come divisa da lavoro.
Un brivido di follia.
Jeans senza marca di cotone, neri, un po' larghi alle caviglie, e
maglietta dell'Italia campione del mondo, quella più nuova, con
le quattro stelle cucite sul petto, e nessun nome e nessun numero a
identificarla con un giocatore preciso della Nazionale.
La maglietta dell'Italia. E basta.
Nell'eccitazione spalanco il mio armadio e apro il secondo cassetto,
quello dove tengo i vestiti e le sciarpe e i guanti che non indosso
mai. Rovisto tra gli indumenti con mosse celeri e in pochi secondi trovo
quello che mi serviva.
La maglietta dell'Italia campione del mondo, acquistata in una piccola
boutique del centro di Roma, pochi giorni dopo il fatidico 9 luglio.
E' finita. E' finita. E' finita. E' finita. Il cielo è azzurro
sopra Berlino. Siamo campioni del mondo!
Mi lascio avvolgere un attimo dai ricordi e poi torno di nuovo me stesso,
più lucido, o più folle che mai. Indosso la maglietta
degli azzurri, mi infilo un paio di jeans che non hanno storia né
nome, sistemo con le mani i miei capelli ed esco di casa, quindi mi
affaccio sul mondo.
Senza riflettere troppo su quello che sto facendo.
Via Tuscolana. Qualche ora dopo l'alba.
Stavolta non gioco più davvero, sono troppo eccitato da questa
mia metamorfosi e sento anche il cuore battere più forte. Osservo
la gente che mi passa accanto e che posa a lungo i suoi occhi su di
me, in un'espressione di stupore e disprezzo, o di stupore e di stima.
Eppure vedono solo un uomo.
Un uomo di circa 30 anni, con un'espressione beota e felice sul viso,
mentre si reca a lavoro con addosso la maglietta dell'Italia campione
del mondo, e porta con sé una valigia 24 ore in similpelle nera.
Un arlecchino dei tempi odierni.
Uno svitato.
Un esempio da seguire, per sfasciare questa società malata da
troppi pregiudizi.
Un'icona della trasgressione.
Un succube dei media.
Ma in qualunque maschera io appaia alla gente, oggi e per sempre, sono
ancora me stesso.
Giovanni Malvisi, per gli amici Gianni, impiegato un Ufficio Postale,
31 anni compiuti da poco.
sono sincero, ammetto che questo ruolo mi piace, provoca la gente,
la induce a guardarmi, a crearsi un'idea di me, nobile o diffamatrice
che sia, e io mi accetto ancora di più in questa nuova confusione.
La logica perfetta di ogni immagine adesso mi spaventa. E per una volta
non sono io a giudicare la gente, ma sono loro che indovinano di me.
Però non vinceranno mai.
Nessuno di loro, dopo uno sguardo fugace, penserà che io sono
un semplice impiegato delle Poste.
O forse sì?
Il dubbio mi assale, mi travolge, mi uccide.
Chi sono io agli occhi della gente? Chi sono io, guardandomi allo specchio?
Quale ombra, o luce, si riflette?
Ma basta con gli indugi. Ora si deve scoprire la verità.
Sono quasi arrivato all'Ufficio Postale, a pochi metri da me si intravede
la celebre vetrina in cui mi specchio ogni giorno, lì dove concludo
i miei giochi di sguardi e pregiudizi.
Questa mattina, invece, devo giocare con me stesso.
Per la prima e l'ultima volta.
E scoprire chi sono io, e come misura di giudizio appellarsi solo a
questi abiti che porto addosso.
Ecco la vetrina, pochi passi e sono già un riflesso luminoso.
Jeans senza marca, neri, un po' larghi alle caviglie, maglietta della
Nazionale Italiana di calcio, quattro stelle sul petto, un'espressione
stupita e sconvolta nel viso: burattino.
O un arlecchino dei tempi odierni.
O uno svitato.
O un esempio da seguire, per sfasciare questa società malata
da troppi pregiudizi.
O un'icona della trasgressione.
O un succube dei media.
O una maschera perpetua.
Ma niente è vero di tutte queste percezioni.
Sono ancora me stesso.
Per sempre.
Distolgo lo sguardo dalla
vetrina e un sentimento di euforia albeggia nel mio cuore, totale, definitivo,
e che conclude la sintesi di un pensiero nuovo, nato tra di me, in questi
giorni di sensazioni e capovolgimenti d'animo.
Il mondo non ha bisogno di un'estetica perfetta.
Perchè l'immagine
è niente.
Lei ti inganna, come un riflesso nell'acqua.
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