Sono Stella, sogno
di scrivere da quando sono nata. |
IL TRENO DI ANDREINO Il rumore della carta lacerata rompe il silenzio, la tensione e l'attesa di otto bocche spalancate è amplificata dal lieve fruscio della foglio che scivola fra le dita nodose dell'anziana. <E' Andreino> sussurra la vecchia placando la curiosità degli astanti <E' vivo. Torna domani>. Il gruppo di persone vacilla come una nave traghettata dalle onde, le donne piangono tacitamente, gli uomini, contadini rudi e vigorosi, si stringono virilmente le mani, a loro non è concessa l'emozione, l'unico grido di gioia pura e incommensurabile, che libera i cuori di tutti, relegati in determinati ruoli, è quello di una bambina magra, gracile, che porta nell'espressione triste e curiosa, i segni di una guerra appena finita, di una guerra conosciuta soprattutto attraverso il racconto dei fratelli o di quelli che si erano spinti lassù, fra quelle colline selvatiche e impervie, per trovare un rifugio se non accogliente almeno sicuro. <Leggete, leggete mamma, cosa dice la lettera?> <Arriverà domani alla stazione giù in città.> <Con il treno? Possiamo andare a vedere, vi prego, possiamo > La donna si siede lentamente accanto al grande camino scoppiettante nonostante il caldo di una sera di luglio, muove con forza il piccolo paiolo, troppo misero per la cena di dieci persone, anzi di sei uomini, tre donne e una piccoletta, si aggiusta il fazzoletto fiorato che le copre quasi religiosamente i capelli e aspetta che si crei la giusta attesa, quella lieve tensione che rende ogni risposta bramata, ogni desiderio unico, speciale. <Solo se ti accompagnano i tuoi fratelli, da sola no.> le parole spesso sono come un dono e questo caso non fa eccezione. La bambina inizia a saltellare per la grande stanza, i suoi capelli neri come la notte disegnano nell'aria strane danze <Vi prego venite, andiamo, per favore.Vi regalo Fioravanti.> I ragazzi si guardano, scavano attentamente gli uni nei volti degli altri, facce segnate dal lavoro e dalla fatica, visi di vecchi, rughe di una vita già vissuta completamente, nonostante l'età. <Fioravanti, è piccino, un po' malconcio, ma con uno sforzo può diventare un buon agnello. Va bene, io ci sto.> La piccola corre verso il fratello più basso e bitorzoluto e lo abbraccia con forza. <Va bene, va bene, ti accompagnamo noi.> <Ora fila a dormire che domani sarà una giornata impegnativa, prendi la tua scodella di polenta e poi dritta a letto.> interviene l'anziana. <Va bene mamma, ma domani verrete anche voi?> <No, io rimarrò qui a preparare la casa per il ritorno di vostro fratello, ma ora mangia, da brava!> La cena frugale è ora un ricordo per la bambina che, cullata dal tepore della notte, si rigira nel letto senza prendere sonno, accanto a lei, la sorella dorme rumorosamente, mentre dall'altro capo del materasso, un fratello sfoglia attentamente un vecchio giornale regalatogli dal barista del paese qualche settimana avanti. L'oscurità non è ancora scivolata nella luce dell'alba quando la bambina si alza, si veste ciecamente e chiama con un flebile sussurro l'uomo che dorme in un giaciglio singolo nell'angolo più estremo della stanza. <E' ora, dobbiamo andare, altrimenti Andreino e il treno arrivano e non riusciamo a vederli; dai, vestiti!> Tre giovani anziani abbandonano velocemente i loro sogni per rituffarsi nella realtà, che, però, almeno per quella giornata, sarebbe stata come un felice volo onirico. L'anziana madre li attende seduta al tavolo della cucina, attenta e vigile come se un lungo sonno l'avesse accompagnata per lunghe ore. I quattro fratelli escono nell'aia, sbattendo il volto addormentato contro il caldo umido della campagna, solamente quello più basso torna indietro, bacia la donna e prende un fagottino vellutato che essa gli porge. Con estrema cura estrae dall'involucro verde un oggetto preziosissimo, l'unico esemplare che la sua famiglia possiede, una sorta di talismano per le occasioni speciali. Ha un cinturino di cuoio marrone e una piccola cassa tonda con i bordi e i numeri dorati. L'orologio indica le cinque e trenta. I tre uomini inforcano le biciclette, la piccola invece siede su una delle canne arrugginite dal tempo, e via, giù dalle discese veloci come lepri e silenziosi come gatti. Gli alberi scuri li accompagnano per un lungo tratto di strada, le curve morbide li guidano verso i paesi conosciuti, l'aria sferza i loro visi. Volano sopra quelle colline così amiche, così madri, così compagne, volano tendendo le orecchie in cerca di un rumore ignoto, ma immaginato migliaia di volte, ascoltano fra il sibilare delle ruote e il fruscio delle foglie, un suono pomposo ed imponente, un eco di ferro e progresso, la voce mai udita ma presente già da molto tempo nella loro fantasia. <Ciu> un boato lontano irrompe nel silenzio di quella corsa tra la l'asfalto e i verdi pendii, la lena aumenta, l'attesa, ormai, deforma i loro volti. <Ciu> <Lui è più svelto di noi, corriamo, altrimenti non faremo in tempo> urla la piccola nella velocità dell'ultima curva che, dalla campagna, li infila dritti dentro un mondo sconosciuto, moderno. La città. Svoltano a destra, la stazione è lì, imponente e difficile; abbandonano i validi destrieri lungo un muro e si tuffano nel rumore di ferraglie e voci trepidanti. Il treno arriva maestoso ed ammiccante, scorgono i suoi occhi nell'orizzonte del lungo binario, il suo tuono porta allegria e frenesia, porta Andreino. La bambina trema, i suoi occhi di volpe, brillano nella luce. <Ciaaa> l'animale si ferma con un fremito ed un sibilo, le porte si aprono magicamente e Lui, partorisce dal suo ventre decine di persone. Gli sguardi dei quattro scivolano fra la gente, le loro orecchie intorpidite sono tese alla ricerca di un suono familiare. <Ciu> il treno riparte, lento e incombente come la guerra appena finita, il suo eco è cupo, tetro, quasi cattivo. I fratelli rimangono soli, sulla banchina, impietriti dal rumore. Andreino non è sceso, la belva l'ha tenuto con sé nelle sue viscere metalliche. Andreino non tornerà più. |