Marco Martini

Sono un aspirante scrittore. O meglio, scrittore
lo sono già, desidererei soltanto farmi conoscere un pò giro.
A voi questo mio racconto ed ai lettori l'ardua sentenza!

Normale amministrazione

Il sole spezzava ormai il tenue gioco d'ombre della stanza, la sua vivida luce tagliava come l'affilata lama di un rasoio la pelle scura dell' appartamento e tali erano gli effetti che il mio stesso corpo mi trasmetteva. Confusione e dolore. Per tutta la notte, solo confusione e dolore avevano accompagnato il mio debole sonno, impedendomi così di scivolare dolcemente nell'accogliente abbraccio di Morfeo. Ma nell'incoscienza del dormiveglia anche i taglienti morsi della mia coscienza erano assopiti, anche le febbricitanti domande della mia mente languivano e ciò dava un pò di requie al mio cuore ormai sfinito. Ora, però, l'implacabile carro di Apollo aveva ripreso la sua corsa nel cielo, e con esso una nuova giornata carica di chissà quali spaventose conseguenze ... La testa mi pulsava, enormi martelli battevano con mostruosa e crudele forza le cavità indifese del mio cervello e i sordi rimbombi da essi prodotti, simili alle campane dell'Ade, se mai l'Inferno può averne, mi rintronavano a tal punto che solo al prezzo di erculei sforzi, tali a me perlomeno parvero, riuscìì a sollevare le coperte e ad aprire finalmente gli occhi. Fu come sintonizzarsi sulla stazione televisiva di uno di quei canali inaccessibili, pieni di interferenze e di disturbi, o come capitare nel bel mezzo di una cervellotica partita di scacchi senza più aver idea di che mossa fare, logorandosi in un eterno stallo. Quando finalmente il mio cervello riuscì, dopo alcuni minuti, ad impartire i primi ordini motori alle mie estremità, ed ebbi appoggiato un piede sul pavimento, una domanda, che divenne quasi un grido, tanto fu improvvisa e lacerante, mi sorse immediata : che diavolo era successo ieri notte? Cosa potevo aver commesso di così sfibrante, devastante e nello stesso tempo di così totalmente estraneo e lontano? Mi avvicinai tremante allo specchio credendo di incontrare il volto deforme e raccapricciante di un novello Mr Hyde, o la tela del famoso e osceno ritratto di Dorian Gray, ma la superficie liscia sulla quale mostravo le mie sembianze mi trasmetteva solo l'immagine di un viso terribilmente stanco e terribilmente provato da chissà quali notturne esperienze... Una generosa dose di caffè non migliorò certo la mia memoria né lenì il martellante pulsare delle mie tempie, ma risvegliò però il mio senso di responsabilità ed il ricordo dei miei prossimi, presenti impegni. Mi sembrava oltremodo evidente che strisciare boccheggiando come un ubriaco non era il modo più felice per presentarsi al lavoro, pur essendo il capo della baracca e quindi ben sapendo che nessuno avrebbe avuto da ridire. Comunque non mi importava nulla degli affari e delle transazioni previste, per quanto ingenti e lucrose fossero, oggi non era proprio giornata, così dissi a Susanne, la mia segretaria, e quando le sbattei il telefono in faccia urlandole che pagavo profumatamente decine di leccapiedi che avrebbero dovuto essere in grado di sostituirmi, la mia emicrania, se possibile, era perfin aumentata. Ed ora? Di dormire non se ne parlava proprio, e poi, solo l'idea di ripiombare nei tormentati incubi della notte precedente mi spaventava, o forse mi atterriva l'idea che proprio i sogni mi avrebbero potuto riportare alla mente i veri ricordi di una sera che sempre più assumeva i connotati di un pauroso labirinto degli orrori. Aria pura, aria fresca ci voleva, dovevo uscire al più presto, subito, immediatamente. Mi catapultai letteralmente in strada, e come una freccia scoccata da un arco impazzito saettavo fra la gente, scansando malamente le persone a furia di spinte e gomitate, vagando come un pazzo, senza meta, mina vagante in un oceano di folla. Mi sentivo male, dannatamente male, fuori e soprattutto dentro di me: sentivo le gambe molli, la testa come un macigno di cemento e nello stesso tempo, come gli sciamani delle tribù indiane, parevo posseduto da una strana, ossessionante forza che mi spingeva ad andare avanti, senza meta, avanti, avanti... Quand'ecco che i miei strascicati passi, nel loro penoso errare, mi portarono nei pressi di una delle tante uscite del metrò di cui la nostra oscura e superba Parigi é così piena, e per un attimo il mio stupore e la mia sorpresa furono così grandi che mi bloccai proprio nel bel mezzo della sudicia via. Per un secondo, un solo interminabile sfuggente lunghissimo effimero secondo, qualcosa sfrecciò nei più celati meandri della mia mente, qualcosa sfrecciò, e scomparve di nuovo nella nebbia dell'incoscienza. Decisi di scendere lungo la scalinata che portava alle fermate sotterranee e, man mano che scendevo, era come se sentissi che tutti i mali del mondo si catalizzassero proprio lì, nella sconosciuta fermata di Couronnes, era come se avvertissi che, una volta disceso, non sarei mai più uscito da quel luogo infernale. E pareva proprio una bolgia dantesca quell'immenso e disordinato andirivieni di persone tutte indaffarate, frettolose e impazienti, e pareva proprio il traghetto di Caronte il lucido, sinuoso, quasi mostruoso metrò che stava arrivando. Con un guizzo improvvisato, decisi di prenderlo. Ovviamente, non avevo alcuna ragione di farlo, né avevo alcuna destinazione da raggiungere, ma viaggiavo, mi muovevo e questo mi aiutava a non pensare o meglio a non partorire fantasie sempre più assurde e ardite alle quali non dovevo assolutamente abbandonarmi. Il mio sguardo si perdeva nel buio delle gallerie sotterranee e, in prossimità delle fermate, indulgeva sulle massaie sfinite dai massacri della spesa, sugli ambulanti fiaccati da giorni di cittadino vagabondaggio, sugli straccioni che per cinque franchi quotidianamente svendevano la loro dignità e... Un'altra galleria interruppe le mie considerazioni, e mi diede la netta senzazione che avesse interrotto anche qual cos'altro perché sentii che dentro, nel profondo, il lucchetto che serrava la porta del mio incubo aveva scricchiolato, seppur sommessamente, ma nulla di più riuscii ad intendere. Decisi di scendere. Mi ritrovai a Pigalle, forse una delle zone più famose e famigerate di Parigi, dove il sesso viene venduto per la strade e i gestori dei locali vengono a prenderti per la giacca per convincerti ad entrare, e tutto questo a pochi passi da una delle più belle e poetiche chiese della città, Sacre Coeur. Quali incredibili contraddizioni nasconde questa immensa megalopoli a volte così scintillante e piena di charme, e a volte così povera e fredda... Ma adesso non avevo tempo per simili letterarie riflessioni, erano troppo lussuose per uno che ancora non riusciva a capire cosa aveva fatto la notte precedente e che man mano che procedeva nel labirinto delle sue memorie continuava a rimanere sempre più invischiato nei rami di un'amnesia che non aveva alcuna ragione di essere. E poi, permaneva quella strana senzazione di aver afferrato anche solo per una attimo un barlume di verità e di averlo perso altrettanto velocemente, ed era una sensazione frustrante, avvilente, sconfortante. D'improvviso il mio stomaco mi ricordò, con davvero scarso e deplorevole tempismo, che non avevo fatto colazione, quindi pensai che forse un pò di cibo avrebbe non solo placato la fame ma avrebbe anche migliorato le mie attuali, scarse, facoltà mentali. Entrai in un bistrot. Stavo per prendere un croissant quando la mia vista cadde su una splendida, ordinata e seducente fila di liquori esposti sulla lunga mensola del locale. La mia bocca impastata si perse nel ricordo del piacevole e inebriante gusto dell'alcool che ti scende giù in gola e ti riscalda le budella e, in un attimo, i miei occhi furono catturati dal magico scintillio delle bottiglie. Era tanto che avevo smesso di bere, ma in questo caso ne avevo proprio bisogno, dovevo assolutamente tirarmi su, in fondo, avrei fatto solo uno strappo alla regola. Ordinai un bicchiere di cognac, poi feci il bis. Uscii soddisfatto e molto più rilassato, ora vedevo le cose in modo molto diverso : capii che mi ero preoccupato per niente, probabilmente avevo solo passato una notte brava in compagnia di qualche donna conosciuta a una delle feste di Pierre, ed ero tornato a casa stanchissimo. Ed ubriaco, probabilmente. Già, oh bé, non era successo nulla di grave, in fondo si trattava solo di uno strappo alla regola, che male c'era, dopotutto, a lasciarsi un pò andare ogni tanto? Anzi, visto che avevo già bevuto la notte prima ora si trattava solo di una continuazione, non di una ripresa, giusto? Questa considerazione mi rassicurò e fece cadere anche l'ultima barriera che la mia coscienza e il mio buonsenso avevano faticosamente alzato in questi ultimi, lunghi mesi. Rientrai nel locale e mi comprai una bottiglia di Contreau. Adesso potevo anche tornarmene a casa: mi ero buttato alle spalle i miei stupidi problemi, la mia emicrania era solo un pallido ricordo e quindi potevo ben festeggiare con la mia bella bottiglia la ritrovata serenità, e domani sarei tornato tranquillamente al lavoro. Volevo fare un giro più lungo per ritornare, tanto avevo tempo, quindi cambiai fermata del metrò e feci un paio di cambi di linea. Era piacevole viaggiare sorseggiando un pò della mia bibita e mi facevano ridere le occhiate di rimprovero e di sdegno che i borghesucci perbenisti mi scoccavano disgustati. Oh sì, mi facevano proprio ridere, erano tutti seri e compiti ma i loro occhi bramosi tradivano il desiderio di imitarmi, poveri ometti ottusi e invidiosi. Andate pure a lavorare, dicevo loro, e attenti a non arrivare in ritardo, ma loro facevano finta di non sentirmi. Oh sì, mi facevano proprio ridere. Arrivai alla mia ultima fermata. C'era la solita enorme confusione di tutte le fermate del metrò di Parigi, però in questa mi pareva ci fosse una folla e un trambusto eccessivi, e le grida concitate si levavano nitide anche alle mie orecchie resa già un pò sorde dall'alcool. Incuriosito, mi avvicinai e notando che il blu delle uniformi della polizia era il colore dominante capii subito che probabilmente si trattava di uno di quei soliti atti vandalici o di varia delinquenza giovanile ormai così frequenti in questa marcia città. Stavolta però la folla era veramente numerosa e mi costò molta fatica e parecchie gomitate riuscire a farmi strada tra di essa, ma immagino che il puzzo di alcool che mi portavo addosso contribuisse a darmi una mano, cosicché riuscii ad arrivare proprio davanti al cordone dei poliziotti. Ciò che vidi, in verità, superò di molto le mie aspettative: il nero sacco funereo e i segni di gesso sul pavimento che disegnavano il corpo della vittima non lasciavano adito a nessun dubbio, si trattava di un morto. Anzi no, come presto intuii dal brusio della gente, si trattava di omicidio, l'uomo era stato assassinato a colpi di coltello, un delitto efferato e crudele. Assassinato. Rabbrividii. - Era solo un barbone, non aveva soldi, perché mai avrebbero dovuto ammazzarlo? - si chiedeva una signora. - Maniaci, i soliti drogati - rispose qualcun altro. Non volli sentire altro ed iniziai a indietreggiare, dapprima lentamente e con circospezione poi sempre più velocemente. Avevo paura, non so neach'io il perchè, e tremavo così violentemente che ebbi il timore, questo sì, di avere il tanto paventato attacco di delirium tremens, lo spauracchio di tutti i forti bevitori (come eufemisticamente amavo definirmi). Solo quando finalmente ebbi divorato l'ultima rampa di scale e mi ritrovai fuori, all'aperto, sotto il grigio e plumbeo cielo di Parigi, solo allora riusci a tirare il fiato e ad avere la forza di accasciarmi sulla prima panchina libera. Sentivo il sudore colarmi giù dalla fronte e il cuore tornarmi a battere nuovamente a mille all'ora, con un sorso finii la bottiglia ma non servì a nulla, una domanda continuava a rodermi, schiacciarmi, inchiodarmi. Crudelmente, inesorabilmente, impietosamente. Ero stato io? L'avevo ammazzato io? Era impossibile, io, ammazzare uno sconosciuto, un barbone, a colpi di coltello... Uno che non mi aveva fatto niente, come avrei potuto essere così pazzo e così crudele! Era impossibile, era... Era vero. All'improvviso mi ricordai tutto: sì, ero andato a una delle solite feste di Pierre e sì, avevo bevuto, troppo, probabilmente, ma la serata non era finita lì. Come in uno di quei film gialli a sfondo psicologico che tanto appassionano le casalinghe sole, rividi come in un flashback tutto ciò che mi era successo e tutto ciò che avevo fatto e, proprio come in quei film, la verità si rivelò inaspettata e terribile. Era tardi, e pioveva forte, molto forte: la mia macchina arrancava penosamente per la strada di casa , gemendo e sbuffando, quando a un certo punto pensò bene di esalare l'ultimo respiro e di inchiodarsi nel bel mezzo della strada. Imprecando, scesi e controllai il motore ma ero troppo brillo per capirci qualcosa e poi quella carretta non aveva mai funzionato bene... Mi guardai attorno e notai quella che allora stolidamente definii una provvidenziale uscita del metrò e decisi quindi di abbandonare la macchina, in un paio di fermate sarei arrivato a casa e avrei recuperato l'auto l'indomani. Feci una corsa per non bagnarmi troppo. La stazione del metrò era deserta ed io, reso furioso dall'inconveniente e vivace dall'alcool, iniziai a gridare e bestemmiare urlando a squarciagola per meglio sfogarmi. Ma non ero solo. Un vecchio e sporco barbone mi si parò all'improvviso davanti, evidentemente risvegliato dalle mie urla selvagge. Il suo viso si perdeva tra i sudici riccioli e la barba incolta,aveva i vestiti a brandelli e il suo puzzo era rivoltante, l'aspetto ripugnante. Queste senzazioni mi colpirono come uno schiaffo, mi investirono come una tempesta, mi lasciarono totalmente interdetto, incapace di reagire a tale disgustoso spettacolo. In breve, mi spaventai. Lui continuava ad avanzare verso di me, continuando a balbettare frasi incoerenti su carità, cibo e soldi, ma niente di questo faceva parte del mio repertorio ed inoltre ero maledettamente impaurito, tanto che iniziai a indietreggiare, sempre con l'occhio fisso su di lui. Come spesso capita a chi cammina senza guardare dova va, mi ritrovai con le spalle al muro, sbattendo la testa. In quel momento non mi passò neanche per l'anticamera del cervello che avrei potuto svicolare, ripercorrere le scale e scappare via, e la botta alla testa non mi rese certo più ragionevole, anzi, un accesso d'ira mi colse. Fu in quel momento che, chinandomi per il male, trovai... Trovo spontaneo chiedermi se quella non fu una mossa di un demone perverso oppure una semplice, fatale coincidenza di un crudele destino, ma certo non fu la Provvidenza di manzoniana memoria. Trovai un coltello. Non appena lo brandii e vidi la sua fredda lama scintillare, il sangue mi montò alla testa, con un balzo mi rialzai e... Da allora in poi ricordo solo rosso, solo il rosso del suo sangue. Nient'altro. Nient'altro. E ora mi trovo qui, su questa panchina, solo, a dannarmi l'anima. Ma prima di abbandonarmi ai rimorsi e a un'altra bottiglia di liquore devo ancora scoprire una cosa: se sanno che sono stato io, se sospettano, se qualcuno mi ha visto. La cronaca nera di Le Monde é al solito copiosa e fitta di trafiletti e proprio in uno di questi trovo ciò che mi interessa. "Barbone assassinato a colpi di coltello" "La polizia brancola nel buio. Un altro omicidio destinato all'oblio e a un assassino senza nome?" Leggo attentamente quel poco che c'è da leggere e, lentamente, un timido sorriso inizia ad affiorare sulle mie labbra. Nessuno ha visto nulla, non hanno indizi, non hanno un volto, la fermata era deserta, nessuno può aver sentito nulla ,e poi, non é morto facendo molto rumore... Nessuno potrà mai accusarmi, sono salvo, a meno che la mia coscienza non mi imponga di presentarmi al commisariato. La mia coscienza? Ah, anche quella non fa parte del mio repertorio! Rido, finalmente sollevato, ma poi le mie risa si smorzano, all'improvviso, poichè il mio sguardo, per la prima volta nell'intera mattinata, cade sulle mie scarpe. Sangue. C'é il suo sangue sopra le mie scarpe, ed é tutta la mattina che ci giro per Parigi! Tremante, mi guardo con aria perduta intorno a me, quasi aspettando l'arrivo di un gendarme che venga ad arrestarmi e a sbattermi in cella. Ma ciò che vedo é solo la consueta e tranquilla indifferenza cittadina: la gente non ti guarda in faccia, figuriamoci le scarpe! Allora strappo proprio il foglio della cronaca nera e mi pulisco diligentemente le calzature, fischiettando. Al termine, guardo soddisfatto il mio lavoro, appalottolo la carta e la butto via. Visto, mi dico, com'é facile lavarsi del sangue? Oh sì, proprio facile. E mi viene da ridere.


CUBA LIBRE

Rodriguo aspettava pazientemente che il violento acquazzone tropicale esaurisse la sua furia, aspettava, tanto non aveva niente di meglio da fare. Il suo sguardo stanco e annoiato si posava in modo svogliato ora sui mocciosi impegnati a lavarsi nelle grandi pozzanghere, più simili a crateri, in verità, ora sulle scassatissime e monumentali auto americane che procedevano a un ritmo ancor più lento del normale.

Aspettava, certo, aspettava che la pioggia finisse, ma dalla sua vita non si aspettava proprio niente.

Il solito black-out di fine giornata rendeva la calura della catepecchia in cui viveva di una temperatura insopportabile, la sua pella grondava di sudore e, nonostante non indossasse che dei pantaloncini, aveva così caldo che si sentiva come una poltiglia di fango ormai prossima a sciogliersi. Anzi, a volte aveva perfino paura che la pioggia contribuisse ad accellerare il processo di scioglimento, aveva paura che le sue braccia, inutilmente protese in cerca di un poco di frescura, fossero proprio le prime a staccarsi.

Altre volte ci sperava, sperava di perdersi, di annularsi, scomparire in un uragano che lo portasse per sempre via da lì, da una terra dove anche la pioggia era calda, dove il sole ti spacca la testa e ti impedisce di pensare, dove non ti é permesso pensare.

Magari in America.

La pioggia stava diminuendo e qualche passante, timidamente, si affacciava sulle strade.

Rodriguo si era inventato un'occupazione: si divertiva a seguire con lo sguardo la gente che passava per la strada, li osservava, li studiava in modo silenzioso e discreto. Avrebbe potuto riconoscere un cubano anche solo dal suono lento e strascicato dei suoi passi, mentre quelli dei turisti, anche nelle giornate più calde, quando il sole si fa cocente e implacabile, erano sempre frettolosi e inquieti. Se poi apriva gli occhi, bè, le differenze erano così evidenti che ti colpivano con la stessa intensità di un pugno dello stomaco. I turisti, con i loro cappelli tutti di colori sgargianti e variopinti, erano come rossi funghi in un bosco, in stridente e perenne contrasto con l'uniformita delle teste nere e nude degli habaneri. I turisti, con le loro magliette tutte scritte e tutte colorate, con i loro orologi e le macchine fotografiche, con le loro sigarette americane e gli occhiali da sole all'ultima moda, sapevano di portare addosso più soldi di quanto un cubano potesse guadagnare in un anno?

Sapevano quanto lui li odiava e quanto li....invidiava?

Si infilò un paio di ciabatte ed uscì fuori di casa.

La pioggia era appena cessata, eppure era come non fosse successo niente: l'acqua stava già evaporando e per le strade si respirava la solita, insopportabile afa. Guardò con una punta di disprezzo, ma anche di rimpianto, i bambini che si rallegravano delle vasche d'acqua lasciate dal temporale e che vi si buttavano dentro, spruzzandosi e ridendo come se si trovassero alla Playa de l'est, evitò i soliti sguardi tristi degli altri ragazzi che, come lui, erano prigionieri di grandi sogni e di una triste realtà, e si lasciò alle spalle le strade tortuose dell'Habana Vieja.

Se anche lui avesse avuto a disposizione una di quelle grosse e rumorose macchine americane, avrebbe corso per tutta l'Havana, avrebbe gustato il vento fresco scorrergli tra i capelli, sulla faccia, e si sarebbe spinto lontano, fino al mare, fino a quelle loro meravigliose spiaggie bianche dal mare turchino, e ci si sarebbe buttato dentro sguazzandoci allegramente, proprio come un turista. Ma non aveva una macchina e i turisti davano passaggi solo alle ragazze compiacenti, bè, in verità, una volta un tedesco grassoccio e tutto sorrisi l'aveva invitato caldamente a fare un giro con lui, e il suo sguardo aveva indugiato lungamente sul corpo di Rodriguez....

Ma lui non era certo una puta nè un mariquon!

E poi avrebbe preferito morire di fame piuttosto che vendere il proprio corpo per una manciata di miserabili dollari! Litigava sempre con le sue sorelle per questo, ma loro non ascoltavano, dicevano che così guadagnavano più soldi dell'intera famiglia, che era grazie alla loro "disponibilità" e ai soldi dei turisti se riuscivano a tirare avanti, e che proprio grazie a un turista un giorno avrebbero lasciato quello schifo di paese. E poi, lo facevano tutte!

Maledetti turisti, maledetta vita!

Passò davanti a uno dei tanti slogan che il buon Fidel da anni gli sciorinava: "Socialismo o muerte!", "Cuba libre"..... Cuba libre?

Cosa significava "Cuba libre"? A Cuba si era liberi solo di fare le pute e di mostrarsi compiacenti verso turisti arroganti che venivano solo in cerca di sesso mercenario e di facile piaceri da consumarsi all'interno di favolosi hotel, barricati in camere dotate di luce ventiquattr'ore su ventiquattro e di tutti i comfort, lontanissime dalle loro strade sporche e dalle loro camere buie e senza aria condizionata.

Cuba libre? Ma quale libertà poteva mai esservi in uno stato che proibiva l'espatrio, le libere idee, il libero pensiero? Quale libertà da parte di una polizia i cui controlli talmente asfissianti ti facevano passare la voglia di uscire di casa?

Per lui "Cuba libre" era soltanto il nome di un buon cocktail, niente di più.

Sapeva dove i suoi passi lo stavano portando, verso il Malecòn, il grande lungomare che si snodava per più di tre miglia, meta preferenziale di sfaccendati, venditori di sigari e di rum di contrabbando, amanti, truffatori e, naturalmente, di pute.

I turisti che, ingenuamente, decidevano anch'essi di sostarvi, venivano presto circondati da ogni sorta di offerte e di richieste e finivano spesso per tornarsene ai propri hotel con un pacchetto di Montecristo o una bella ragazza a braccetto.

I turisti......forse faceva male ad odiarli, in fondo, era Castro a volerli, e il lider maximo non poteva certo sbagliare, no? Dopo il crollo della Russia erano rimasti ormai completamente isolati, l'unica bandiera rossa in un continente dominato dal colosso americano, cos'altro potevano fare se non affidarsi a quest'ultima risorsa, l'unica che potesse valorizzare la bellezza della loro terra? Eppure il buon Fidel si rendeva conto della portata devestante di quegli allegri funghetti sul suolo cubano?

Circolava una barzellatta in quei giorni: un padre chiedeva al figlio -"Cosa vorresti fare da grande?", ed il figlio prontamente rispondeva - "Il turista!".

Si rendeva conto, il buon Fidel, che lui non ne poteva più di vedere quei bastardi pieni di dollari usare le loro spiaggie ed i loro migliori hotel, sbattersi le loro sorelle e le loro donne, e tornare nei loro paesi contenti di aver portato un pò di soldi a quei poveri cubani, quasi avessero fatto un'opera buona, una carità? Si rendeva conto che loro, dopo aver visto la ricchezza ed il benessere altrui, non potevano certo rimanervi indifferenti, non potevano far finta di niente e rimanere nelle loro baracche a morir di fame mentre i turisti, in una sola notte, gettavano al vento centinaia di dollari in rum e festicciole private?

Oh, certo che li invidiava, certo che avrebbe voluto essere ricco, profumato e ben vestito come loro. Certo che avrebbe voluto invitare una ragazza ad uscire, portarla a braccetto, tenerle teneramente la mano, senza che questa lo squadrasse malamente, e lo preferisse al primo bianco rimbecillito che capitava.

Lo desiderava......Dio quanto lo desiderava, ma le cose non stavano così.

Si sedette sul muretto, si cinse le ginocchia con le braccia e si mise a guardare distrattamente il mare, il mare, l'impetuoso e orgoglioso mare cubano, che tante navi spagnole aveva abbattutto e affondato....

Ma era vero, c'era davvero il paradiso oltre quel mare? C'era veramente l'America, Miami, che lo aspettava, pronta a offrirgli le ricchezze degli yenkees, libertà, soldi e un futuro in cui credere?

Rodriguo rifletteva, forse rifletteva perfin troppo per i suoi diciott'anni, ma tanto non aveva niente di meglio da fare, quindi perchè non allenare almeno un pò il suo cervello, si diceva, (e magari pensare meno ai morsi della fame)? E più rifletteva, più dubitava.

E non era solo per la propaganda antiamericana e antimperialista che quotidianamente radio e televisione gli propinavano, no, non era solo per quello.

Rodriguo non aveva mai viaggiato ma sapeva parlare, se la cavava con l'italiano e perfino con l'inglese, li aveva imparati durante le sue lunghe trattative con turisti desiderosi di bere e di fumare o di avere qualche "autentico" ricordo cubano, e aveva anche chiaccherato con i numerosi amanti delle sue sorelle quando questi ormai avevano "fatto" e si sentivano soddisfatti e inclini alla conversazione, e ne aveva tratto delle impressioni piuttosto differenti.

Tutti gli dicevano che stavano bene dove stavano ma che venivano a Cuba per divertirsi.

Divertirsi?

Si divertivano forse a vedere strade dissestate e muri fatiscenti, spiaggie inaccessebili, gente che si accollava alle loro bermuda, donne affamate e compiacenti?

Insomma, perchè questa gente che aveva tutto, almeno secondo lui, veniva fin da loro, affrontando viaggi lunghi e faticosi, per ritrovarsi davanti a un paese povero e avido solo dei loro dollori? Venivano forse per poter fare i signori, per poter esibere i loro soldi e il loro potere, potere che in patria in realtà non avevano, perchè se a Cuba potevano essere degli imperatori in Europa erano solo un volto fra tanti? O venivano invece solo per il sesso facile, usa e getta, venivano in cerca dell'amore venale?

E Rodriguo avrebbe dovuto invidiare questa gente?

Era confuso, e i dubbi, e la fame, gli rimbalzavano così dolorosamente tra le tempie da farlo stare male.

Cercò conforto nella debole brezza marina, e fu proprio il vento a portare alle sue orecchie un grido, un grido inconfondibile.

Si voltò, e la riconobbe subito.

Maria.

Non l'aveva mai dimenticata, e anche se lei l'aveva abbandonato per dedicarsi ad intrattenere i turisti, proprio come le sue sorelle, non aveva cessato di rimpiangerla. Era sempre bella, con la pelle delicatamente scura e i grandi occhi color nocciola, il corpo magro e sensuale che di notte non lo faceva mai addormentare.... ed il suo sorriso, ecco, era il sorriso che mancava!

Focalizzò la scena: un grasso e vecchio turista la teneva con decisione per il braccio, impedendole di divincolarsi, e lei gridava e i suoi occhi, i suoi occhi erano pieni di disgusto e paura. Incredibile, pensò, una ragazza che si ribella ai desideri di un turista, non succedeva mai, era impossibile era quasi incostituzionale.

Ma lei non era una ragazza qualunque, era Maria.

E quando i suoi dolci occhi color nocciola si posarano sui suoi e gli chiesero, imploranti, aiuto, non esitò neanche per un attimo.

Si slanciò con decisione verso lo straniero e gli affibbiò un bel pugno proprio in mezzo alla faccia. Questo si ritrasse immadiatamente, barcollando, chiaramente accusando il colpo. Si portò, imprecando, la mano sul naso e la ritrasse subito con orrore constatando che era pieno di sangue.

Gli aveva rotto il naso!

Non aveva mai dato un pugno a nessun straniero in vita sua e alla prima volta gli aveva rotto il naso, incredibile!

Il turista continuava ad imprecare, furioso, ma non osò muovere un passo verso di lui, nè verso Maria. Rodriguo vide però la gente smettere di ridere ed iniziare ad allontanarsi, con lenta circospezione e finta indifferenza.

Allora capì, senza neanche il bisogno di voltarsi, senza neanche dover far caso al rumore della macchina in arrivo, capì, e si rassegnò.

Arrivò la policia, e bastò un'occhiata al turista malconcio per convincere i suoi connazionali che Rodriguo si era macchiato del peggior crimine che un cubano potesse mai commettere: aggredire un turista. Maria cercò di intervenire ma Rodriguo le fece con la mano cenno di allontanarsi, non sarebbe servito niente, era tutto inutile, lo sapeva lui e lo sapeva benissimo anche lei.

E mentre entrava a forza sul sedile posteriore della macchina e vedeva Maria scappare piangendo, si voltò per un'ultima volta a vedere il mare, la porta del paradiso, e gli disse addio, addio ai suoi sogni, addio Cuba libre....

Bel nome per un cocktail.