Tito
Pioli
35 anni scrive da sempre,
pubblica poco, disegna, più che vivere immagina, sogna, lotta,
legge, si stupisce, abbraccia.
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SUONI DA PORTINAIO
Passo lento sovietico,
sguardo col mezzo sorriso enigmatico, Michele il russo faceva il portinaio
in un signorile palazzo del centro città.
In quel palazzo dove i condomini salutavano a malapena, quasi tutti
avevano macchine di colore grigio, grigio come le loro teste, Michele
studiava quei condomini come se fosse un maestro di scuola.
I condomini palavano tra loro di meteo, di vacanze da sogno, di figli
propri quasi laureati, di figli altrui quasi drogati.
Nel tempo Michele aveva ascoltato trenta tipi di passi, cinquanta
di respiri, di voci, settanta movimenti di chiavi, venti tipi di scoreggia,
colpi di tosse, tipi di starnuto.
Michele il sovietico viveva solo e ascoltando quei suoni si sentiva
più sereno, si sentiva parte di una famiglia, anche se la famiglia
non sapeva della sua esistenza, la notte infatti Michele dormiva poco,
non c'erano suoni, si sentiva solo.
Michele di giorno girava con in tasca un piccolo registratore che
nessuno vedeva, la notte a volte lo faceva partire, s'addormentava
che ancora quei suoni, quelle voci e quei colpi di chiave continuavano
nel silenzio della notte cittadina.
Quei notai, avvocati, imprenditori non è che rivolgessero molto
la parola a Michele se non per qualche particolare servizio.
Avevano tutti paura dei ladri, ma Michele pensava che anche lì
qualche ladro c'era.
"Come fanno i ladri ad avere paura dei ladri?".
Michele il sovietico conosceva il passo lento del Dottor Malpi insigne
melomane, i colpi di chiave nervosi e secchi dell'imprenditore Moretti,
il respiro affannato della Professoressa Savi, il colpo di tosse del
notaio Rocchi era inconfondibile, il colpo di chiave delicato della
signora Macciani, le scoregge della anziana maestra Volpi erano inconfondibili.
A volte Michele dal fondo della scala salutava chi stava salendo o
scendendo senza vederli e quelli rimanevano straniti.
"Maestro conosce suoi allievi" diceva sovieticamente col
mezzo sorriso.
L'unico che non salutava mai Michele e che anzi lo insultava era l'avvocato
Sartori "Zingaro fannullone" lo aveva chiamato con disprezzo
una volta, Sartori era un uomo silenziosissimo nel passo, felpato
nell'aprire l'uscio di casa, l'unica cosa che lo contraddistingueva
era che fischiettava la canzone "Un cuore matto".
Alle riunioni con il portinaio l'avvocato non andava mai perché
lavorava fuori città, non parlava mai con nessuno del palazzo
quell'uomo. Era un cuore matto. Matto da legare.
E non c'era neppure quella volta famosa che Michele durante una riunione
fece u vero show davanti a quei signori in giacche e cravatte grige
con cui di solito non scambiava che poche parole formali.
Michele svelò a tutti come faceva a salutarli senza vederli
fisicamente, imitò colpi di tosse, colpi di chiave, rutti,
scoregge, starnuti, tipi di passo di quei professionisti che lo guardavano
senza dire una parola.
Poi poco per volta se ne andarono tutti lasciando quella sala nel
gelo più totale e Michele col mezzo sorriso a canticchiare
triste "Sapore di sale", cantava per imparare l'italiano
Michele il sovietico.
Michele pensava di fare una cosa bella e invece si era tagliato le
gambe da solo, gli arrivò un invito ad andarsene dal condominio
entro l'estate, la gente non voleva essere spiata.
La gente borghese voleva ruttare e scoreggiare in santa pace.
Michele era triste in quella estate, tutti quei fottuti d'avvocati
e notai se n'erano andati in Sardegna e lui se ne stava in canottiera
in Luglio ad ascoltare "Luglio" a Parma.
Tutti quei suoni che venivano dal registratore non bastavano a tirargli
su il morale.
Una domenica mattina sentì salire il fischio di "un cuore
matto", era l'avvocato Sartori, Michele fu felice di sentire
un rumore anche se era quel farabutto che gli diceva "Lei non
sa far niente".
Dopo quindici minuti Michele udì tre colpi di pistola, Michele
si buttò contro un muro nella portineria, tremava come quando
era in Siberia.
Sentiva il fischiettio dell'avvocato Sartori, lo sentiva scendere
lentamente dall'ascensore di servizio.
Trovarono il corpo senza vita della moglie dell'avvocato Sartori,
fu un gioco da ragazzi per il fido e fine uditore Michele denunciare
quel delinquente che non l'aveva mai salutato, il mezzo sorriso sovietico
divenne sorriso e basta.
I condomini si complimentarono con Michele e decisero di tenerlo come
portinaio, tutti i giornali e le televisioni parlavano di li e della
sua sublime arte di ascoltatore, Michele non lo fregava nessuno, questo
era il suo amore per il prossimo imparato dalle pagine di Tolstoi.
Quando l'avvocato Sartori passò davanti alla portineria tra
due Carabinieri, Michele fischiettò perfidamente "Un cuore
matto".
"Buona serata avvocato, canti anche stasera mi raccomando"
disse con il mezzo sorriso sovietico Michele.
"Addio Michele" rispose l'avvocato Sartori salutandolo per
la prima volta e chinando la testa.
Eppure quei due avevano qualcosa in comune.
Erano due cuori matti.
Matti da legare.
GUIDONE, CARROZZIERE
CORTO MALTESE
Guidone il carrozziere
con il naso e il fisico da pugile, tutto il giorno impegnato a riparare
fiancate e parabrezza, macchine di gran lusso, Jaguar, Mercedes, macchine
che non avrebbe mai avuto in vita sua.
Guidone sognava la macchina di Diabolik, la cravatta di Corto Maltese,
una donna conturbante di Crepax, uno spettacolo di equilibrismo come
Bagonghi in mezzo a cento bambini.
Ci provava tutte le notti nel suo garage pieno di maschere da fumetto,
a fare la faccia cattiva di Zanardi, avere la forza di Batman, voleva
raggiungere il fisico di Tarzan e saltava la corda urlando come lui,
avrebbe voluto avere anche la dolcezza di Clarlie Brown, ma era difficile
davanti a quello specchio sporco di una carrozzeria di provincia avere
tutte quelle facce in una.
Guidone aveva imparato a navigare, a saltare sui tetti, a rapinare
le gioiellerie, a sparare agli indiani, a rubare nelle case, ma ciò
che amava di più era navigare e ogni tanto con Camilla la sua
fidanzata partiva per lunghi viaggi vestito da Corto Maltese, Camilla
era una professoressa di liceo, non bella, con gli occhiali, andava
al cinema d'essai, non leggeva fumetti ma i saggi di Roberto Longhi,
non si perdeva una mostra d'arte, guardava sempre l'orologio, parlava
sottovoce e ascoltava i Requiem.
Lui in mare vestito come Corto Maltese e lei in tailleur e doppi occhiali
e il registro in mano, guardava continuamente l'orologio Camilla,
mentre lui urlava che bisognava trovare l'uomo Dorato che lei si chiedeva
chi fosse? E poi Guidone Corto Maltese annunciava che bisognava assaggiare
i funghi speciali messicani e Camilla diceva che bisognava tornare
a casa, alla realtà, alle bollette del gas, che doveva preparare
delle lezioni, c'era una mostra che non poteva perdere.
Guidone Corto annunciava a prua a squarciagola come il suo eroe.
<Un esperienza val sempre la pena di essere vissuta anche se pericolosa>
e Guidone lo sapeva perché si iniettava quasi ogni giorno robaccia
nelle vene, faceva a pugni nei parchi con le panchine sfasciate per
una dose e Camilla che lo implorava di smettere incollandolo contro
gli alberi.
Un giorno partirono, Guidone vestito da Corto Maltese annunciò
a Camilla che bisognava combattere lo spietato e fanatico leader della
Lega per l'Unità Militare e Camilla diceva che aveva gli scrutini,
e lui urlava <Ma come c'è la guerra e tu pensi agli scrutini!>.
Si sposarono un giorno d'estate in mezzo al mare circondati dalle
scimmie i bambini gli lanciavano addosso fiori gialli e rossi, anche
la temibile tribù dei Jivaro che tante volte aveva combattuto
Corto Guidone questa volta festeggiò il matrimonio di Guidone
Corto e Camilla la professoressa, non aveva Guidone come al solito
la bocca spalancata e i coltelli in mano ma aveva i fiori e sorrideva.
Che quando fecero vedere le foto agli amici nessuno capiva che diavolo
avessero fatto, se avessero girato un film o se si fossero impasticcati
fino al collo.
Ogni notte Guidone Superman era nella cantina sotto la carrozzeria,
aveva cucito negli anni con l'aiuto di Camilla, centinaia di vestiti
dei suoi eroi, ed erano appesi come salami, c'era Mandrake, Bagonghi,
Lupin, Diabolik, Dick Tracy, Terry e i pirati.
Se ne stava quella notte vestito da Diabolik , sicuro di rubare tutto
agli altri, di sfuggire agli altri, ma era così fatto che non
stava in piedi, riusciva solo a fare qualche passo e poi la testa
gli crollava, non poteva sfuggire agli altri, al mondo, non poteva
sfuggire al suo calvario quotidiano.
Diceva a Camilla immobile contro il muro che fumava e i suoi occhiali
si appannavano per le lacrime, gli urlava che c'era d'andare a Clerville
e lei gli dava sberle in faccia, frantumava quelle siringhe, lui urlava
che amava Eva Camilla.
Lei scappava e giurava per sempre.
Camilla si era innamorata di Guidone perché lui parlava come
nelle nuvolette, la prima volta che vide Camilla al bancone di un
pub e c'era la canzone Born to be alive.
Le si avvicinò e la baciò urlando <Smak! Smak!>,
Camilla prima lo spintonò, poi sorrise, se Guidone piangeva
faceva <Whaah!>, quando chiudeva la porta urlava <Clank!>,
quando rideva urlava <Ah! Ah!>, se dava un pugno e ne dava tanti,
faceva <Stump>, se sgommava in macchina si sporgeva dal finestrino
e urlava <Wroom! Wroom!>.
Come tutti i personaggi dei fumetti Guidone era una miscela incontrollata
di cattiveria e di bontà, era spesso violento con le donne
e mollava certi <Stump!>, se voleva qualcosa in un negozio non
faceva <toc toc> ma faceva <Bokk!> sulla vetrina e la
sfondava per arraffare una telecamere digitale che era <troppo
bella>.
Ma Guidone sapeva anche essere gentile come Paperino con Paperina
e rubava per Camilla tutto quello che voleva.
Camilla seguiva a volte Guidone nelle sue avventure, terrorizzata
e eccitata, poi si pentiva e scappava, guardava l'orologio e diceva
che doveva andare a messa e che c'era da stirare, Camilla doveva trovarsi
un bravo ragazzo come diceva sua mamma e invece gli era capitato il
peggiore.
Da qualche anno ogni estate Guidone si vestiva da Tarzan e con Jane
Camilla con occhiali e registro andavano tre settimane nella foresta,
ma con la liana era un mezzo disastro, e Jane Camilla si fratturò
un polso, andando da un albero all'altro si spaccarono le ossa quei
due.
Se vedevano una scimmia Camilla scappava terrorizzata mentre Guidone
Tarzan gli faceva il verso, gli urlava che puzzavano che facevano
schifo, gli urlava di andarsi a lavare e le scimmie quando vedevano
quello scimmione di Guidone scappavano, non volevano farsi allevare
da un mostro del genere.
Poi Guidone andava a farsi su un albero e allora quei due si picchiavano
anche nella foresta e poi finiva quasi sempre in un ospedale.
Poi Camilla decise di abbandonare Guidone che lei non aveva tempo
da perdere, c'era da andare a scuola, c'era da pagare l'ici, c'era
da guardare l'orologio e andare una volta alla settimana al cinema
a vedere Harry Potter con i nipoti e Guidone imperversava nel mondo,
come Corto Maltese in una isola del Pacifico uccise un serpente enorme
che lo aveva attaccato, combatté con altri contro la tribù
Jivaro, bevve il vino di Guanavana.
Fece danni anche nei panni di Popey, mangiò trenta chili di
spinaci ma fu ricoverato al pronto soccorso con un feroce mal di stomaco,
tentò di fare una scalata come l'Uomo Ragno ma la ragnatela
non si incollava lungo le pareti dei palazzi, cadde rovinosamente
in un sottotetto e si buttò dentro a una finestra da dove aveva
visto una donna nuda.
L'esperienza più bella di eroe fu quando un giorno nel giardino
pubblico pieno di bambini cambiò dieci abiti diversi, era Tarzan
che passava da una magnolia all'altra mentre le mamme urlavano e i
bambini applaudivano, fu Capitan Nemo, Bagonghi il piccolo pagliaccio
che incantava tutti i bambini con le sue evoluzioni passando da un
cavallo all'altro, arrampicandosi sugli alberi con una corda, era
Paperino che insegnava a giocare a golf ai bambini
Il giorno prima tutti lo schivavano quel povero tossico con la barba
incolta, i jeans strappati che urlava sempre strani versi, oggi tutti
i bambini erano intorno a lui, felici e urlanti, poi arrivò
la Polizia e lo portò via tra le urla dei bambini inferociti,
Camilla era felice come non mai nel vedere il suo amore in trionfo.
Il giorno dopo ricominciava la vita di sempre, qualche ora in carrozzeria,
poi Guidone si ritrovava con la faccia sporca in terra e un occhio
nero davanti allo specchio scheggiato del giardino pubblico, si lavava
la faccia con l'acqua lurida, si pisciava addosso per il freddo, fece
a botte con un pusher, solo i sogni gli rimanevano, gli uscivano dalle
tasche le maschere di Flash Gordon, di Lupin, di Snoopy, e poi cadevano
cartine, pezzi di mela, coltellini e biglietti d'autobus scaduti.
Quando Guidone partì da solo per l'America vestito da Tex Willer
gli successe una cosa incredibile, per la prima volta non si sentì
un fallito, girava nei vari paesi con la divisa da ranger, aveva il
rispetto di tutti, ammazzò delinquenti e innocenti, ma non
subì mai un processo, gli fecero persino fare una pubblicità
e un film e lo candidarono governatore ma lui andò via perché
lui si drogava, ma in quel paese si drogavano più di lui.
Una notte Guidone tentò l'assalto di una banca come Zanardi
a grandi falcate spaccò una vetrina, ma i poliziotti erano
alle calcagne, Camilla fu avvertita che il suo uomo era ricercato.
Guidone si era barricato in mezzo alle divise dei suoi eroi, deciso
a vendere cara la pelle come Superman, faceva finta di sparare, di
lanciare proiettili invisibili, Camilla lo raggiunse che era ferito,
seduto su una sedia rossa da barbiere guardava il soffitto, la cenere
della sigaretta penzoloni, stava per bucarsi, guardava le sue divise,
si sentiva il requiem di Mozart che amava Camilla, era completamente
nudo e sanguinava nelle gambe e nelle braccia.
<Non riesco a metter in moto la macchina come Diabolik, non riesco
più a fare i balzi come Flash Gordon, non riesco più
a contare i soldi come Paperone>.
Poi Guidone chiudeva gli occhi mentre Camilla asciugava il suo sangue,
gli strappava la siringa, lo baciava sulla fronte, lo vestì
da Corto Maltese, Guidone biascicava parole, poi chiudeva gli occhi,
alzava e chinava la testa, faceva dei versi.
<Bloh! Onhk! Grgn! Drr! Room!> poi crollò per terra e
Camilla che urlava mentre i poliziotti lo portavano via vestito da
Corto Maltese mentre le infermiere cercavano di rianimarlo.
MA SEI DARK?
Gli si slacciavano
continuamente le stringhe delle scarpe ad ogni colonna.
Ogni giorno Tazio
doveva consegnare la posta lungo via Zamboni, suonare, imbucare, parlare
con portinai di gol irregolari e di abolire la minimum tax, incontrare
notai che non salutavano. Ogni incontro con un conoscente erano almeno
venti gocce di sudore, due incontri erano quaranta gocce, perchè
Tazio era timido soprattutto con le donne. Tazio ascoltava in cuffia
"Stasera mi butto" e ballava da solo.
Quella mattina
era piu' assonnato del solito. Era proprio davanti a Palazzo Forte
e sul muro c'era scritto "i fasci al muro", vide una schiena
di donna ed uno zaino con scritto "Federica".
Federica aveva
un completo nero, le unghie dipinte di nero, i lunghi capelli neri
e lisci come i fasci al muro, le gote rosse, le mani che non finivano
piu', con il vento i suoi occhi piangevano.
Le gocce di sudore
erano almeno centoventi, come tre donne in una, lei teneva nelle mani
il "Viaggio" di Celine, gli cadde e lui lo raccolse, lei
lo accarezzò, e gli sorrise.
Tazio fissava
quelle mani lunghe come quelle della Callas e non seppe che dire una
cosa assurda: "Ma sei dark?", lei sorrise e basta, quasi
rise, prese il fazzoletto e asciugò il sudore di Tazio.
Tazio da quel
giorno era piu' lento a svegliarsi, sbagliava numeri civici, mangiava
la pizza sempre da solo, della "rosea" leggeva solo i titoli.
Tazio, Celine lo aveva letto, si, faceva il postino e aveva letto
Celine, lo adorava. Nessuno aveva mai asciugato il sudore a Tazio.
Magari Fede avrebbe ballato con Tazio "Stasera mi butto".
Tazio con le donne non si buttava mai.
Erano quattro
giorni che Tazio non vedeva Federica la dark, lasciò il lavoro
e appiccicò un foglio sopra alla colonna davanti all'ingresso
di Lettere e scrisse: "Sei arrivata a quando Bardamu fa il viaggio
in nave? Il prossimo te lo metto alla colonna nove". Federica
la dark puntualmente rispose con fogli sulla colonna nove.
La notte Tazio
non dormì che due ore, la mattina accelerò le consegne
per andare alla colonna nove, c'era un foglietto rosa appiccicato:
"Non ci sono ancora arrivata...non voglio sapere nulla di te,
nessuna parola fra noi, parleremo solo dei personaggi letterari che
abbiamo conosciuto" e gli parlò di Fantine e di Raskolnikov.
Tazio pensò che se era muta poteva anche dirlo. Ma Federica
la dark non era muta, parlava solo col cervello.
Tazio per quindici
giorni percorse quei portici dimenticando la mamma che lavorava nella
fabbrica di profumi, il papà autista di taxi che gli parlava
della Ferrari, dimenticò La Bruyere, 90° minuto e la pizza
mangiata da solo.
Tazio perse il
lavoro perchè cominciò a passare intere giornate a scrivere
lettere sotto i portici e chi lo conosceva quasi non lo salutava piu'.
Federica la dark aveva abbandonato Lettere per altre lettere e visto
che gli invidiosi rubavano i foglietti, scrisse di notte sui muri
e direttamente sulle colonne di Via Zamboni. Parlarono di Federico
dell'Educazione Sentimentale e di Oblomov e quei due personggi esistevano
davvero in carne ed ossa secondo Federica la dark e Tazio e un giorno
si sarebbero fatti vivi ai loro occhi sognatori e alle loro menti
troppo spirituali.
Al mattino chi
si soffermava a leggere si stupiva di come uno potesse scrivere: "Io
sicuramente dal dottor Bovary non sarei andata neanche a provarmi
la pressione" o "secondo me Javert non deve essere stato
antipatico se lo incontravi fuori dal posto di lavoro".
Mai una parola,
solo sguardi si scambiavano quei due quando si incontravano, ballavano
intorno alle colonne. Si scrissero pure sui tovaglioli e sui conti
del ristorante raccolti per strada a Bologna.
Tazio non sapeva
nulla di quella donna, il nome del suo profumo, il mestiere di suo
padre, il colore delle pareti della sua stanza, eppure Tazio amava
quella donna perchè in Lei c'erano Gervaise, Fantine, Caterina,
Emma e Federica la dark amava lui perchè lui era anche Bouvard,
Bardamu, Jean Valjean.
Sotto la torre
degli Asinelli una notte Tazio vide Federica la dark fumare un Cubano,
da una finestra si sentiva "In mia man alfin tu sei", Tazio
andò davanti alle sue labbra sorridendo, lei chinò la
testa, Tazio girava intorno alla sua testa e le sue gote rosse, Federica
la dark gli asciugò le gocce di sudore. Strusciavano le loro
teste uno contro l'altro, si abbracciavano fino a farsi male.
Tazio provò
a baciarla ma lei lo guardò piangendo, gli diede uno schiaffo
e scappò via, dalla foga sembrava per sempre, il suo sigaro
Cubano cadde per terra e Tazio lo raccolse e se lo infilò in
bocca.
Tazio rincorse
Federica la dark urlando il suo nome sotto i portici e qualcuno dai
balconi urlò "Tacete bastardi!". Federica era sparita.
Tazio correva
sotto i portici, urlava, piangeva abbracciando le colonne senza foglietti,
aveva abiti consunti, i capelli sporchi, la barba lunga e dal suo
cappotto uscivano i pezzi di carta di quell'amore senza parole.
Tazio capì
che l'amore piu' duraturo sarebbe stato quello di carta. Il corpo
sfiorisce, il cervello può sempre fiorire.
Imbianchini un
giorno cancellarono dai muri di Bologna le mille parole di amore e
letteratura di Federica la dark e Tazio. Ma le scritte tornarono.
Imbianchini le cancellarono. Le scritte tornarono.
UN MERLO ALLA
PRIMA DELLA LIRICA
MIACULLA, Primavera
1977
In quella città
in cui si dibatteva di suole di scarpe e di tagli di giacca, con Mary
la ballerina scalavo i ponteggi che vestivano le chiese e ascoltavamo
il caos dei volteggi dei piccioni nelle feritoie, facevo il verso
del piccione al piccione e quello mi fissava e Mary rideva, sapevo
imitare decine di voci d'animale, al telefono rispondevo con un nitrito
di puledro irlandese, alla posta ordinavo un vaglia con un barrito
d'elefante d'Africa, io che un tempo avevo trasformato le mie classi
in porcilaie e stalle ero pronto a stupire la città con le
mie imitazioni.
Avevo studiato da animale perché l'uomo mi sembrava talmente
noioso, quando a scuola mi parlavano di tempio in antis io ero nel
bosco a cercare di riconoscere una pavoncella ed imitare la sua voce,
quando c'era da scegliere tra Dio e Marx io ero sulla spiaggia a distinguere
la rondine dal balestruccio che non era da tutti, mi servì
molto nella vita perché io avevo ascoltato in silenzio mentre
intorno a me tutti urlavano senza ascoltare gli altri.
Mary aveva una gonna lunga a fiori e i capelli rossi sciolti sino
in vita e occhi verdi in cui perdersi per sempre, gli orecchini a
goccia e le unghie dipinte di rosso, tagliate e pulite, una faccia
da finta suora come piacevano a me, Mary mi faceva mancare il respiro,
la vedevo girare per le strade di Miaculla già da lungo tempo,
con i fiocchi di neve o con i raggi di sole lei teneva la testa ben
eretta e non spesso china come la mia, provava passi di danza nelle
piazze vuote avvolte nella nebbia, con le mani piene d'anelli d'oro
la vidi lavare la testa di una down, faceva sorridere quella povera
ragazza che se l'avessi avuta io per le mani, quella ragazza sarebbe
diventata ancora piu' anormale, io la seguivo per la strada esattamente
a distanza di nove metri.
Non uno di più non uno di meno, ma mi nascondevo dietro ai
lampioni e agli angoli della strada facendo il verso del pollo sultano,
alcune volte lei si rivolse ai vigili: "disturbo alla quiete
pubblica" diceva il verbale.
Le parlavo di come ipnotizzavo i pesci del mare e lei rideva, facevo
il verso della gru all'edicolante e lei rideva, avevo conquistato
Mary senza dichiarazioni, facevo la rana e l'asino e si rideva, le
giuravo che avremmo fatto uno spettacolo nel teatro principale della
città e lei rideva.
Sembravamo due malati di mente, anche far l'amore fu una passeggiata,
dalle auto intorno alla nostra suonavano un po' per i versi d'antilope
che sentivano dentro la mia cinquecento, ma non andò male:
"Non nascerà un panda vero?" mi chiedeva Mary preoccupata.
Avevo conosciuto gli animali attraverso Esopo, mia madre mi leggeva
ogni giorno una favola e a chi le rinfacciava che io passavo tutto
il tempo nelle lagune a vedere i fenicotteri e nel bosco a osservare
i gufi e urlare come loro, invece che andare a lavorare come tutti
gli umani, lei orgogliosa citava la storia di Esopo della leonessa
e della volpe.
La volpe scherniva la leonessa rinfacciandole di non sapere mai mettere
al mondo piu' di un figlio per volta: "Si" rispose quella
"Uno solo, ma un leone".
Così io descritto un leone da mia madre, mi sentii così
leone da diventarlo almeno nella voce, ed Esopo divenne la mia guida
spirituale per tutta la vita.
Maculla era la nostra città dove c'erano merli e tortore, ma
erano in pochi a distinguere le rondini dai rondoni. Miaculla delle
schiene curve dei vecchi accompagnati da una giovane mano, Miaculla
delle confessioni davanti ad un bicchiere di rosso o sotto un crocefisso.
Miaculla degli animali dello zooforo del Battistero che di notte
forse andavano in giro per la citta' ma nessuno se n'era accorto,
nemmeno io che li cercavo da una vita in ogni tombino per sapere che
voce avessero, Miaculla dei pioppeti dove portare l'amore della propria
vita, a Miaculla si aveva il culto di ciò che non si muoveva:
le pietre antiche, i conti in banca, i tortelli, la musica di un compositore
dell'800, Miaculla ci aveva stancato perchè frequentare qualcuno
piu' bello di te è sempre difficile e nessuno ha il coraggio
di dirle sei bella ma ti lavi poco, sei bella ma hai l'alito cattivo,
sei piu' bella di me e nessuno mi guarda, quella città non
ci voleva perchè non eravamo nornali, ma noi le avremmo fatto
uno scherzo.
Trovammo casa proprio sopra lo zoo di Miaculla, li chiamavo uno ad
uno quegli animali e qualcuno rispondeva pure, il piu' loquace era
il ghepardo, la piu' silenziosa era la capra, quei versi erano tanto
simili a quelli dei miei amici pescatori di Miaculla che davanti al
mare urlavano e bestemmiavano per il poco pesce, li seguivo nella
loro pesca notturna, mi facevano sentire meno solo nella notte, volevo
scoprire la voce dei pesci, gli unici che mi sfuggivano.
La mia Luna andava in gita con i vecchi nei castelli dove qualcuno
chiamava il nome di un fantasma di cui si fantasticava, mangiavano
in trattoria e potevano mettersi a cantare in coro da un momento all'altro
o un Parigi o Cara o Tu che m'hai preso il cuor addentando una fetta
di torta al limone e brindando con Torna a Surriento battendo in coro
le mani, tutti adoravano la lirica ma nessuno di loro nella vita era
mai riuscito a entrare nel teatro della città.
L'ospizio dove vivevano i vecchi di Mary era una povera fattoria di
brandine con coperte bucate e sgualcite intorno a tavoli gialli sotto
il pergolato deove i vecchi intingevano il pane nel latte, i topi
camminavano piano come bradipi, le donne cucivano le camicie piene
di buchi degli uomini, scarseggiava la carta igienica e intorno solo
fabbriche che costruivano macchine per gelato, ciminiere a sbuffare
fumi bianchi, le galline incerte sui muriccioli e ragazzini a bestemmiare
nel campo di calcio di fronte alla parrocchia.
Una volta alla settimana Mary portava quei vecchi intorno al teatro
dai muri gialli e le imposte verdi, quel teatro che sembrava una culla
da cui un uomo tende le mani ed emette i primi vagiti, proprio come
quelle voci di tenore in prova interrotto dalle gocce di pioggia e
i vecchi mettevano le mani ben aperte sui muri, ai piedi di quelle
finestre da dove usciva la voce d'una Violetta o d'una Adalgisa e
quando la cantante in prova interrompeva l'aria a metà, erano
Luisa che aveva distribuito benzina per tutta la vita e Gino che aveva
passato la vita a tagliare bistecche a proseguire con "Croce
e delizia al cor" tra le colonne davanti al teatro, nessuno di
loro sarebbe mai entrato in quel teatro.
Franci mi fece felice e dopo una serata a dar da mangiare a una vecchia
e una notte a coccolarla per guadagnare il sonno, la mia Vita venne
a trovarmi e andammo a fare uno spettacolo per i pescatori di Miaculla,
prima e dopo la pesca, sui barconi gialli con le vele bianche ammainate
a bere sangria e a mangiare polipi e alla fine anche i pescatori si
interrogavano sulla vera voce dei pesci e allora provavano a immaginarla
e provavano a chiamarli: "Un giorno ve la farò sentire
la voce dei pesci" promisi loro per vederli sorridere.
Quasi sempre i pescatori di Miaculla cantavano anche se avevano i
buchi nelle camicie, il vuoto nello stomaco, la miseria nelle pupille,
loro cantavano Rosamunda e dalle case di mattoni della collina guardavano
di sotto i grattacilei e forse s'immaginavano che i ricchi oltre che
piu' ricchi e arroganti erano anche piu' alti dei poveri e con quei
grattacieli volevano toccare il cielo con i capelli per farsi proteggere
dalle nuvole.
Avevano la pelle dura, sapevano che in quella città non erano
padroni ma solo ospiti anche un po' buffi, dileggiati a ogni angolo
di strada per il puzzo che emanavano e allora era meglio per loro
stare con lo sguardo a pelo d'acqua e guardare di sotto che anche
li' in fondo c'erano i grattacieli tra le alghe, c'erano le montagne,
le anime e la vita ma nessuno dei pescatori pensava di essere qualcosa
di importante in quel mondo.
I vecchi di Franci e i miei amici pescatori, tutti volevano entrare
anche solo una volta nel teatro piu' bello della città. Ma
i vecchi non potevano perche' non avevano soldi, perche' spesso ruttavano,
spesso sghignazzavano per le barzellette sporche, spesso urlavano
per passarsi una caramella e i pescatori invece che potevano vantare
l'abitudine al silenzio per non spaventare i pesci, avevano qualcosa
di intollerabile, puzzavano, grondavano sangue, non erano presentabili
agli occhi della gente, della società. sotto le luci d'uno
dei piu' importanti teatri del mondo, eppura tutti volevano vedere
un nostro spettacolo e cosi' fu, ma prima io e Mary dovevamo affrontare
la prova generale.
Era il tempo della prova generale dello spettacolo nel teatro piu'
grande della città mentre Mary aveva preso contatti per fare
spettacoli in carceri e ospizi era pronta per me, per il mio mondo,
per una lezione d'amore.
Mary era convinta che l'uomo potesse con la sua voce e le sue idee
elevare il mondo, creare rivoluzioni, offrire solidarietà,
concedere l'amore, io invece volevo dimostrarle che i gesti silenziosi
d'amore degli uccelli erano piu' forti d'ogni filosofia umana.
La portai nei boschi di Miaculla, la portai a vedere come la poiana
riesce a stare ferma in volo e poi prendemmo lezione d'amore dagli
animali, ma Mary era titubante: "Devi provarmi il tuo amore"
le dissi.
Le feci vedere le cicogne in amore e io e lei cercavamo di imitarle,
alzavamo il collo al cielo e battevamo fragorosamente il becco e il
nostro becco era il nostro naso, dopo che per un poco non le spaccai
il nasino, Mary urlava: "Per fortuna che siamo uomini".
Seguimmo i grifoni che nel volo d'amore si tengono uniti volteggiando
insieme, io e Mary ci mettemmo sopra a un albero mentre lei non faceva
che ridere, provammo a imitare i grifoni, colpi di testa contro i
rami, calci nello stomaco, per poco non ci sfracellavamo a terra,
quant'era difficile l'amore tra animali, ridevamo, urlavamo mentre
in molti che facevano il bagno sotto le cascate si tiravano spruzzate
di acqua e non ci facevano nemmeno caso.
Ma la tortura e la prova d'amore inflitta a Mary non era finita perche'
imitammo i galli forcelli che allargano e rialzano le penne della
coda uno di fronte all'altro e quando fummo a sedere scoperto e pazzi
d'amore a correre nel bosco, fu uno scandalo.
Ultima prova d'amore era imitare i falchi di palude che si afferrano
per gli artigli in volo, per poi fare avvinghiati spettacolari voli
acrobatici, ci mettemmo sdraiati su quei rami a tirarci e legarci
con i piedi come loro, rischiando di precipitare, un sacco di botte,
di morsi, ma di sesso nemmeno l'ombra, ormai ci odiavamo, poi stravolti
cio addormentammo ai piedi d'una quercia mentre gli scoiattoli ci
davano leccate sul naso, ci avevano presi per animali.
Che onore. Quanto avevamo imparato, ci amavamo di piu'. Finimmo pero'
la giornata in ospedale, un ospedale di esseri umani, non eravamo
all'altezza dell'amore degli animali.
Lo spettacolo della vita ci attendeva, dovevamo rovinare la prima
di teatro di tutta Miaculla, quel teatro di Jago e Pollione, di intrighi
e fazzoletti, di gioielli a forma di rana, di cosce nude di donne,
di truffe da organizzare, di imprese da realizzare a danno degli altri.
Dopo la prova d'amore cui costrinsi il mio amore Mary e in cui fallii
miseramente, fu lei a costringermi a una azione di sabotaggio della
cultura ufficiale, una penosa pagliacciata in odio a quella citta'
che ci considerava un uomo animale e una ballerina senza voce per
quel palco, ma lo dovevamo ai suoi vecchi e ai miei pescatori.
Eppure sotto le luci dei candelabri tutti sorridevano anche se avevano
un tumore, quel tonto dall'occhio di vetro era in frac in quinta fila
anche quest'anno con la mano sulla gamba della sua vecchia moglie
col naso mezzo mangiato, si sarebbe addormentato al secondo atto come
sempre, gli occhi si scambiavano occhiate, le mani stringevano bicchieri,
sederi, tartine, pugnali come sul palco.
Mary mi trascino' in quell'avventura rischiosa e quando il mattino
presto entrammo di soppiatto per studiare il piano per la serata mi
venne un colpo; sembrava che il mondo ti fosse sulla pelle, dentro
alla tua pelle, luci, piedi di cavallo del soffitto, braccia profumate
di donna, anche se il teatro era vuoto sentivi l'alito della gente,
cominciai a palpare il rivestimento delle poltrone di velluto rosso:
"Non sraà solo loro la prima, questa volta" urlo'
Mary.
Quella notte ci confondemmo tra le comparse di quell'Aida di antichi
egizi e mentre l'orchestra intonava il preludio e dai palchi intravvedevo
le dita inanellate delle donne, i loro capelli raccolti con le spille
a forma di violino, le loro schiene nude, la lunga cenere penzoloni
delle loro sigarette mentre guardano un uomo, i colpi di tosse.
I pescatori scalarono le pareti del teatro ed entrarono sghignazzando
e i vecchi si travestirono da maschere ed entrarono ruttando e bestemmiando.
Tutto era pronto in sala. La stretta di mano docile del prefetto,
il livido nella schiena della moglie del commercialista, lo sguardo
di un uomo e di una donna che si scambiavano le pupille da un palco
all'altro, la moglie di un sottosegretario che si toccava continuamente
una tetta temendo che quel pallone gonfiato scoppiasse da un momento
all'altro. Mary entrò in scena mentre l'orchestra era pronta
alle prime note.
Si sporsero dai palchi all'improvviso i pescatori di Miaculla con
cesti di pesci e tenevano i bicchieri in alto in segno di brindisi,
avevano le canottiere bianche rigate dal rosso del sangue di pesce,
il pubblico zitti' quei villani, alcuni urlarono: "Vergogna!"nessuno
capiva come diavolo avevano fatto a entrare quei manigoldi, ma l'Aida
avrebbe sopito tutto, le voci di quegli animali, anche il puzzo di
quei farabutti, i pescatori sporgevano i loro bicipiti gonfi e fischivano
alla pelle nuda delle donne, un gruppo di guardie si mosse verso quei
palchi puzzolenti, ma le luci ormai si abbassavano.
Mary comincio' a ballare mentre io andai sul bordo del palco, iniziai
con i cinque versi del merlo, il primo che indica un nemico nelle
vicinanze, volevo avvertire quello stolto pubblico che Mary stava
per giocare un brutto scherzo a quella prima, a quella città,
il secondo canto del merlo avverte che il pericolo è piu' vicino,
dai palchi le donne urlavano con le unghie proiettate in avanti: "Uccideteli!"
Mandatelo a casa! Ma che scherzo è mai, noi vogliamo l'Aida!"
urlavano, alcuni uomini si alzavano minacciosi e avanzarono verso
il palco mentre i pescatori invocavano la voce dei pesci e i vecchi
guardavano il sipario e i violini e piangevano come bambini, nessuno
piu' bestemmiava, nessuno piu' ruttava.
Feci la voce dei cefali, dei polipi e dei tonni e quei pescatori si
sporgevano dai palchi con gli occhi allucinati, alcuni piangevano,
qualcuno tra il pubblico cominciò a intonare il coro dell'Aida,
le mie gambe tremavano, ero là nel tempio della lirica a far
versi d'animale e non me ne vergognavo.
A fatica riuscivo a concentrarmi sul mio canto mentre dietro al palco
c'era una vera rissa di uomini, schienali di sedie, rossetti proiettati
come proiettili, il terzo canto del merlo significava: "Andate
a nascondervi presto!" mai quel giorno mi vennero bene quei versi
che avevo provato per giorni interi.
Il quarto canto del merlo indicava la presenza di predatori specialisti
nella cattura degli uccelli, come sparvieri, astori o rapaci notturni
e quel teatro ne era pieno, travestiti da uomini, mentre i violinisti
mi urlavano contro parole di fuoco, un uomo sparò in aria intimando
di andarmene per sempre, venne poi il mio quinto canto del merlo,
quello dell'"angoscia", quando il merlo è finito
nelle grinfie del predatore, cinque, sei donne e uomini mi furono
addosso, mi divincolavo tra unghie spezzate, denti aguzzi e piedi
scalcianti.
Si alzò il sipario e cominciò la Marcia Trionfale: "Vogliamo
l'Aida! Vogliamo l'Aida!" "Porci maledetti, animali!"
e tutto il pubblico cominciò a intonare in coro la marcia trionfale.
I pescatori urlavano sconvolti: "La voce dei pesci vogliamo la
voce dei nostri pesci!" si denudavano, presero i pesci dalle
ceste e li gettarono ancora vivi in mezzo alla folla terrorizzata,
gli uomini coprivano con le loro redingote la pelle nuda delle donne,
alcuni fecero fuoco verso il palco.
Io, Mary e tutti i pescatori fummo messi nelle gabbie dello zoo, proprio
quelle gabbie da cui io avevo imparato le voci degli animali, ora
ero là dentro io fui messo in gabbia in qualità d'animale
ad honorem, Mary fu messa dentro perchè ballava e non parlava
mai, proprio come gli animali e i pescatori perchè puzzavano
esattamente come gli animali.
L'Aida cominciò e i vecchi d Mary smisero di piangere, erano
felici quel giorno: Se quel guerrier io fossi! se il mio sogno si
avverasse!..
NUDI E CRUDI
C'era chi oliava il suo
mitra, chi scriveva una lettera seduto a pancia in giu' sulla branda,
il sole stava calando su quella vallata di sabbia che cambiava colore
durante il giorno come la faccia di un uomo nella vita, al mattino
era rosa come un bimbo vispo, il pomeriggio era rossa come un viso
avvinazzato o timido, la sera era bianca come la faccia di un vecchio.
I soldati della 101esima divisione aspettavano l'ora dell'attacco,
dall'altra parte gli stessi gesti, le stesse risate per mascherare
la paura, le urla per spaventare il nemico.
Nella notte i Buoni ascoltavano gli insulti urlati dai Cattivi, i
Cattivi ascoltavano in silenzio gli insulti dei Buoni, ma nessuno
capiva esattamente, sembravano gridi d'animale che abbaia ma non morde,
Non c'era bisogno in fondo di capire.
Nessuno, il comandante dei Buoni era un tipo tutto lentigginoso, paffuto,
canticchiava "Let's spend the night toghether", era tutto
meno che un capitano, aveva la voce infantile come chi rimane piccolo
finchè tutto d'un colpo arriva ad essere un uomo, compiendo
un delitto atroce.
Nessuno fece schierare i suoi uomini sotto la collina e disse:
"Giocate fino all'ora dell'attacco, giocate in qualsiasi modo
perchè cosi' vi abituate al gioco della guerra, dovrete usare
la stessa cattiveria che avevate quando qualcuno vi rubava un giocattolo,
quando picchiavate il piu' piccolo".
Quei soldati nell'attesa dell'attacco schiacciavano formiche, si lanciavano
palle da baseball, giocavano a nascondino.
Dall'altra parte il capitano dei Cattivi, Ignoto, baffo curato e occhio
senza fondo, parlava sottovoce, come chi parla solo con gli occhi
e i suoi erano occhi incoscienti come quelli dei soldati piu' eroici.
Fece schierare i suoi uomini sotto la collina e disse:
"Giocate fino all'attacco, divertitevi, tutta la vita vi hanno
detto di lavorare e non divertirvi se non alle ore stabilite, adesso
sfogatevi"
I soldati Cattivi giocavano a carte, si prendevano scherzosamente
per le gambe, giocavano ai soldatini.
Era l'ultima notte prima dell'attacco, Vedova e Sola, mogli dei due
capitani erano medici dei rispettivi schieramenti, senza conoscersi
ebbero la stessa idea per fermare quella guerra infame e inutile,
che non avrebbe cambiato le loro vite, che avrebbe consolidato altre
dittature mascherate da democrazie.
La mattina dell'attacco quando i soldati si svegliarono si misero
a cercare i propri stivali, le proprie mitragliatrici, sia i Buoni
che i Cattivi nello stesso istante erano disperati, urlavano con il
terrore nel volto. D'improvviso erano rimasti nudi.
Si guardavano in mutande e canottiera e quando il capitano dei Buoni
e quello dei Cattivi di presentarono in mutande ai rispettivi schieramenti,
tutti fecero il saluto militare e cantarono l'inno nazionale riuscendo
a non ridere, anzi qualcuno pianse.
"C'è stato un sabotaggio, non abbiamo piu' ne' divise,
ne' armi, andremo incontro al nemico a mani nude, per l'onore della
nostra Patria" dissero i due capitani nello stesso istante.
Piu' le ore passavano piu' nessuno di quegli uomini aveva il coraggio
di attaccare per primo, si sentivano soli, nudi, non si sentivano
piu' uomini, alcuni da una parte e dall'altra della collina singhiozzavano
sulla loro pelle nuda, inutile e indifesa.
Scrivevano lettere non piu' alle mogli o alle fidanzate ma solo alle
mamme, i due capitani erano gli unici lucidi, spietati e adulti, non
avevano perso la calma e incitavano gli uomini a non perdersi d'animo.
Nè da una parte nè dall'altra della collina si osava
agire, giorno dopo giorno i Buoni e i Cattivi facevano facce di paura,
ridevano senza un motivo, si gettavano a terra e camminavano a mani
e gambe come i neonati, si facevano la pipì addosso, nascondevano
la testa sotto la sabbia mentre i due capitani cercavano di scuotere
gli schieramenti con la musica.
Da una parte ci provarono con "Guerra! Guerra, Le Galliche Selve!"
dall'altra con la "Passione di Matteo". Ma quegli uomini
bambini ridevano e morsicavano le gambe dei suonatori. Ci riprovarono
da una parte con "Squilli, echeggi la tromba guerriera!"
e dall'altra con la "Cavalcata delle Valchirie" ma quei
soldati bambini ballavano nudi al ritmo di quelle musiche, facevano
linguacce e pernacchie alla Storia, alla Patria.
Erano sempre meno uomini, meno soldati, avevano paura, non volevano
agire piu', volevano solo giocare.
Al suono di "Noi siam le zingarelle" da una parte e dall'altra
si ballò nudi e quasi felici ed uniti, non c'erano le zingarelle,
ma quei soldati bambini nudi imitarono le zingarelle, sembrava che
Verdi potesse fermare la guerra e unire gli uomini ma non fu così.
Bastò che una palla rossa fosse lanciata per sbaglio dalla
parte dei Buoni a quella dei Cattivi e tutti quei soldati bambini
a quattro zampe di gettarono su quella palla, la "loro"
palla.
Fu un massacro, con quella palla che rimbalzava in alto e in basso
tra corpi che si pestavano, si colpivano, si dilaniavano con urli
da bambini, schizzavano dappertutto fiotti di sangue.
Quei soldati bambini erano d'improvviso tornati soldati uomini e volevano
sopraffare il nemico, volevano la "loro" palla, la "loro"
terra, i loro "soldi".
Si ammazzarono l'un l'altro e non rimase vivo nessuno in quella sabbia
rossa di sangue, solo due donne che abbracciate urlavano, piangevano
e vomitavano sulla guerra.
ULTIMOAMORE
FATTO DI CIBO
Quest'anno sono andato
al mare a Rimini con un gruppo di anziani, io ne imboccavo due, Sincero
e Rina.
Tutti i giorni, uno di fronte all'altro, stesso tavolo in riva al
mare, due piatti di minestra fumante di anolini in brodo.
Fino a quando quei due erano all'ospizio in città quei due
avevano sempre gustato i cibi, facendo i complimenti, dicendo che
tutto era buono, che tutto era perfetto, che ne volevano ancora e
noi volontari eravamo soddisfatti, gli regalavamo più volentieri
i nostri sorrisi, ci mettevamo sempre grande impegno per fare nuovi
piatti.
Poi da quel giorno in vacanza, in riva al mare qualcosa sembrava essere
cambiato.
Ad ogni fetta di prosciutto, scaglia di parmigiano, tortino di spinaci,
pezzo di crostata che arrivava, quei due muovevano con moto ondulatorio
la testa e inarcavano il naso.
Assaggiavano appena quel cibo squisito e facevano una faccia schifata,
poi tornavano ad inarcare il naso verso il mare, tendevano le orecchie
per sentire lo schiantarsi delle onde sulla battigia.
Noi volontari li guardavamo senza parole.
Quei due vecchi dicevano che sentivano il profumo del mare, che quello
era bello,
dicevano che quello era buono, masticavano addirittura dopo aver odorato
il mare, come se quell'odore di mare fosse un cibo che li potesse
nutrire, un cibo che potesse rendere felici.
Altro che anolini in brodo, altro che stracotto, quei due mangiavano
mare.
Rina e Sincero avevano davanti a loro cibi squisiti, ma non facevano
complimenti, non li annusavano, annusavano l'aria, si guardavano negli
occhi quei due e dicevano che nell'aria c'era un buon profumo. Masticavano
senza cibo in bocca.
Alcuni di noi, ridevano e non capivano, altri se ne stavano cupi e
guardavano il mare e poi le bocche in movimento di quei due vecchi.
Rina e Sincero volevano ascoltare "Azzurro".
Ricordo che io e i miei amici volontari vagavamo per la spiaggia ad
annusare il mare con il naso all'insù, ma quasi tutti noi alla
fine concludevamo che non era un buon profumo, qualcuno diceva che
era meglio dare da mangiare dei pesci a quei due, che forse era quello
che volevano.
Sincero dagli occhi celesti e inquieti, dal gesto nervoso e le mani
grosse da contadino, a volte sbatteva le mani con rabbia sul tavolo,
bestemmiava pure.
Rina dagli occhi nocciola spaventati e dolci, muoveva con delicatezza
le mani, quasi suonasse un'arpa.
Nessuno dei due parlava piu', solo con gli occhi parlavano. Guardavano
il mare in silenzio. Sembravano ormai due morti dagli occhi aperti
e dalla bocca aperta, noi dovevamo riportare verso le cucine in fondo
alla spiaggia quei cibi squisiti che per la prima volta erano stati
ignorati.
Mio Dio i piatti della cucina parmigiana che erano stati ignorati,
derisi, vilipesi per un osceno odore di mare, ma che pazzia stava
succedendo?
Noi facevamo a gara per preparare loro piatti prelibati, dai tortelli
di zucca, alla bomba di riso, passando per il vitello tonnato e lo
stracotto, fino alle torte sbrisolone e il castagnaccio, ma quei due
continuavano ad annusare l'odore del mare.
Non toccavano cibo.
Che tutti ci guardavamo in faccia e in realtà era un odore
non tanto buono, non certo più buono di quello dello stracotto
o degli anolini.
Ci provammo a cucinare branzini e tonni, e sogliole e pure aragostelle
ma ne' Rina ne' Sincero assaggiavano quei piatti da gran Ristorante.
Quel cibo marciva sulla tavola.
Che quei due avessero perso oltre che le forze e la bellezza, anche
il lume della ragione? Il senso dei profumi e del gusto dov'era?,
quello che fa star bene tutti perché non faceva star bene i
due vecchi rottami Rina e Sincero?
Un giorno che venne la banda a suonare "Romagna mia", quei
due erano particolarmente allegri, noi non ci facevamo più
vedere, li spiavamo da poca distanza coricati sulle sdraio.
Dopo ore di movimenti ondulatori della testa verso il mare e di lunghe
aspirazioni con il naso, accadde qualcosa di stupefacente.
Rina spezzò un pezzo di branzino in diversi pezzi e mettendo
in ordine i pezzi scrisse "Begli occhi, come il mare" e
guardava fisso Sincero, Sincero rimase muto.
Andò avanti Rina per giorni a scrivere messaggi dolci a Sincero
con fette di prosciutto e pezzi di mela, e cappelletti e scriveva:
"Vieni a casa mia che ti faccio da mangiare" "Ti presento
a mia madre" ma Sincero la guardava senza espressione.
Poi un giorno Sincero spezzò il formaggio parmigiano a pezzetti
e scrisse: "Le tue mani delicate, vorrei toccarle".
Da quel giorno quei due continuarono a scriversi messaggi col cibo,
con quel cibo prelibato e immortale, senza mai toccarsi.
Il problema era che quei due vecchi innamorati non mangiavano piu',
usavano il cibo solo per scrivere messaggi d'amore.
Noi volontari eravamo sconvolti, eravamo preoccupati, che non erano
normali quei due, che noi eravamo normali.
Io e gli altri gli fornivamo pane, grissini, pezzi di pesce, di carne,
pezzi di formaggio, per quei due vecchi il cibo era ormai diventato
inutile, disgustoso.
Continuavano a masticare mare sorridendo.
Non mangiarono piu', come se nutrirsi solo d'Amore potesse bastargli
per campare, il loro amore li portò alla Morte.
Un giorno trovammo Rina e Sincero schiantati sul tavolo in riva al
mare, finalmente abbracciati.
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