Michela
Colbacchini
Sono nata il 14 febbraio
1973 e fin da piccola ho sempre adorato il mondo dei libri ... come
lettrice! Il mio sogno sarebbe quello di riuscire a trovare un po' di
tempo da dedicare alla scrittura creativa. Nel 1998 mi sono laureata
in Lingue e Letterature Straniere (Inglese e Tedesco) e dal 1999 al
2001 ho vissuto in Germania. Al ritorno ho lavorato per conto di un
ufficio traduzioni e finalmente, nel 2003, ho iniziato a svolgere il
lavoro per cui sono nata : insegnare ! Prima come supplente in una scuola
elementare e poi in un CFP (età degli allievi 14-17 anni).
I miei esperimenti con la
scrittura risalgono a quando avevo un po' di tempo a disposizione (2004-2005),
ma il desiderio di scrivere è ancora acceso, anche se soffocato
dai mille impegni di ogni giorno.
Il breve racconto "Il
poeta e la scrittura" si è aggiudicato il terzo premio in
un concorso letterario nel 2003 (la traccia era : mente e cuore tra
razionalità e passione); gli altri due sono esercizi di scrittura.
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Esercizio di stile n.13 da R. Carver, Il mestiere di scrivere, pag. 155
"Ogni giorno, ogni notte della nostra vita lasciamo in giro pezzettini
di noi stessi. Scrivete un racconto in cui qualcuno, inavvertitamente
o deliberatamente, si lascia dietro qualcosa."
OGGETTI SMARRITI
"Ormai è troppo
tardi, è già scappata."
E' da poco passato mezzogiorno e mezzo e la piazza del mercato brulica
ancora di una vita alla quale la piccola città si sta lentamente
riabituando dopo le giornate fredde e brumose dell'inverno appena trascorso.
Gli studenti stanno uscendo proprio in questo momento da scuola e riempiono
il tempo che li separa dall'arrivo degli autobus vagando tra le bancarelle
senza un obiettivo preciso. Nonostante il volto coperto da una maschera
di studiata indifferenza, questi stormi di adolescenti rigorosamente
separati in maschi e femmine tradiscono con occhiate furtive, ma non
troppo, il desiderio di mescolare le carte ed iniziare partite meno
monotone.
"Non l'ho nemmeno vista bene in faccia, come farò a riconoscerla
?"
Gli impiegati delle banche e degli uffici del centro fanno a gara per
accaparrarsi i posti migliori di fronte ai bar che proprio in questi
giorni stanno strappando al letargo le seggiole e i tavolini da esterno.
Il fascino irresistibile del sole primaverile ha fatto scordare il senso
del dovere a molte giovani signore che, incuranti dell'esempio delle
colleghe più anziane, si sono attardate a chiacchierare davanti
ad una tazzina di caffè. Ora, con le borse e la coscienza un
po' più pesanti, si affrettano con un'espressione colpevole verso
l'auto, pensando a quale sia il piatto che richiede minor tempo per
comparire in tavola.
"Beh, se invece di stare qui impalato mi do una mossa, posso ancora
raggiungerla. Forse rivedendo i vestiti o i capelli riuscirò
a riconoscerla."
E' successo tutto così improvvisamente, che il ragazzo quasi
non si è accorto subito dell'oggetto assai particolare che la
ragazza, nel passargli accanto, ha lasciato dietro di sé. E così
se l'è trovato di fronte, senza sapere di preciso cosa fare.
Il ragazzo si riscuote da questo momentaneo stupore e inverte la rotta.
Il suo sguardo corre in avanscoperta, aggira nugoli di ragazzini ammassati
di fronte al furgoncino delle patatine fritte, schiva gli ultimi manipoli
di casalinghe ritardatarie, si apre un varco tra spalle cariche di zainetti.
"Eccola, mi sembra lei."
E' ferma davanti al la bancarella degli animali, ma subito dopo è
sparita nuovamente. Pochi passi gli svelano il mistero dell'improvvisa
scomparsa. Guadato l'ultimo fiume chiassoso e variopinto che lo separa
dalla ragazza, la vede. Eccola lì, china di fronte ad una gabbietta
appoggiata a terra. E' talmente assorta a guardare i tre cucciolotti
uggiolanti che dimenano frenetici le loro codine che non sembra neppure
essersi accorta del padrone del camioncino che si è avvicinato
salutandola.
"E adesso che l'ho trovata cosa le dico? - Scusi, signorina, guardi
che ha perso questo?"
La gola riarsa e le mani umide e leggermente tremanti, il ragazzo sta
quasi per tornare sui suoi passi e rinunciare alla lotta con il suo
eterno nemico.
"Dannazione, farei solo la figura dello stupido"
Ad un tratto se la trova di fronte; lei s'è alzata e sta per
andarsene, ma nel girarsi s'è fermata un momento a guardarlo.
Forse è un po' meravigliata nel vederlo lì, completamente
assorto a fissarla.
Il ragazzo non ha tempo per pensare; sente solo le sue labbra che si
muovono senza attendere ordini dall'alto.
"Scusi, signorina, questo appartiene a lei. Credo proprio che un
sorriso così bello sia troppo prezioso per non essere restituito."
IL POETA E LA
SCRITTURA
Io non sono uno scrittore
Sono solo un semplice cameriere in uno dei numerosissimi alberghi di
Washington.
Per settimane, mesi, anni, ho visto decine, centinaia, migliaia di volti,
i rappresentanti di ogni angolo del mondo.
Nonostante l'immensa varietà, alla fine tutto questo arrivare
e partire diventa il fluire di una massa indistinta e anonima, e noi
camerieri ci muoviamo come i meccanismi perfettamente sincronizzati
di un orologio, privi - apparentemente - di qualsiasi coinvolgimento
emotivo.
Eppure qualche volta accade al personale di un albergo ciò che
avviene agli abitanti di un villaggio; l'arrivo di uno straniero solleva
un'onda di curiosità, un'onda che qui si annuncia da lontano
con una lieve increspatura sulla superficie levigata del quotidiano
via vai di volti tutti uguali, si gonfia a mano a mano che percorre
i corridoi salendo di piano in piano per scrosciare infine negli angoli
dove si trascorrono i pochi momenti di riposo e conversazione.
Un evento del genere non capita spesso, e per questo mi risulta più
facile raccontare quello che mi toccò così da vicino.
A quel tempo - ero proprio agli inizi - lavoravo al secondo piano ed
ero stato affiancato ad un ragazzo poco più vecchio di me che
per metà giornata si occupava di un altro "nuovo" al
terzo piano.
Di lui ricordo soprattutto la passione per la lettura e per la poesia
in particolare.
Un mattino mi corse incontro raggiante, annunciandomi in tono solenne
che uno dei suoi poeti più amati avrebbe occupato la stanza 205.
Era una delle camere di cui mi occupavo io.
Se non fosse stato per il mio collega e il suo entusiasmo, probabilmente
quel particolare ospite della 205, proprio come tutte le altre migliaia
di ospiti, non avrebbe lasciato alcuna traccia del suo passaggio. O
forse sì.
Non fu tanto la persona in sé a lasciare un segno; lo vidi infatti
assai di rado durante il periodo della sua permanenza a Washington.
A distanza di anni lo ricordo come una persona estremamente riservata,
ma non in senso negativo di chiusura altezzosa. Al contrario, quando
mi capitava di incontrarlo, il suo sguardo pacato e sereno suggeriva
un'immensa disponibilità all'ascolto e al tempo stesso un'estrema
discrezione.
Fu quello che trovai nella camera 205 il giorno della sua partenza a
far sì che "il poeta" (ormai avevo preso a chiamarlo
così) rimanesse scolpito nella mia memoria con tratti così
vividi.
Nel cestino della carta trovai alcuni fogli spiegazzati; attirarono
la mia attenzione perché erano coperti di appunti in matita,
abbozzi di frasi e parole isolate apparentemente buttate giù
a caso sulla carta.
Probabilmente la passione letteraria del mio collega mi aveva già
contagiato, perché non me la sentii di gettare quei due fogli
assieme al resto dei rifiuti. Li piegai con cura e li riposi nella tasca
della mia divisa, proponendomi di leggerli non appena avessi trovato
un attimo di tranquillità.
Quel giorno ci fu così tanto da fare che quasi avevo scordato
le due paginette che riposavano nella tasca. Verso sera, quando un ospite
appena arrivato mi offrì una piccola mancia, infilando la mano
in tasca sfiorai quei fogli un po' stropicciati e subito si accese la
curiosità e un vago senso di aspettativa per quello che vi avrei
scoperto.
Una volta ritiratomi nella quiete della mia stanza, trascorsi un paio
di ore vagando con gli occhi e la mente in quella foresta di segni.
Già ad un primo sguardo mi resi conto che quello che avevo di
fronte era un frammento di un'opera più ampia. Su quei fogli
potevo seguire la gestazione di un testo - non capivo bene se fosse
destinato a rimanere prosa o se invece sarebbe sbocciato in una poesia
- che un giorno avrebbe visto la luce e avrebbe raggiunto migliaia di
persone.
Averne visto una fase dello sviluppo mi riempì di un'emozione
indescrivibile; fino ad allora, infatti, non mi ero mai posto il problema
della nascita di un'opera.
Per me i romanzi, le storie, le poesie, erano "fatti" che
trovavo bell'e pronti ogni volta che aprivo un libro. Ora avevo scoperto
che essi erano simili alle altre creature viventi: la mente feconda
di un autore li concepiva, questi crescevano e si sviluppavano e venivano
infine alla luce per continuare la loro crescita e trasformazione nelle
menti di altri individui, che in un certo senso ne diventavano genitori
adottivi (co-autori !).
Due parole campeggiavano al centro del primo foglio: RAZIONALITA' e
PASSIONE, e subito sotto MENTE e CUORE. Ognuna di esse era collegata
alle altre con una serie di frecce. Attorno a questa quaterna gravitava
una costellazione di parole e frasi appena abbozzate; c'era addirittura
qualche schizzo, una vela ed un timone, ed una strana creatura alata
che qualche anno dopo scoprii essere una fenice.
Ad uno sguardo più attento notai come tutte le parole si disponevano
sulla pagina secondo un ordine preciso: da una parte concetti come "giudizio",
"gelo", "prigionia", dall'altro invece "appetito",
"fiamma", "distruzione".
Nell'altro foglio c'era un disegno. Il poeta aveva tracciato due cerchi
concentrici: in quello più interno aveva scritto "campo
di battaglia", "muovere guerra", "rivalità",
"discordia". Nello spazio tra i due cerchi ritornavano, mescolate,
le parole che prima erano apparse separate in due colonne. Lungo tutta
la circonferenza più esterna, infine, erano disposti altri termini:
"armonia", "unione", "guida", "canto",
"conciliazione".
Ad un certo punto ebbi l'impressione che quei segni mi attirassero nella
pagina e che assieme ad essi cominciassi anch'io a seguire un movimento
vorticoso che partiva dal centro dei due cerchi e raggiungeva il bordo
più esterno toccando ognuna delle parole. E come una goccia che
cade nell'acqua genera una sequenza di onde, così pure ogni parola
che sfioravo in questo vortice ascendente suscitava nella mia mente
una serie di ricordi, pensieri ed emozioni. Questi a loro volta andavano
ad arricchire il gruppo di parole annotate dal poeta.
Mi resi conto improvvisamente che quei fogli stropicciati avevano segnato
una svolta nella mia vita interiore: fino ad allora mai avevo riflettuto
sulle forze che guidavano il mio spirito ed avevo accettato senza metterla
in discussione l'idea, divenuta ormai quasi un dogma, che tra passione
e razionalità, tra mente e cuore, non ci potesse essere accordo.
Quel vortice costruiva e distruggeva allo stesso tempo: presentava agli
occhi della mia mente - fino ad allora, per così dire, "assonnati"
- ciò che si riteneva essere "la" verità e contemporaneamente
dimostrava come, attraverso la demolizione di questa pseudo-verità,
se ne raggiungeva un'altra ad un livello superiore, di una qualità
migliore, per usare parole più semplici. Quando mi fu narrato
il mito della Fenice, mi divenne chiaro anche il significato dello schizzo
che avevo visto tra gli appunti del poeta.
Quel giorno fu così decisivo soprattutto perché grazie
a quelle due pagine gettate nel cestino imparai a leggere la realtà
alzando il velo delle apparenze; il movimento vorticoso che aveva scosso
come un fremito quei segni tracciati in matita non si era arrestato,
ma si era propagato come un'onda nella mia mente e nel mio cuore.
Come in una visione capii che il poeta non stava parlando di razionalità
e passione solamente in termini di rapporti tra persone.
Sotto il velo delle sue parole si celava anche il racconto del suo stesso
fare poesia; la scrittura come fusione armoniosa tra due potenze apparentemente
inconciliabili - l'ebbrezza tumultuosa e creatrice dell'idea che vuole
sgorgare e la struttura razionale che le deve dare forma e comprensibilità.
Qualche tempo dopo, durante una delle mie ormai frequenti visite alla
biblioteca del mio quartiere, scorrendo con gli occhi i dorsi dei libri
che riposavano sugli scaffali scorsi il nome di quel particolare ospite
della camera 205.
Il suo era un libro piuttosto esile e, nel liberarlo dall'abbraccio
potente dei due libri tra cui era infilato, provai la stessa curiosità
di quando avevo trovato quei due fogli nel cestino della carta.
Prima di aprirlo ne guardai a lungo la copertina e lessi lentamente
le poche righe sul retro - una citazione dal testo stesso.
Infine mi decisi; mi tuffai al suo interno scegliendo una pagina a caso.
"E nuovamente la sacerdotessa
domandò: Parlaci della Ragione e della Passione"
Pura coincidenza ? Oppure
destino ?
Non mi sono ancora dato una risposta, ma so per certo che in quel momento
vidi lo sguardo sorridente del poeta che mi ammiccava tra le righe.
L'OROLOGIO
"Sai, mi è capitata
una cosa molto particolare qualche giorno fa. Ho incontrato un mio vecchio
amico che non vedevo ormai da un bel po'. C'era stato un periodo in
cui ci frequentavamo assai spesso, soprattutto quando ancora lavoravamo
nello stesso ufficio. Poi però ho cambiato casa e lavoro, e si
sa come va, nuovi impegni, nuovo ambiente, ognuno prende la sua strada
e va a finire che le amicizie un po' alla volta si intiepidiscono, si
raffreddano. Sebbene all'inizio mi sentissi un po' in colpa per non
essermi più fatto vivo, poi iniziai a giustificarmi dicendomi
che neanche lui, dopotutto, si stava dando da fare per mettersi in contatto
con me. D'altra parte tu sai meglio di me che razza di vita si fa nelle
città. Insomma, devo proprio dire che questo incontro inaspettato
e casuale non mi è dispiaciuto per nulla. Per la verità,
ripensandoci un po', sembrava quasi che lui mi stesse cercando, perché
quando ho risposto al suo saluto un po' incerto, come se non fosse sicuro
che l'avrei riconosciuto, ho scorto quasi un'espressione di sollievo
nel suo volto. Dalla storia che mi ha raccontato poco dopo ho capito
che aveva proprio bisogno di alleggerirsi l'animo da un malessere che
lo perseguitava fin dal mattino.
Dal momento che eravamo nei pressi del parco del settore ovest, ci siamo
diretti entrambi istintivamente verso il cancello d'entrata per fare
quattro passi in mezzo al verde ed isolarci un po' dal rumore e dalla
frenesia delle strade. Anche se l'ora di punta della sera era ormai
pressoché conclusa, c'era ancora parecchio traffico, i bar e
le sale da tè iniziavano a riempirsi di fumo e della solita schiera
di impiegati che ogni sera devono riempire in qualche modo la parentesi
di tempo tra la fine della giornata lavorativa e l'ora di cena.
Dedicammo i primi dieci quindici minuti alle chiacchiere di rito su
quello che avevamo fatto negli ultimi mesi. Percepivo nettamente una
certa agitazione nel mio amico, evidentemente aveva fretta di trovare
un luogo tranquillo dove poter parlare con calma, quasi non volesse
essere ascoltato da altra gente. Mentre gli chiedevo di come procedessero
le cose in ufficio lo vedevo assente, continuava a guardarsi attorno
alla ricerca di un angolino abbastanza isolato. Alla fine i tratti del
suo viso si rilassarono e con un sorriso gentile mi invitò a
seguirlo verso una panchina vicino alla fontana, sai, quella che tutti
chiamano "delle chiocciole" per via di quelle strane sculture
a spirale.
Così ci sedemmo e per qualche istante restammo entrambi zitti.
Il silenzio fu immediatamente riempito dagli zampilli della fontana
e dal rumore, ora un po' attutito, delle auto in lontananza. In quei
pochi secondi il mio amico sembrò essersi dimenticato della mia
presenza: si guardò attorno con un'espressione colma di stupore,
quasi fosse la prima volta che si soffermava ad osservare ciò
che lo circondava. I suoi occhi divenuti avidi parevano voler raccogliere
il blu intenso di quel tardo pomeriggio primaverile e tutte le sfumature
di verde degli alberi e dei cespugli nel pieno del loro rigoglio.
Io rispettai in silenzio quel suo momento di astrazione, ben conoscendone
il significato, poiché anche per me c'era stata, qualche tempo
prima, una "rivelazione" del genere. Dopo un po' inspirò
profondamente e ritornò con lo sguardo su di me, pronto a liberarsi
dal nodo che pareva soffocarlo. Con un'espressione confusa e ancora
un po' indecisa iniziò il suo racconto.
"Sai, mi sta capitando una cosa molto particolare. Non ho ancora
ben capito cosa sia esattamente. Ti prego, non prendermi per pazzo.
Ho un bisogno tremendo di parlarne con qualcuno e sento che tu puoi
ascoltarmi senza ridere di me e offrendomi un po' di comprensione. Da
quando hai lasciato l'ufficio non ho più nessuno con cui confidarmi
o condividere le mie opinioni più, come posso dire, beh sai,
quelle più personali, quelle che ormai tutti preferiscono tenere
per sé. Questo mi pesa, è iniziato a pesarmi sempre di
più nelle ultime settimane.
E' cominciato tutto questa mattina con un malessere indefinito. Non
era qualcosa di fisico, ma, non so come descriverlo, una specie di biscia
che ti striscia dentro e non riesci ad afferrarla.
L'ufficio è rimasto chiuso tutto il giorno oggi perché,
forse l'avrai saputo anche tu, tre giorni fa è morto uno dei
soci, Sanders, ti ricordi, quello che ogni tanto veniva a dare un'occhiata
giù da noi.
Io mi sono svegliato alla solita ora anche se sapevo che avrei potuto
dormire un po' più a lungo. Ma ormai, dopo anni di giorni scanditi
sempre allo stesso ritmo regolare, anche tu diventi un orologio. Oggi
però mi sono concesso il lusso di non alzarmi subito. Sono rimasto
a letto a leggere per un'oretta. Alla fine però il richiamo dell'abitudine
è stato troppo forte, e così sono saltato giù dal
letto, sono andato in bagno a lavarmi, come ogni mattina prima di colazione.
La strana sensazione che avevo provato al risveglio stava diventando
ancora più intensa. All'inizio avevo pensato che forse era dovuta
a questa variazione di programma, l'ufficio chiuso e niente lavoro per
tutto il giorno, e così tentai di tenermi occupato sbrigando
la posta elettronica che attendeva ormai da giorni che le dedicassi
un po' del mio tempo. Mentre aprivo i messaggi decidendo quali cestinare
immediatamente e a quali invece inviare una risposta, mi accorsi che
i miei pensieri vagavano altrove, in qualche luogo che di sicuro non
era la stanza dove mi trovavo seduto al mio portatile. Una parte del
mio cervello stava insistentemente cercando la causa di quella sgradevole
sensazione. Non poteva essere stata la morte di Sanders, lo conoscevo
a malapena di vista e non ci avevo neppure mai parlato.
Pensai addirittura che forse era stato qualcosa che avevo mangiato la
sera prima. Anche questa possibilità era da escludere, visto
che da anni ormai osservo un regolare e ben collaudato programma alimentare
del quale il mio stomaco non si è mai lamentato. E neppure poteva
essere stata qualche notizia alla televisione. Lasciando da parte il
fatto che i notiziari della sera sono sempre purgati ben bene per non
turbare il sonno a noi operosi cittadini, di solito accendo il televisore
per riempire il silenzio del mio appartamento mentre mi preparo la cena
e mangio, ma non presto quasi mai grande attenzione a quello che dicono
la biondina o la moretta di turno.
Finii distrattamente di rispondere alle e-mails più urgenti e
poi mi alzai per andare alla finestra. Mi era venuto in mente, infatti,
che non avevo mai visto la città dalle finestre del mio appartamento
durante un normale giorno lavorativo a quell'ora. Iniziai dalla finestra
della zona giorno, quella che ho ribattezzato la "sala multiuso",
visto che nei miniappartamenti che ci passa lo stato bisogna ricorrere
a tutto il nostro ingegno nella gestione dello spazio. Tralasciai il
pertugio del microbagno che avrebbe richiesto uno sforzo sicuramente
non ripagato da una vista degna di tanta fatica, e passai a quella della
stanza da letto. Fu solo perché da una parte avevo il sole di
fronte, mentre dall'altra no, che mi accorsi di aver cambiato la prospettiva.
Da entrambe le finestre la scena era infatti praticamente la stessa,
da entrambi i lati dei miei trentacinque metri quadri lo stesso identico
formicolio di tram e auto che dal ventiduesimo piano sembravano una
uguale all'altra, perfino nel colore.
Mi resi conto solo allora che l'intera città era un immenso orologio.
Per associazione di idee mi venne in mente di guardare che ora fosse,
cosa che durante un normale giorno lavorativo non facevo mai, dal momento
che solitamente tutto fluiva automaticamente, quasi come se il tempo
di ogni momento della giornata fosse scandito da qualche invisibile
direttore d'orchestra.
Recuperai l'orologio da sotto il libro che avevo appoggiato sul comodino
accanto alla testiera del letto e mi accorsi che le lancette si erano
fermate. Provai a scuoterlo un po' per vedere se per caso ripartiva,
ma inutilmente, non dava alcun segno di voler riprendere a camminare.
Le lancette segnavano le 11.54 e nella casellina del datario la vita
dell'orologio era rimasta sospesa tra il 6 e il 7.
Pensai ridendo tra me e me che quella strana sensazione doveva avere
a che fare con l'orologio che ad un certo punto aveva deciso di fermarsi.
In qualche istante creai una storiella dove quest'oggettino voleva vedere
cosa sarebbe accaduto se avesse scelto di uscire dalle file dell'orchestra.
Io ovviamente ero stato tenuto all'oscuro dei suoi piani, ma siccome
di sicuro esisteva un legame tra il suo funzionamento e la regolarità
della mia vita, il suo gesto avrebbe comportato un turbamento anche
del mio universo. Lasciai subito perdere queste fantasie e tornai a
pensare in modo pratico, decidendo che sarei passato da un orologiaio
subito dopo il funerale di Sanders. Prima avrei pranzato e mi sarei
preparato con calma per la cerimonia. Intanto avevo tutto il resto del
pomeriggio per pensare al mio orologio. Ed era anche un modo di dimostrare
a me stesso che non ero così sciocco da perdere tempo con strani
pensieri.
Non mi andava di arrivare in ritardo e perciò presi la metropolitana
quasi un'ora prima dell'inizio della funzione, anche perché non
avevo idea di quanta gente circolasse a quell'ora per me insolita. Quando
arrivai in chiesa c'era ancora poca gente. Non conoscevo nessuno, probabilmente
erano impiegati di altre sezioni che, non sapendo come occupare il tempo
di quella giornata senza ufficio, avevano deciso di venire lì
con grande anticipo. O forse avevano avuto il mio stesso pensiero, non
conoscendo il traffico sotterraneo del primo pomeriggio.
Scelsi un posto in una delle ultime file di banchi e rimasi in attesa.
I miei pensieri ripresero a vagare liberamente attorno alla stranezza
di quella giornata e dello stato d'animo, per me totalmente nuovo, in
cui mi trovavo. Percepii in modo ovattato quanto si svolgeva attorno
a me e seguii automaticamente la massa dei presenti quando lasciammo
la chiesa per trasferirci al vicino cimitero.
Quando finalmente tutto fu concluso, fui uno dei primi ad andarmene.
Volevo infatti sistemare quanto prima la questione dell'orologio. Nonostante
i miei sforzi per soffocare quelle strane idee che avevano preso a girarmi
per la testa circa la connessione tra l'orologio e il fluire della mia
esistenza, la sensazione di disagio era andata via via intensificandosi.
Le fantasie del mattino avevano invaso la mia mente. Ero ormai profondamente
convinto che il fermarsi delle lancette avesse prodotto una piccolissima
crepa sulla superficie perfetta della mia esistenza e che ora a partire
da quell'incrinatura venisse a formarsi una ragnatela sempre più
estesa, come accade quando una pietra, anche minuscola, colpisce un
vetro nel punto giusto e lo manda in frantumi.
Mentre mi affrettavo verso l'orologiaio più vicino mi aggrappavo
al pensiero che una volta riparato l'orologio tutto sarebbe ritornato
alla normalità. E più riflettevo su queste cose, più
mi davo dell'idiota per aver permesso a pensieri tanto oziosi di turbare
il mio equilibrio.
'Guarda che razza di effetti può avere una semplice variazione
di programma', continuavo a ripetermi.
Quando finalmente trovai un orefice che vendeva e riparava orologi,
entrai quasi di corsa nel negozio e provai un certo fastidio nel vedere
che c'erano altre tre persone prima di me che aspettavano di essere
servite. Fastidio che si trasformò in dispetto quando il negoziante
neppure si curò di rispondere, almeno con un semplice cenno del
capo, al mio saluto.
Mentre aspettavo che arrivasse il mio turno, iniziai a guardarmi intorno;
fu solo allora che notai un particolare al quale durante il giorno non
avevo fatto caso nei posti dov'ero stato.
Le lancette di tutti gli orologi del negozio erano ferme esattamente
alle 11.54 e anche gli orologi digitali segnavano la stessa ora. Improvvisamente
provai un senso di soffocamento e senza voltarmi a guardare il negoziante
e gli altri clienti uscii dal negozio in preda all'affanno e a una totale
confusione.
Ed è stato a quel punto che ci siamo incontrati per la strada."
Il racconto del mio amico si fermò lì.
Quando alzò gli occhi dall'orologio con cui le sue dita avevano
continuato a giocare fino ad allora ed incontrò il mio sorriso,
vidi riflessi nei suoi occhi chiari gli ultimi raggi di sole di quello
strano giorno e la profonda comprensione che cercavo di trasmettergli
attraverso il mio sguardo. Sembrava comunque aver trovato da solo, nel
raccontare a me quella sua strana giornata, la risposta a tutti i suoi
dubbi. E tu che ne pensi ?"
"Mio caro Gabriel, alcuni impiegano un bel po' per rendersi conto
di essere usciti dal flusso del tempo."
(questo racconto è stato ispirato da uno dei pezzi musicali ascoltati
durante la quarta lezione; si tratta del primo brano, l'arrangiamento
di una delle fughe di Bach)
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