Emiliano Moncia

Mi chiamo Emiliano Moncia, ho 26 anni e vivo a Imperia. Spero vi interessi questo racconto anarchico e mi auguro che corrispondiate numerosi con me. Grazie

La cacciata di Adamo

Sono in un ospedale, questo lo sento. Qualcuno, là fuori, potrebbe credere che non me ne sia accorto, ma si sbaglia. Vorrei che si rendesse conto, questo qualcuno, che percepisco il suo disagio nel vedermi qui, vivo. Vorrei farglielo sapere. E vorrei rassicurarlo del fatto che non mi preoccupo, che tutto prima o poi si riaggiusterà. Tutto si riaggiusta sempre.

È strano, come le storie debbano per forza di cose cominciare da qualche parte. La mia storia comincia qui, per esempio, dentro un letto piantato in mezzo ad una stanza. Presumibilmente, perché io non riesco a vedere dove sono esattamente. Però sento. Non posso fare nulla, a parte pensare. Non riesco a muovere un solo muscolo del mio corpo, eppure non sento nessun male. Passo le ore a pensare e a ripensare ai fatti che mi hanno portato qui dentro. È piuttosto strano, lo so. E' come tentare di ricostruire un puzzle: hai davanti ai tuoi occhi i pezzi in ordine sparso, seminati sul tavolo, e tutto sta a rimetterli insieme, a incastrarli. Solo che nel mio caso questi pezzetti tornano dentro la mia memoria come se fossero accecati da un flash luminoso, come se ci fosse qualcuno che mi scattasse fotografie direttamente nel cervello. La cosa non è facile. Continuano ad arrivare spari di luce dagli antri bui e oscuri di una memoria a brandelli: all'inizio mi si sono presentate come visioni in maxischermo, oblique, che mi riducevano lo stomaco a una poltiglia liquida da vomitare all'istante. Sudori freddi, febbre, diarrea. Poi, con l'abitudine, i lampi sono diventati più precisi, meno caotici. Andando avanti il rimescolamento dei ricordi ha preso una certa forma, più lineare e concreta; col tempo mi sono fatto anche l'idea - pensate - che la colpa di tutta questa storia non sia affatto mia, ma del barbone. E ripensandoci mi si calmano persino gli attacchi di paranoia. Di paura. Sono indifeso in un letto, forse è questa la vera causa. Pensare questo mi indebolisce ancora di più. Riesco a star bene solo quando cerco di riordinare il mio schedario mentale su quello che mi è accaduto quel giorno. Cosa poi sia avvenuto dopo la mia discesa nel pozzo, o ciò che dopo effettivamente si rivelò, non lo so.

È strano, dicevo, come le storie debbano incominciare da qualche parte. È strano come le cose che accadano non seguano un casuale flusso. Che abbiano un punto di partenza. Ecco: i miei ricordi da questo luogo sono iniziati pochi istanti fa - o forse giorni, o forse mesi, o forse - da una frase: il ragazzo non ha colpa, ha un sacco di problemi. Queste parole mi sono entrate in testa improvvisamente, dal buio. Qualcuno, anche se non ero in grado di stabilire con esattezza chi, stava parlando di me. Suppongo - anzi, ne ho quasi la certezza - potesse essere stato Abracadabra: la voce che rombava la stanza, anche se fortemente amplificata, assomigliava alla sua. D'altra parte chi meglio di lui poteva starmi accanto in un momento, in una situazione del genere?

Abracadabra, già: noi nel gruppo lo chiamavamo così - il suo nome reale era Giorgio - per una serie di ragioni più o meno importanti che non è il caso qui di stare a rivangare, ma soprattutto per la sua imprevedibile capacità di risolverti problemi. Mi riferisco ad ogni genere di problemi, e nei momenti più disperati. Tu praticamente non dovevi far altro che rivolgerti a lui e pouf! ecco che ti faceva una magia: sì, insomma, ti risolveva in un battere di ciglia il caso. Non so, potevi avere delle rogne con Sandro, il capo della stazione? Andavi da Giorgio e gli spiattellavi il caso, che tanto lui se ne fotteva altamente: era o no suo cognato? Volevi forse dei turni meno massacranti? Bene, niente sindacalisti rompiballe: andavi da Giorgio che lui poi ti metteva al turno giusto, ma sempre che questo non creasse eccessivo scompiglio tra gli altri. Perché Abracadabra era un giusto in fondo, non so se mi spiego… Per noi del gruppo quelli che facevano la fila al Comune a implorare chiacchiere da quattro soldi ai capi di turno erano dei pezzi di merda, gente senza palle, capite? Persone costrette dalla vita a coprire mansioni meschine e volgari e senza senso. Noi eravamo a posto, invece, in questo genere di cose: bastava rivolgersi ad Abracadabra. Sembrava conoscesse il mondo intero. A girare con lui ti rendevi conto a colpo d'occhio dell'immenso campionario della fauna variopinta che gli circondava il culo o che lo salutava con rispetto: una mandria informe e senza nome di puttane da strada, di poliziotti e tossici, froci, strampalati esseri umani senza capo né coda, gente che a prima vista poteva anche sembrarti più o meno a posto, vigili cocainomani e figli di puttana vari. Tutte le categorie. E la scombinata e immortale serie, innumerevole, dei tagliagole più noti del posto, gentaglia che ti faceva cagare addosso solo a starli a guardare.

Comunque, per dirvela tutta, a noi della stazione non ce ne fregava un benamato di chi frequentasse; a noi piaceva solo il suo modo di fare: con noi era gentile, e se poteva darti una mano lo faceva senza rotture aggiuntive. Mai una volta che abbia fatto parola di niente con nessuno sui come e sui perché riuscisse sempre a risollevare le sorti di ogni caso suicida che gli si presentava davanti. Per noi era a posto così. Questo, si chiama avere "senso della vita", "senso della giustizia". Potevi davvero stare tranquillo con lui. Gli altri tassisti, anche quelli più vecchi di lui, lo rispettavano come un capo. Un po' perché era il cognato del Gran Capo, ovviamente, e tenersi buono lui significava tenere ben saldo nelle proprie mani il posto di lavoro in questo buco, ma un po' anche per la grinta minacciosa e sbilenca che questo sporco sessantacinquenne prossimo pensionato, quasi calvo, basso, tarchiato e semialcolizzato sapeva emanare dall'ultima punta dei capelli fino al suo profondissimo buco del culo. Dovevate vederlo al lavoro: sempre vestito in jeans, dal cappello alle scarpe. Pensate che pochi avevano avuto l'onore di andare a casa sua, ma chi c'era stato giurava che avesse l'armadio zeppo di abiti in jeans: "Non si suda, è roba pulita, non sono cazzi vostri e questo è quanto!" sbuffava lui quando qualcuno gli faceva notare la cosa. Dire che è simpatico forse è eccessivo, però è divertente, sicuro: negli stop per la pausa ci deliziava tutti con le sue ciance; era sempre pieno di storielle amene da raccontare, sempre a sparare battute di dubbissimo gusto, strascicando la voce come sa fare lui, imitando le pose sconce dei culi di femmina che saltavano sul suo taxi. Con le storie delle sue scopate nel taxi ci potevi riempire il lago di Garda! Un vero sballo. Io lo adoravo, mi scompisciavo sempre quando cominciava uno dei suoi raccontini su questo o su quello. Mi ricordo che mio padre (ha lavorato alla stazione anche lui, e quando è morto è stato Abracadabra in persona a volere che fossi io a prendere le consegne del suo taxi) ne parlava sempre. Lo aveva conosciuto da giovane, fin dal suo primo giorno di lavoro. Mi ricordo ancora quando certe sere, per far star buoni me e mia sorella Claudia dopocena, raccontava di quell'episodio. Abracadabra arrivò al suo primo giorno con due ore secche di ritardo (e tenete a mente che aveva sposato la sorella del Gran Capo solo da quattro giorni), e si beccò zitto zitto un quarto d'ora di cristi e sacramenti vari da parte del Sandro, e parlo di urla che si sarebbero sentite anche a quattro chilometri da lì, e quello? Dopo averlo squadrato con un'aria da sciacallo, alla fine senza dire una parola se la filò dal suo ufficio e scese dritto giù al garage a prendere l'estintore, tornò dal capoccia e gli rovesciò sopra quella cazzo di schiuma bianca. Lo ripulì per bene. Sandro tutto lercio non aprì bocca. Gli altri, di sotto, se ne stavano a osservare ammutoliti e con la lingua penzoloni la scena, e quando Abracadabra uscì dall'ufficio zuppo anche lui della polvere (o di che diavolo c'è dentro: non so come si chiami esattamente quella roba) che gli si era riversata sopra, quelli non sapevano se ridere o dirgli qualcosa, capite? E allora lui si voltò verso di loro e sentenziò crudissimo: "Ho ritardato per quella troia di sua sorella e mi viene ancora a cagare il cazzo! Voi aspettatemi qui! Vado, mi asciugo e torno." E mio padre e gli altri scoppiarono a ridere che quasi non la finivano più, e addirittura Franco lo Storpio del 19 si pisciò anche sopra. Da quel giorno Sandro venne ribattezzato da tutti "l'omino bianco", anche se s'incazzava sempre quando sentiva qualcuno chiamarlo così. Abracadabra non avrà avuto più di ventiquattro, venticinque anni quando fece lo scherzo dell'estintore. L'età che avevo io quando lo conobbi da vicino, quando in pratica cominciai a lavorare per lui.

Non eravamo poi in molti ai taxi: il nostro campo base si trovava giusto nei pressi della stazione ferroviaria, e il lavoro non era certo dei più esaltanti. In pratica ricevevamo telefonate unicamente per andare a prendere vecchie sole che non avevano nessuno che le accompagnasse al treno e così via. Di figa se ne vedeva poca. Non che io mi lamentassi, per carità: mi pagavano bene, lavoravo poco ed ero circondato dagli amici più tosti che uno possa immaginare. Che altro chiedere di più?

Eravamo una bella famiglia, insomma: erano stati loro a darmi il lavoro dopo la morte di mio padre, inoltre Abracadabra è sempre stato presente nei miei momenti di para ultraterrena, risolvendomi veramente un sacco di problemi. Problemi seri intendo. In particolare nei primi tempi che lavoravo lì, dopo che tutto era andato a rotoli con quel negro di Kymo, era stato lui in persona a procurarmi l'LSD e i Supermario. Ora: io non ho certo la più stramaledetta pallidissima idea di dove diavolo andasse a scovarli, né di come un tassista sessantacinquenne riuscisse a farmi avere più o meno regolarmente una media di cento, centoventi pasticche di acido e di LSD a settimana. Roba da impazzirci. Io non c'ho mai capito un accidenti. So solo che ogni venerdì sera alle otto e tre quarti, cioè quando staccavo io, mi si presentava davanti con un sacchetto della Standa zeppo: lui sorrideva, io sorridevo e gli davo i soldi, lui spariva. Fatto. Certo, ogni tanto mi rompeva un po', specie agli esordi, quando mi trascinava all'officina e attaccava la parte del bravo padre preoccupato: "Sta attento con questa merda, buliccio! O ti esploderà il cervello uno di questi giorni! Questa roba del cazzo fa parlare, parlare, parlare. E se parli per parecchio tempo finisce che dici un sacco di troiate! È la legge della compensazione: meno uno parla, più possibilità ha di non dire troiate! Tu lo sai bene che ti aiuto sempre, e io capisco che un ragazzo della tua età abbia bisogno dei suoi sfoghi: la discoteca o come cazzo si chiama adesso eccetera. Che ti credi che non ce li ho mai avuti vent'anni? Ma porca troia dico io: non puoi limitarti a scopare qualche zoccoletta del cazzo che ti capita a tiro? Non ti basta la figa? Cristo Santo! Tu sembri un bel tipo, sembri a posto e sei anche uno piuttosto in gamba. Uno dei pochi che non mi frantuma le palle qua dentro, uno che non parla, e questo io lo apprezzo sai? Ma dico: che diamine ci avete nella testa voi ragazzi?" Eccolo lì, poi, che scuoteva i suoi quattro capelli bianchi un paio di volte, tirava su col naso, faceva per andarsene e di botto mi si rigirava contro: "E di un'altra cosa mi raccomando: fa che non ti becchi mai a guidare un mio taxi da stonato! Parleresti come un buliccio di cose che è meglio… Bè, vaffanculo! Questo non te lo perdonerei proprio, capito?" Capito. Era questo che gli rodeva veramente, allora, altro che padre preoccupato! Aveva paura che qualche cazzone andasse a spifferare che era lui a rifornirmi di ecky…Che in piena crisi d'acido mi ritrovassi a parlare con qualche finocchio della sua mania di arrotondare il bilancio magro con la compravendita di sa il cazzo che cos'altro! Il pistolotto, comunque, e in particolare la faccenda del guidare stonati, si era ripetuto spesso nelle prime settimane - una vera rottura - ma poi Abracadabra si accorse pure lui che non ero certo uno stronzetto e che poteva fidarsi ciecamente di me. Bè… quasi ciecamente, maledizione.

Cominciai a rifornirmi di ecky e pasticche da lui dopo un paio d'anni che mi servivo da Kymo. Avevamo poi litigato di brutto, col negro, perché…bè, diciamo che si era accorto delle mie voglie piuttosto esigenti, e si divertiva a tirare su il prezzo di settimana in settimana. Quando non potei più pagarlo arrivò a puntarmi la canna in faccia, una sera. C'era ancora mio padre vivo, ricordo: me ne stavo tornando dal Pop veramente carico, praticamente non riuscivo a tenere la carreggiata e ci misi una buona mezzora ad arrivare al mio quartierino. Scesi dall'auto e improvvisamente sentii un bruciore fortissimo all'anca. Mi ritrovai a terra e mi voltai verso la cosa che mi aveva colpito. Kymo se ne stava accucciato con questo pistolone enorme dritto sul mio naso - sembrava stesse per cagare visto da quell'angolatura, e mi veniva da ridere a vederlo così, ubriaco com'ero - e mi disse che gli dovevo questo e quello, e che mi avrebbe ammazzato e bla bla bla. C'erano altri due negri con lui. Io non capivo molto della faccenda per via della roba che mi ero ingollato su al Pop e gli risposi che sì, ci avrei pensato la mattina seguente, che lui non aveva di che preoccuparsi, che li avevo tutti, i suoi soldi. Ovviamente non avevo una lira, ma lì per lì mi pareva la cosa più sensata e divertente da dirgli. Non potevo non notare quell'affare puntato sulla faccia. E così, la mattina dopo mi sono visto costretto a prosciugare una buona fetta dei risparmi di mio padre, fregandogli il libretto bancario (errore che ha pagato carissimo, quello di averlo intestato a entrambi) appena rientrato in casa dal fattaccio, e pagare quel negro dicendogli che avevo chiuso con lui e che le sue pasticche poteva d'ora in poi andarsele a ficcare dove gli pareva. Dopodiché avrei dovuto aspettarmi l'inferno da parte di mio padre, ma non successe nulla perché mio padre morì quattro giorni dopo. Un bell'infarto in una bella mattinata di fine settembre, mentre andava in banca a prelevare i soldi per fare la spesa. Un gran colpo di culo, malgrado tutto. Al funerale venne persino Kymo, con mia sorella che se lo mangiava cogli occhi…perché stavano pure insieme, oltretutto. Gesù, un negro in famiglia, pensavo. Però dopo che sotterrammo il vecchio mia zia Giulia prese Claudia con sé e la portò nella sua casa di Firenze, lasciandomi libero l'appartamento. Kymo sparì, letteralmente, non lo rividi mai più. Avevo fatto bingo. Abracadabra mi prese a lavorare impietosito dal lutto, cominciarono a rientrare spiccioli in abbondanza in cassa, e in pratica io ripresi di nuovo a sorridere agli eventi. Mi portavo Angela, la mia ragazza, quattro sere a settimane a scopare dentro casa. Naturalmente mi teneva pulito l'appartamento. Ero in estasi. Mi frullò persino per la testa l'idea di disintossicarmi. Passai un periodo piuttosto lungo di relativa astinenza dalle droghe, ma alla fine sbottai. Raggiunsi Abracadabra all'officina, una sera che tutti gli altri erano già via.

"Abracadabra, senti, posso chiederti una cosa?"

"Certo, lo sai che puoi chiedermi quello che vuoi. Ma che hai problemi? Hai l'aria parecchio stanca. Vuoi che ti cambi il turno?"

"No, è che… mi chiedevo se potessi darmi una mano tu… io sto proprio a pezzi… non so a chi altri rivolgermi."

"Che hai ragazzo? Dimmi tutto, te lo ripeto: lo sai che a me puoi chiedere quello che vuoi."

"Io… ecco, vorrei non fare tanti giri di parole con te.."

"Infatti non devi. Va al sodo. La domanda, qual' è?"

"O.K. allora. Ascolta. È roba di pastigliette, una cosa da niente per te, suppongo"

"Non ho capito una fava, ragazzo. Spiegati meglio."

"Si… Mmmm…tu puoi procurarmi dell'ecstasy?"

"E che cazzo di roba sarebbe?"

"Come che cazzo di roba sarebbe? Dai, non dirmi che non sai che cos'è!"

"Ti giuro figliolo che è la prima volta in vita mia che uno dei miei viene e mi chiede se gli posso procurare delle pastiglie! Cos'è, una roba tipo gli Optalidon? Comunque è una cosa illegale, altrimenti non saresti venuto a chiederle proprio a me."

"Infatti…"

"Sputa: è una specie di Moment illegale? Non sarà droga, per caso…"

"E bè, no! Ci mancherebbe! È come…sarebbero delle pastiglie di…delle cose che mi tirano un po' su certe volte che sono giù…"

"Pastiglie? Su e giù? Ma che cazzo stai blaterando? Che stai male? Che non si trovano in farmacia?"

"Non ci sono in farmacia. Le devi prendere da… insomma. Hai capito. Se no mica venivo da te, non credi?"

"Sì, te l'ho detto anch'io. Prima"

"Prima?"

"Sì, prima…"

"Quando?"

"Minchia, figliolo…sei veramente a pezzi…"

"No, no…è che non ho capito…"

"Va bene, va bene, basta così. Ho capito io. È droga. Vieni venerdì sera, quando stacchi. E che non si dica che Abracadabra non aiuta chi ne ha bisogno. Specie se poi si tratta di pastiglie. Io non voglio sapere se queste cose ti fanno andare giù o su o dove cazzo ti pare. Sappi solo che non voglio assolutamente che tu le prenda quando posi il culo su uno dei miei taxi. Intesi?".

Intesi. Andò così. Quel pazzo cominciò a riempirmi di roba. Molte volte si sbagliava pure e mi portava sacchetti pieni di LSD allo stesso prezzo dell'exstasy. Io non gli ho mai fatto notare la cosa, ovviamente: l'LSD sul mercato vale una madonna! Ero a posto.

 

Purché non le prendi sul mio taxi. Bello stupido che sono stato. E sì, perché in effetti io una volta il taxi, in acido, l'ho guidato, anche se ad Abracadabra questa storia non ho mai avuto il coraggio di raccontargliela per intero. Mi piglierebbe a calci se lo facessi, e mi ci gioco quello che volete che mi sbatterebbe fuori dalla stazione senza manco il tempo di dire amen. Ora: se lo ha saputo (e in fondo io sospetto che qualcosa abbia intuito), o mi ha perdonato e allora amen sul serio, o non aspetta altro che io mi rimetta a posto ed esca da questo ospedale per mandarmi a spasso.

La storia dell'acido in taxi, allora. Ed è un'altra storia che ha un punto di partenza preciso. Riesco ancora a raccontarla piuttosto bene. Non gli ingorghi che la mia povera mente ha dovuto subire durante quella tragica giornata, però. Quelli ancora non ce li ho chiari nella testa. Un casino orribile, comunque, che si rivelò la cazzata più grossa che mai potessi fare nella mia vita. Quel giorno maledetto, un venerdì mattina, presto, ero bello allegro. Mi stavo pregustando la serata con gli occhi immersi nel mio caffè, al bar della stazione: Il Pop + le birre + la compagnia + Angela = Ballare + ubriacarsi + cazzeggiare + scopare = serata paradiso. A un certo punto alzai lo sguardo e mi vidi riflesso nello specchio dietro il bancone. Un fremito di soddisfazione mi rincorse sulla schiena. Mi ero messo una bella t-shirt bianca e dei pantaloni lunghi di cotone, sul grigio topo. I capelli erano a posto e, malgrado fosse piena estate, non sudavo nemmeno. Dopo il caffè andai a comperarmi un giornale, me lo lessi un po' finché non arrivarono anche gli altri. I primi furono Franco lo storpio e Giacomino. Ci mettemmo lì a parlare in attesa dell'arrivo del rapido delle nove e venti. Quel giorno Abracadabra era libero, ma come al solito si presentò in stazione lo stesso. Si unì, poi il treno finalmente arrivò. Una folla scese incazzatissima e si diresse verso di noi: tutti sembravano avere una fretta del diavolo. A Franco toccò una coppia di settantenni con dei valigioni enormi che dovevano andare in centro; Giacomino si prese una gran figa che portava il suo splendente culo fino alla spiaggia. Armando un militare. Io caricai un tizio, un ragazzo più o meno della mia età. Disgustoso. Aveva tutta l'aria di uno sparacazzate allucinato: un essere furiosamente grasso, sudato e molliccio. Salì sul mio taxi facendo un casino della madonna. Aveva le scarpe piene di fango. Cominciai a innervosirmi immediatamente. Planò sul sedile posteriore come un fottuto ippopotamo. Peyton Westlake (Peyton Westlake era il nome nuovo che avevo dato al mio taxi - mio padre l'aveva chiamato Gina, in onore della Lollo, figuratevi… - un 127 Panorama 1100 di colore granata e con la scritta taxi in verde sulle portiere che probabilmente aveva la stessa età della regina Elisabetta. Una stronzata, lo so, ma bisognava pur darglielo un nome nuovo a quel taxi…) sprofondò di qualche centimetro. Sistemai la sua valigia nel portabagagli mentre quello montava su e m'infilai già coi nervi a pezzi al volante. I tipi così mi sono sempre stati sul cazzo, non chiedetemi perché…non riesco proprio a sopportarli, anche con tutta la buona volontà.

Il tizio poi aveva un look assurdo, da come potevo studiarlo dal retrovisore: capelli ingelatinati: una leccata di cavallo. Occhi pressoché ridotti a fessure, schiacciati quasi dalle guance. Era fasciato da una lunga camicia hawaiana gonfia di colori che gli scendeva fino alle ginocchia coprendogli la pancia, e portava dei pantaloni di stoffa leggera, larghissimi e blu. Robetta da mercatino rionale. Puzzava di sudore da star male. Ridicolo, pensai subito. Cominciò a rompere appena salito a bordo: voleva andare in un posto lontanissimo, in periferia. Un paesino sperduto dell'entroterra. Porca puttana. Mi ci sarebbe voluta almeno una mezzora buona per arrivare fin lì. Senza contare il maledetto traffico dell'ora di punta: tutti quei milanesi e torinesi e tedeschi che a quell'ora si davano appuntamento sulle strade della città per andare al mare, intasando tutto già dal mattino.

Partii rabbioso dunque, e portai il tassametro a cinquemilacinque di partenza. A quello pareva non fregargliene un granché. Dopo pochissimi istanti mi era chiaro che aveva una dannatissima voglia di parlare. Lo sapevo.

"Manca molto?"

"No, tra un attimo ci siamo"

"No, perché avrei fretta, devo raggiungere un mio amico che mi sta aspettando da un po'. Sai il treno ha ritardato, porca troia!"

Non gli risposi per vari motivi che non mi sembra il caso qui di approfondire, ma in particolare perché non avevo nessun interesse per la sua vita, per le sue disavventure personali nonché per i suoi cazzi vari. Specie a quell'ora. Per cui me ne stetti buono buono e con gli occhi fissi alla strada, al traffico e a qualche sparuto culo straniero che ancheggiava pericolosamente accanto al taxi quando rallentavo. Quello però non mollava il colpo e dopo sei secondi esatti di silenzio riattaccò:

"Mi chiamo Tony, a proposito, ciao! … No, presentiamoci visto che si prospetta un viaggio lunghetto eh? … hi, hi, hi… Dici che ci saranno molte macchine? … Comunque già ho notato che ci sai fare sulla strada… Vedi, io non è che sia proprio un automobilista provetto però me la cavo! … Lavori da molto qui?"

Silenzio. Io mantenevo gli occhi alla strada.

"Dio…" mi dicevo "Ma che rompicoglioni del cazzo!"

Dopo quattordici secondi riattaccò:

"Occhio alla curva! Non l'avevi vista bene, eh? L'hai presa un po' larga… Senti, non faresti prima se evitassi piazza Dante? No, perché se no ci intasiamo! … Mica per altro sai! … Ecco, se prendi la superstrada da lì ci arriviamo in un attimo!"

Silenzio. Otto secondi:

"Ahh!!! Grandissimo!!! Hai svoltato di qua! Bè, io questo vicolo effettivamente non lo conoscevo proprio… Pensa che sono vent'anni che abito qui e ancora non conosco tutte le strade! Non ti pare buffo?"

"Buffo…Sì…"

Tre secondi.

"Ora non dovrebbe mancare molto… Bravo, adesso se prendi lo svincolo… Hey!!! Ma io mica la conoscevo questa strada, sei ganzo come autista!!!"

Per tutto il viaggio continuò a blaterare, toccando gli argomenti più disparati: dal calcio alla musica, dalla situazione politica nei Balcani ai metodi di sua nonna per cucinare la frittura. Io ero allo stremo. A un certo punto lo sentii armeggiare dietro il mio schienale, e mi preoccupai perché avevo un piccolo ripostiglio imbacuccato lì dentro, un posto segreto dove tenevo qualche pastiglia d'emergenza. Lo studiai immediatamente dal retrovisore ma mi accorsi che si stava solo riallacciando le scarpe, o almeno tentava, visto che aveva in mano le stringhe.

"Ah, eccoci qua! … Vedi quel piazzale laggiù? Ecco bravo, accosta pure lì…Quello lì sul marciapiede è Tito! … Oh, Titoo!! E' quello il mio amico ... Quant'è?"

Indicai muto con l'indice il tassametro.

"Oh, Cristo! … Settantottomila? … Siete un po' cari però! … To'! Beccatene ottanta e a presto!"

Silenzio. Eterno.

"Te le infilo su per il culo le tue ottantamila, rottoinculo!" mi venne, ma non glielo urlai. E fu lì che accadde. In quel piazzale, qualche minuto dopo, iniziò il mio delirio. Lì, in quella schifosa periferia di merda, in quel luogo dimenticato da Dio e da tutti i cristiani del mondo. Ero solo, abbandonato a me stesso, chiuso in una zona periferica nella quale l'unico segno della civiltà era la visione di qualche palazzo delle case popolari a un trecento metri circa davanti a me. Nessuna forma di vita umana comunque, a parte qualche straccio steso ad asciugare sui balconi. Segno evidente che lì, qualcuno, doveva pur sempre abitarci. Posto di merda. Dal piazzale si vedeva un fazzoletto di case, il paesino. Schifoso. Erano le undici e un quarto e il sole di luglio batteva sulla mia testa come il batterista dei Metallica sulle pelli. Ero fuori dall'auto da un cinque minuti buoni per via delle valige del cagone che avevo scarrozzato fin lì. Sudavo già come un cane. Mi guardai in giro. Troppo caldo, troppo… E fu in quel preciso istante che mi venne l'idea: acidi. Qui. Subito. Pensai che forse una scarica leggera di adrenalina mi avrebbe ridato la voglia di rimettermi in marcia per affrontare i milanesi. Pensai male.

Mi ero impasticcato altre volte di mattina, era sempre andata a meraviglia ma quella volta fu l'inferno. L'inferno. Tutto ebbe probabilmente inizio dallo scambio dell'LSD coi Supermario, d'accordo lo ammetto, ma quello che accadde dopo andò fuori da ogni fottuta logica. Mi ingollai una manata di pasticche, alcune di quelle rosse che tenevo di scorta nel fodero del sedile, non appena il sacco di merda e il suo amichetto scomparvero dalla mia visuale. Credo che mi sbagliai e che mi scaricai in gola un quattro o cinque francobolli di LSD, non ricordo bene, perché le tenevo tutte mischiate nel sacchetto della Standa. Probabilmente ne avrò prese di tutti e due i tipi, non so. Comunque ne avevo un disperato bisogno per dimenticarlo in fretta, lui e tutti quelli come lui. Andassero affanculo. Il caldo micidiale di quella mattina contribuì, e di molto, alla mia voglia di droga. Scartai quindi di botto un sacchettino di carta con avvolti gli acidi (o l'LSD, o sa il cazzo cosa) e me li poggiai sulla lingua. Ricordo che li sentii sciogliersi lentamente, una lancinante goduria immensa. Era come mandar giù una bella manata di M&M'S!

'Fanculo anche Abracadabra!

E poi cominciò il delirio. La botta degli acidi arrivò circa cinquanta secondi dopo. Ero in piedi, appoggiato alla portiera del taxi. Subito una scarica accecante di adrenalina mi si arrampicò velocissima sulla schiena come un esercito di formiche rosse impazzite facendomi incuneare come un arco, poi di botto non sentii più le gambe e crollai in ginocchio. Mi tappai le orecchie, allora, perché avevo come l'impressione che mi stessero prendendo fuoco. Non sentii più nulla per qualche secondo. Poi mi arrivò un ronzio da lontanissimo. Tentava di penetrarmi nel cervello. Un ronzio che si avvicinava sempre di più: dapprima lo avvertii debole, distante, poi via via più forte fino alla deflagrazione finale. Lì impazzii quasi dal dolore. Non sentivo più niente eccetto quel cazzo di ronzio: era come se una mosca gigante mi stesse volteggiando sull'anima: ZZZZZZZZZZZZZ "Ho chiuso, qui ho veramente chiuso" pensai. "Questa fottuta mosca mi sbranerà!" Era il panico totale, capite? Mi giravo continuamente come un animale impazzito da tutte le parti ma non riuscivo a localizzare il dannato insetto, mi si contorceva la pancia dagli spasmi, tentavo di rotolarmi per terra tappandomi bene le orecchie ma non serviva. E invece, proprio quando fui sul punto di strapparmi le orecchie dalla testa per il dolore, all'improvviso la mosca scomparve e così come era arrivato anche il dolore svanì. La pace durò qualche attimo ah, ma fu vera pace: troppo bella per essere vera. Troppo rapida. Ben presto la nausea si impossessò di me. Restai steso a terra ancora un paio di minuti, poi cominciai ad avvertire un forte prurito alle gambe: me le tastai alla svelta e per fortuna i polpastrelli riconobbero immediatamente la carne. Ora mi sentivo di nuovo le gambe. Dio, ti ringrazio. Mi rialzai in piedi e parve andare meglio, anche se quasi da subito cominciò a girarmi tutto. La testa era sul punto di esplodermi in mille schegge. E lì qualcosa mi apparve quantomeno strano e bizzarro: i palazzi attorno a me, quei fottuti palazzi che qualche istante prima mi sembravano così lontani, ora iniziavano ad avanzare verso di me. Facevano un enorme casino, tremendo come una scarica di lampi e tuoni sulle mie tempie. TUBTAMBTRANGTRUMBT. Adesso sono ancora parecchio confuso per ricordarmi bene, però mi pareva… Ecco… Che si stessero moltiplicando a vista d'occhio. Finché d'improvviso non li vidi fermarsi. Attaccarono a scoparsi tra di loro digrignandomi i denti. Me ne stavo impalato a terra dallo spavento. Sì, sì! - pensavo - stanno a scopare! Scopare come i conigli, proprio come quei figli di puttana, in maniera selvaggia e velocissima. Un intreccio di mattoni e cemento e ferro e lamiere tutti ingarbugliati stava assumendo sotto i miei occhi mostruose forme simili a quelle umane. Potevo chiaramente distinguere una serie di cazzi enormi in cemento armato sfondare fiche gigantesche in mattoni. Cominciai a gridare non appena mi accorsi che uno di questi palazzi stava puntando il suo grosso uccello su di me lasciando partire una spruzzata di calce proprio sulla mia faccia. Caddi nuovamente col culo a terra allora, coprendomi con le mani, e quando guardai di nuovo. Le finestre mi parvero diventare come occhi di colore blu intente a fissarmi, da ognuna di esse lacrimava una sorta di schiuma olivastra che prese a rincorrermi, a venirmi addosso. Tornai sulle gambe e tentai di scappare (intanto mi voltai verso Peyton che era sollevato sulle ruote posteriori, rideva selvaggiamente e si tirava una sega strofinando con i cerchioni anteriori i semiassi), ma mi accorsi ben presto che un disgustoso serpente di oltre dieci metri di lunghezza, e con un diametro di almeno tre metri, mi stava stritolando le gambe. Un fottuto serpente verde che indossava una camicia hawaiana. Accostò il suo enorme muso squamoso ai miei occhi e mi leccò due volte con la lingua, poi eruttò fuori un suono simile al catrame e mi disse con una voce nera:

"Devi prendere la svolta a destra, ah, ah, ah!!"

Strizzai gli occhi preso dal panico e quando li riaprii il serpente era scomparso. Mi guardai attorno: non c'era più traccia di nessun palazzo dentato, di nessuna 127 con attacchi masturbatori.

Intorno a me c'era solo sabbia, sabbia, sabbia. Iniziai allora ad avere un gran caldo, per la paura suppongo, un caldo come mai avevo provato in tutta la mia vita. Cominciai a sudare come un maiale. Improvvisamente mi venne una gran voglia di cagare. I continui attacchi di nausea e il giramento costante di testa non facilitarono però l'impresa di calarsi le braghe. I conati di vomito divennero una vera e propria tempesta nel mio stomaco. Cacciai un urlo strozzato e nel tentativo di accucciarmi avvertii un dolore atroce proprio su per il buco del culo, proprio come se qualcuno mi ci stesse infilando un ramo di ulivo con tutte le foglie e le olive cercando di farmelo uscire dalla bocca. Voltai la testa e sobbalzai: vidi un ragno giallo, grosso come un'anguria, salirmi su per il culo. Anche il ragno indossava una camicia hawaiana: si faceva largo tra le chiappe mordicchiandomi a sangue e strappandomi i peli, e a un certo punto captai qualcosa che proveniva da lui, dalle sue chele:

"La svolta a destra! La svolta a destra! Ah, ah, ah…"

Mi parve di sentirlo ridere. Ma non mi occupai affatto del ragno in quell'istante. Naah… Ricordo che lì per lì pensai terrorizzato:

"Come cazzo faccio a vedermi il buco del culo! Come cazzo facciooo!!! Io riesco a vederlo! Riesco a vederlooo!!!"

Così caddi ancora a terra, e per qualche secondo probabilmente svenni perché non ricordo nulla. Mi svegliai di nuovo però, e tra atroci dolori ovunque la prima cosa di cui mi accorsi era che stavo marcendo coi vestiti addosso nel bagnato. Ero steso lungo per terra ed ero incredibilmente bagnato. Poi arrivò la puzza e tutto fu molto chiaro: non solo avevo i pantaloni completamente fradici di diarrea, ma avevo anche la maglietta verde dal vomito e uno schifo di sapore acidissimo in gola. Dovunque mi toccassi ero lercio: sono quasi certo di essermi continuato a cagare addosso anche nell'incoscienza perché non riesco proprio a ricordare da dove fosse uscito tutto quel liquido giallastro e marroncino. Non avevo sentito la sensazione della cacata. Non ne ricordo il momento. Comunque mi tirai su in qualche modo ed ebbi allora la netta conferma di quello che mi era successo. Mi ero contemporaneamente cagato, pisciato e vomitato addosso. Puzzavo in maniera indescrivibile. La testa letteralmente mi scoppiava dal dolore. Mi voltai da tutte le parti e per prima cosa mi accorsi del buio attorno e, considerato che ero arrivato lì all'incirca verso le undici di mattina, e che inoltre eravamo in piena estate, in quel momento tentai di indovinarmi che diavolo di ora potesse mai essere, e mi dissi: "Perlomeno le dieci". Controllai l'orologio: era l'una e un quarto di notte. Lì, alla fine, vinto dagli eventi, piansi.

In pratica, come è facile indovinare, avevo dormito come un nababbo tutto quel tempo. Non sapevo che fare, ero disperato. Pensavo ad Abracadabra. Mi avrebbe ammazzato, cazzo. Dovevo riorganizzare in fretta i miei pensieri, decidere qualcosa. Non potevo certo starmene lì tutta la notte. Bisognava andare alla stazione, parlare con Sandro (sì meglio lui…), spiegargli che mi ero sentito male eccetera, poi andare in ospedale per farmi dare una controllatina. Non me ne fregava un accidente di quello che avrebbero detto i medici. Per quanto mi riguardava avrebbero potuto anche sbattermi in galera o in una comunità di recupero del cazzo. Mi ero spaventato a morte e quella cosa, quelle cose che avevo visto non sarebbero mai più dovute ritornare, mai più!, anche a costo della disintossicazione totale…

"Andare in un centro recuperi a finire la mia vita come un ex tossico e via, vedrai che andrà tutto per il meglio", continuavo a dirmi.

Ma non andò così. Non quella volta. Anzi, la parte più caotica della storia, quella che non sono mai riuscito a spiegarmi bene e che ancora mi fa sorgere dei dubbi su quanto sia effettivamente successo quel giorno, è questa che sto per raccontarvi. E si tratta di un fatto curioso. Mi stavo appena riprendendo dallo shock, ero sconvolto, mi faceva male dappertutto però sentivo che sarei stato in grado di tornare da solo alla stazione. Per prima cosa constatai che era assolutamente necessario togliersi di dosso quegli stracci inzuppati di merda e darsi una ripulita. Divenni razionale dalla paura. Nel bagagliaio, oltre alle solite stronzate, mi ricordai che in una borsa tenevo anche qualche ricambio completo nel caso avessi dovuto fare delle fermate extra. Quella, per come la vedevo io, era una fermata extra. C'erano magliette pulite, un paio di jeans, slip e calzini; anche un giubbotto per l'inverno e qualche camicia di flanella ma non ne sentii il bisogno. E la fortuna, per la prima volta nella giornata, mi sorrise facendomi scorgere a qualche metro dai palazzi attorno (tra l'altro sempre deserti) una fontana pubblica. Ci arrivai barcollando come un ubriacone con il cambio sottobraccio e mi spogliai nudo tenendo sotto controllo il caseggiato erotomane; m'infilai letteralmente sotto l'acqua, mi ci tuffai proprio! Mi lavai tutto quanto e mi tolsi i pezzettini di vomito dal collo, dalla faccia e dal petto per bene, mi lavai la diarrea dalla schiena e dalle gambe, poi mi rivestii con i panni nuovi senza asciugarmi. Gli abiti lerci li lasciai a marcire per l'eternità in quel posto. Ero un'altra persona adesso. Certo la testa faceva ancora male, però a confronto con la mattina era uno scherzo! Sarebbero bastate venti gocce di Novalgina. Mi diressi allora verso Peyton, aprii il cofano per scaraventarci dentro la borsa, quindi richiusi.

Mi venne un colpo! Cascai a terra seduto un'altra maledetta volta. Mi resi conto solo allora di quanto avevo visto: c'era semplicemente qualcuno in macchina. Proprio lì, seduto sul sedile posteriore. Lo vidi attraverso il lunotto non appena riabbassai la portiera del portabagagli.

"Non è possibile!" dissi a voce alta.

"Io non ho visto nessuno, non l'ho visto mentre tornavo dalla fontana! Ci risiamo. Un'altra allucinazione."

Mi risollevai a guardare e quello stava sempre lì al suo posto, addirittura sembrava non accorgersi neppure della mia presenza. Non faceva che piccoli movimenti con la testa, secchi e in rapida successione, girando il collo come per sgranchirselo. Non mi sembrava fosse sveglio. Strizzai gli occhi allora, convinto che fossero i postumi di quello che mi era successo prima. Però quello se ne rimaneva impassibile, lo sguardo fisso avanti e immobile a parte la testa.

Ne ebbi così la certezza: era reale. Reale. C'era veramente un tizio appollaiato nel mio taxi alle due di notte in quel posto. Lì ebbi paura. Più per spavento che per altro gli piombai in un secondo sulla destra, bussando al finestrino.

"Hey!" Non si voltò. Allora preso dal panico spalancai la portiera posteriore e gli urlai con quanto fiato avevo in gola:

"E tu!!?? Tu chi cazzo saresti!!??" Stava dormendo. Adesso era sveglio:

"Esci im-me-dia-ta-men-te dal mio taxi!! Esci da questo cazzo di taxi!! Esci da questa macchina del cazzooo!!!!" Quello stava fermo. Che avrei potuto fare? Lo agguantai per un braccio senza nemmeno guardarlo in faccia, senza nemmeno capire se fosse giovane o vecchio, uomo o donna, e lo trascinai sulla strada. Gli sferrai un calcio in piena pancia e quello si chiuse come una fisarmonica senza emettere suono - oramai io ero chino su di lui in preda al delirio - e continuai a rombargli i miei insulti dritti sul grugno tenendolo per il bavero:

"Testa di cazzooo!!! Se ti dico che devi scendere tu scendi!! Hai capitoo??? Bastardo rottoinculo!!!"

Solo a quel punto mi accorsi che era un barbone. Un fottutissimo barbone del cazzo che aveva forse scambiato il mio taxi per una bella macchina abbandonata di modo che potesse trascorrerci calmo la sua notte. Mi accorsi che era vecchio, probabilmente intorno ai settanta, non so di preciso; portava una serie di stracci attorno al collo e sulla testa: stracci scuri, forse marroni. Era buio e non era facile distinguere i colori. Aveva poi una giacchetta troppo stretta per la sua taglia, unta e strappata in diversi punti, poi una sorta di mantello anch'esso lercio e poi ancora calzoni a righe di quella che aveva tutta l'aria d'essere stata, in gioventù, stoffa di buon valore. Indossava anche degli stivaloni di cuoio quasi nuovi - rubati, pensai - e un paio di guanti neri senza le dita. Notai ancora che la faccia era gonfia e sporca, e graffiata per di più: quello non doveva essere stato il primo pestaggio che aveva subito in vita sua.

Aveva delle sopracciglia immense che gli ricoprivano quasi tutto il viso e non riuscii a vedergli bene gli occhi. Insomma era un vero, autentico, originale barbone doc. Un barbone coi controcazzi, con tutte le sue cose da barbone a posto, perfino il sacchetto pieno di roba che adesso era rovesciato accanto a lui. Un povero, superfluo rifiuto umano abbandonato a se stesso. Avrei dovuto provare pietà? Non provai pietà. Forse perché volevo punire lui per tutte le disgrazie che avevo ottenuto quel giorno, forse perché lui era il più debole lì, e il più tranquillo delle creature che avevano popolato la mia giornata, non so: fatto sta che gli sganciai una raffica di pugni in bocca fino a sporcarmi di nuovo la maglietta e solo allora smisi. Mi sollevai esausto da lui e mi controllai. Sangue. Poi lo guardai a terra mentre si contorceva e tossiva e lo colpii ancora con un calcio della suola alla base del collo, schiacciandolo come uno scarafaggio, e quello fece "aghhhrghhh…." e svenne. Mi considerai quasi soddisfatto, a posto col mondo. Avevo avuto la mia razione di merda e avevo dato la mia razione di merda. Comunque dopo un po' che quello non si rialzava pensai di aver combinato una bella cazzata. Era in una pozza di sangue. Mi misi in testa di averlo ammazzato e mi tornò repentino un attacco di panico. Risalii in macchina, accesi e partii sgommando, facendo un casino della madonna e coprendo il cadavere di polvere.

E quello che successe dopo fu solo delirio delirio delirio.

Pensavo sempre ad Abracadabra mentre scappavo via: a cosa mi avrebbe detto, a cosa gli avrei raccontato. Sarebbe stato comprensivo con me? Ero solo un ragazzo in fondo, un lattante; massì… mi avrebbe dato due sberle magari e poi stop.

Ero partito da quel posto da pochi minuti grondante di sudore: "Devo tornare, devo tornare a casa, tornare a casa… Oh, Dio! Fammi rivedere la luce cazzo!"

Gemetti come un poppante per un po', tirando Peyton Westlake attraverso vicoli bui di cui non ricordavo nemmeno l'esistenza - proprio per niente - finché non mi ritrovai a guidare in un lungo viale alberato assolutamente deserto e buio:

"Come cazzo avrò mai fatto ad arrivare fino a qua?" Provai allora lentamente a sterzare per fare marcia indietro e ci riuscii, anche se a momenti cozzai. Allora ripartii nelle direzione opposta, bestemmiando. Feci ancora qualche metro e di colpo andarono in nero le luci. Lì fu ancora il panico. Si spense pure il quadro. Panico tremendo. Frenai bianco come un cencio dalla paura, spensi il motore e velocemente rigirai la chiave. Ancora panico, poi il motore sbuffò e tossicchiò per un paio di secondi, i fari tornarono e guardai davanti a me. Mi ci vollero alcuni secondi - secondi che mi durarono ore - per accorgermi di quello che era successo. Non riuscivo a fiatare, gli occhi fuori dalle orbite si rovesciarono intorno al paesaggio. Il cuore pompava a mille, l'adrenalina scorreva a fiumi sulla mia schiena, le tempie impazzivano. Come d'incanto mi pisciai di nuovo nelle mutande. Era assolutamente impossibile che mi ritrovassi lì, ora. Rividi i palazzi con i panni stesi a cento metri dal piazzale, poi il marciapiede dove la mattina avevo mollato il cagacazzo, poi ancora la fontana dall'altra parte della strada e infine notai addirittura il mucchietto dei miei abiti lerci di merda & piscio & vomito; vidi anche dei topi che ci banchettavano sopra. Poi mi venne un flash. Mi voltai di scatto verso il barbone che avevo pestato. Scomparso! "Non è morto" pensai in un attacco di nervi.

Mollai lì il taxi e non so perché attaccai a correre portato letteralmente in grembo dallo spavento. Corsi corsi corsi come un pazzo fino a oltre il piazzale, continuai fino a svoltare in una strada stretta, marginata da lampioni spenti e mi scoprii di nuovo al buio. Zero luna. Scartai di lato col cuore gonfio di terrore e mi ritrovai a pestare i piedi sull'erba. Ero certo che ce l'avrei fatta a raggiungere una zona popolata da esseri umani se avessi corso ancora. Notai, dopo non so quanto che correvo abbracciando il buio, a qualche centinaia di metri una debolissima luce, proprio al fondo del mio orizzonte: mi ci diressi volando, senza pensare a niente. La luce diventava man mano che mi avvicinavo sempre più forte finché mi illuminò stupito nel vedere che dava da un vicoletto costeggiato da piante strane, roba alta e mai vista prima, alla mia sinistra; mi ci infilai alla svelta e mi rotolai fino al punto di partenza. Canticchiai. Sentii il delirio avanzare dentro il mio stomaco e dentro la mia testa. Provai un senso imbarazzante di vergogna. Allora cambiai direzione e misi gambe in spalla verso est volando fino a che il cuore e i polmoni non mi ordinarono di fermarmi. Ancora al buio. Abbassai la testa e appoggiai i palmi delle mani alle ginocchia per riprendere fiato. Quando mi tirai su riempivo con lo sguardo di nuovo il piazzale. Così scoppiai a ridere:

"Ecco, ci siamo. Ora anche la crisi isterica!" Ridevo e ridevo e ridevo finché all'improvviso mi sentii battere sulle spalle e mi voltai ancora di scatto:

"Tu ci vai a messa ragazzo?" mi chiese il barbone.

Lì svenni.

Mi viene da vomitare ancora oggi se ci ripenso. Delle cose così strambe che a raccontarle non ci crederebbe nessuno. Ma è così… e rinvenni tra le sue braccia non so quanto dopo, steso sul sedile posteriore del mio taxi con la testa imprigionata in una ragnatela di cortocircuiti e selvaggiamente inserita tra i rullanti di un Keith Moon impazzito nella più possente jam session di batteristi rock della storia. Le palpebre come serrande mi pesavano da matti ogni volta che le aprivo e le richiudevo. Ero ridotto un cencio. Oltre al mal di testa e alla stanchezza ora ci si mettevano anche la fame e la sete: dopotutto era un bel po' che non graziavo il mio stomaco con qualcosa di gustoso, sano e nutriente. Eccetto le droghe. Non possedevo la benché minima forza fisica e\o morale per opporre una qualche resistenza alle grinfie puzzolenti & nefaste &, ne ero certo, mefistofeliche di quel redivivo barbone schifoso che adesso mi stava accarezzando. Mi ucciderà, pensavo, mi ucciderà di sicuro. Ero terrorizzato a morte. Ero perfettamente conscio del fatto che presto o tardi mi avrebbe sbranato. Dovevo avergli fatto un male della madonna e, anche se in quel momento mi stava tranquillamente strofinando uno straccetto bagnato sulla fronte - così da farmi credere di avermi fatto rinvenire per il mio bene, di essersi preso cura di me durante lo svenimento per fare il buon samaritano o che ne so io - ero pronto a scommettere che da lì a un po' sarebbe suonata la mia ora. Goodbye. Lo guardavo in faccia e capii che mi aveva svegliato soltanto perché potessi soffrire come un cane quando lui mi avrebbe assassinato e schiacciato come un verme bastardo.

"Mi ucciderà, cazzo! Che posso fare adesso, cazzo? Che posso dirci a questo… Oh Dio, io mi sto cagando sotto… Ho le mani, le mani del cazzo che mi ronzano tutte… E non sento la schiena… E le gambe… Merda, sono un relitto… Sono un relitto! Dio aiutami!!"

E tutto questo lo pensai alla svelta perché la parte ancora raziocinante del mio cervello mi stava elaborando un intreccio acido di trame per tentare di cavarmi fuori da questo barbone rognoso che ora puntava i suoi piccoli occhi, occhi sottili come ferite, direttamente dentro la mia anima, sondandomela quasi. Allora parlò:

"Come stai ragazzo?" La sua voce era profonda e buona, un misto di compassione e severità.

"Non credo di sentirmi troppo bene: mi gira tutto e non…"

Le parole mi uscirono a stento e quello mi rimandò così:

"Sta buono…Non muoverti… Hai preso un bello spavento eh? Non sforzarti troppo…"

"Ma che mi sta prendendo per il culo?" mi disse la zona organizzata del cervello. Poi però pensai che forse non mi aveva riconosciuto: in fondo non gli avevo lasciato molto spazio prima, tutto si era ridotto all'ordine di qualche secondo. Ma come avrà fatto a rialzarsi? Eppure l'avevo colpito bene, aveva rantolato qualcosa quando l'ho steso col calcio, e nessuno in quelle condizioni si sarebbe potuto rialzare in così breve tempo. O forse ero io che avevo perso la nozione del tempo e delle cose, forse era passato un bel po' da quando l'avevo menato; non era la prima volta, quella sera, che mi capitava di perdere la bussola. Purtroppo non potevo controllare l'orologio perché facevo una fatica tremenda ad alzare il braccio così decisi di tentare la fortuna e chiedere l'ora al barbone:

"E' molto tardi" mi rispose "Molto tardi… Di preciso non te lo so dire perché l'orologio mi si è rotto quando mi hai sbattuto fuori dal taxi, però all'incirca dovrebbero essere… ecco… diciamo che dovrebbero essere le tre e mezza, quattro meno un quarto, sì… Albeggerà tra poco ragazzo, non dovrebbe mancare molto."

Mi aveva riconosciuto. Ero andato. Mi avrebbe sterminato all'alba dunque, ne ero certo. Lo guardavo spaventato. Speravo di fargli pena.

"Non devi preoccuparti di nulla" mi disse allora "Sta calmo… Non voglio mica farti del male. Scommetto che ti starai chiedendo se ti ho riconosciuto…" Non fiatai.

"…Ma certo che ti ho riconosciuto ragazzo: sei stato tu a pestarmi poco fa. Ma vedi ragazzo, io non porto rancore per nessuno… Non sei certo tu il primo che mi picchia in una notte calda come questa. Pensa un po' che prima di arrivare qua, proprio prima che vedessi il tuo taxi parcheggiato qui, sono stato picchiato da una coppia di ragazzi solo perché avevo chiesto l'elemosina…Qui vicino. Ma ti rendi conto? Dicevano che li avevo disturbati mentre stavano facendo l'amore. Ma io non avevo questa intenzione, te l'assicuro! Io volevo solo qualche spicciolo… Dove andrà mai a finire il mondo se anche i fidanzati che se ne vanno sottobraccio a parlare d'amore sotto la luna si mettono a massacrare i poveracci come me…Vedi questa cicatrice che ho sul braccio, ragazzo?"

Era uno squarcio, non una cicatrice.

"Bene, me l'ha fatta un giovane, un giovane proprio della tua età, qualche settimana fa: io mi ero avvicinato solo per chiedergli qualche monetina, e anche per fare due chiacchiere con un poveraccio come me, d'accordo, ma non avrei mai immaginato che se la prendesse per così poco! Ha reagito addirittura peggio di te, pensa… Bene, ragazzo, tu non ci crederai ma quello se l'è presa proprio a male e mi ha picchiato forte, poi ha tirato fuori dal taschino del suo impermeabile malandato un bel rasoio e mi ha sfregiato il braccio. Ora ho questo ricordino… bah!"

E io lì morto dalla paura, che gli potevo dire?

"Il mondo…Il mondo è cattivo, signore…" cercai di parlargli con una voce che non desse segno del mio sgomento nel sentire quelle parole, ma mi uscì solo un rantolo e il barbone dovette abbassare la sua grossa faccia puzzolente su di me per sentire quello che stavo dicendo, allora continuò lui:

"Forse hai ragione ragazzo. O forse non è il mondo in sé ad essere cattivo, ma quello che lo abbiamo fatto diventare noi…Capisci? Tu stai parlando del mondo come di un'entità astratta, senza capo né coda, senza anima. Ma il mondo è fatto dalle persone, è fatto da uomini e da donne. Perché dici che è cattivo? Sono gli uomini ad essere cattivi, non è vero? Come lo abbiamo cambiato noi, il mondo... Vedi ragazzo: io penso che siamo noi, solo noi esseri umani che abbiamo il potere di far sì che la gente si ami e si rispetti l'un l'altra…tu credi in Dio? Bene, io sì, e ti posso assicurare che lui sa quello che facciamo noi! Ci odiamo, ci maltrattiamo, ci guardiamo con sospetto e se qualcuno osa toccare le nostre cose lo uccidiamo, capisci?"… "Che belle stronzate!" Pensai. Mi stava prendendo per il culo. Mi avrebbe ucciso più tardi, dopo il pistolotto sul bene e sul male. E intanto la parte funzionante della mia testa, quella che non era occupata a sorbirsi le cagate del vecchio, mi stava urlando di mollargli un cazzotto alle tempie, proprio adesso che ero sdraiato con la testa sulle sue gambe, in modo da stordirlo per bene e poi scappare. Ma se la testa parlava bene le braccia e tutto il resto del mio corpo ruzzolavano male, e non rispondevano più ai comandi: ero pietrificato, non riuscivo a muovere un'unghia e non appena sentii, concentrandomi mentre quello parlava, che potevo farcela, tentai di sollevare rapidamente il braccio sinistro per colpirlo, ma tutto si risolse in un aborto. Il braccio mi si alzò di qualche centimetro e dovetti strizzare gli occhi dal dolore e riabbassarlo. Quello evidentemente se ne accorse perché mi disse:

"Ecco, vedi cosa intendo? Io cerco di aiutarvi e voi volete picchiarmi; è sempre la stessa storia… Perché adesso hai cercato di farmi del male ragazzo?"

Mi avrebbe squartato e fatto mangiare dai vermi.

"Io non…volevo farti del male signore. Mi dispiace… ma ho paura di te, signore". Signore. Come avrei dovuto chiamarlo? E poi era tutto vero, non gli stavo mica mentendo. Avevo paura sul serio.

"Di me?" biascicò "Oh, povero caro…non devi avere nessun timore di me: non ho la minima intenzione di toccarti! Guarda come sei ridotto: senti male dappertutto, non è vero? Hai la testa che ti scoppia e non riesci a muoverti, come potrei io farti del male?"

Ma mica mi fidavo, io… "Non ti fidi di me?" mi disse, e mi stupì ancora il fatto che riuscisse ad immaginare quel che pensavo: molto strano, pensai, e gli parlai così:

"E' per la storia di prima, signore… Sai, del taxi intendo… Io non volevo picchiarti ma mi sono spaventato a morte… Mi sono successe tante cose oggi, sono stato male…" Parole sante!

"Lo so" rispose con un'espressione di serenità dipinta in volto "Ti ho visto mentre ti contorcevi e ti ho seguito quando sei scappato e quando poi sei tornato qui, ho visto quando sei svenuto a terra e sono andato a prendere qualcosa per darti una mano ma quando sono tornato tu ti stavi lavando a quella fontana, così ho deciso di aspettarti in macchina e lì, bene, credo di essermi appisolato perché non ricordo niente fino alle tue urla e ai tuoi colpi… E' così."

Disse tutto in fretta e io non capii quasi niente: come sarebbe a dire che mi aveva visto? Bastardo! Perché allora non mi aveva aiutato subito? E che cazzo avevo combinato io? Perché l'avevo massacrato? Come aveva fatto a rialzarsi? Ma che mi metto pure a pestare la gente che cerca di aiutarmi, adesso?

"Mi spiace, veramente! Io non so che dire… Mi spiace di averti picchiato signore…"

"Ora basta però, ti ho già detto che non devi preoccuparti. Sono qui per aiutarti adesso: hai avuto un brutto shock e devi essere molto stanco. Riposati ancora un poco mentre io preparo qualcosa per farti star meglio: ce l'ho nel sacchetto vedi?" Lo prese in mano e cominciò a rovistarci dentro. "Ti ho preparato qualcosa che ti farà star meglio, vedrai…" A quelle parole mi allarmai un poco: pensavo volesse rifilarmi qualche veleno o roba simile. Anche questa volta il barbone mi anticipò:

"Tranquillo, nessun veleno. Vedi questa boccetta? E' una mia speciale cosuccia per i casi di intossicazione da sostanze stupefacenti come il tuo. Ho imparato a conoscere i tossicodipendenti, sai, frequentandoli e girando per le strade e mi sono informato un poco sull'argomento: un medico che mi conosce bene (dopo ricordami di darti l'indirizzo: ti piacerà, è molto discreto) mi ha dato questa roba nel caso avessi scovato, nelle mie passeggiate notturne, qualche povero ragazzo in condizioni disperate. Ecco, bevine un sorso e poi riposati un po'."

"Gesù - mi venne - abbiamo un barbone crocerossina!"

La storia comunque faceva acqua da tutte le parti e non mi fidavo niente di quello che stava blaterando, e allora lui, immaginando suppongo ciò che mi passava per la mente, tirò via il tappo di quella bottiglietta e tracannò un sorso:

"Visto? Te l'ho già detto e te lo ripeto: non devi temere alcunché da me. Ora bevi e sta tranquillo!" Allora mi portò la bottiglietta alle labbra e fece colare qualche goccia sulla mia lingua. Lasciai per qualche secondo che il liquido mi galleggiasse nel palato, poi buttai giù.

Non diceva stronzate, infatti cominciai a star meglio dopo aver ingurgitato l'intruglio: più tranquillo e in pace col mondo insomma, tanto che non so come mi addormentai tra le sue braccia. Potevo sentire, in quell'attimo prima che chiudessi gli occhi, il suo respiro irregolare e affannoso, e anche un odore assai poco rassicurante di vino. Me ne fregai altamente. Quello era il mio salvatore - lo era adesso - e pure se quel liquido fosse stato nitroglicerina purissima l'avrei ingollato lo stesso perché ciò che mi dava era assolutamente impagabile: mi dava la pace.

Mi risvegliai più tardi, da solo; il dolore era quasi completamente sparito così come il mal di testa: mi doleva ancora un po' il culo, e le braccia a tratti parevano non voler star su da sole, ma tutto sommato potevo ben dire di essermela cavata. Mi sembrava incredibile. Mi rialzai a sedere sul sedile posteriore di Peyton Westlake: c'era l'alba fuori dai finestrini dell'auto. Il sole non era ancora su tutto e un buon rosso infuocava il piazzale. Una bella cosa da vedere. Guardando così fuori mi venne in mente, non so perché, Early in the morning, un vecchio blues che avevo sentito fare da Eric Clapton. La canticchiai e mi bastò per sentirmi a posto, così scesi tutto sommato di buonumore dal taxi - ero vivo, no? - e trovai il barbone seduto sul cemento poco distante, intento a fissare anche lui il sole nascente. "Salve!" gli dissi "Visto? Sono un vero splendore! Grazie infinite."

Piroettai mostrandogli il miracolo.

"Mi devi dare la ricetta, eh!" Quello non sembrava molto entusiasta: mi pareva per un attimo che avesse perso lo smalto della notte precedente; voglio dire: se ne stava lì a guardarmi tutto accigliato senza dire niente, talmente severo e imperturbabile che mi cominciarono a venire strane idee per la testa, idee di assassinio, ma poi finalmente parlò:

"Tu ci vai a messa ragazzo?" Era la seconda volta che mi domandava una cosa simile, decisi di soprassedere al mio dubbio e gli risposi.

"Mai, perché?"

"Malissimo ragazzo! Tu sai che è dovere di ogni buon cristiano andarci! Non te l'hanno insegnato in famiglia?"

Ma che cazzo voleva? "Mio padre era ateo, signore, mia madre pure, di mia sorella non so e io non mi sono mai posto il problema…" Sparai a raffica perché volevo telare il più in fretta possibile da quel posto, tornare a casa, farmi una doccia e un caffè, dormire dormire dormire. Il barbone scosse la testa, i capelli lunghi che sbucavano da sotto gli stracci avvolti in testa ondularono. Anche con le prime luci del giorno il suo viso si vedeva poco, offuscato com'era dai peli della barba:

"Malissimo, malissimo. Eppure tu sembri un tipo a pos.."

"Hey!!" Ora basta con sto' tipo a posto! "Dico ma chi sei tu? Un prete? Bè, se lo sei sappi pure che non sopporto le prediche e i pistolotti, specie a quest'ora! Stammi bene a sentire adesso: io ti sono molto riconoscente, lo sai e se non te l'ho già detto te lo dico adesso, per quello che hai fatto e non so come sdebitarmi e tutte queste cose qua, però dacci un taglio, signore! Io devo tornare a casa perché sono un tantinello distrutto, e diciamo così allora: se vuoi un passaggio il mio taxi è il tuo, però vedi di non rompere!" Brusco & sincero, niente male; eppure quello non sembrava affatto impressionato dal mio discorsetto, tanto che riprese rapidamente in mano il suo sacchetto pieno di stracci e con quattro salti s'infilò nel taxi sedendosi avanti. Poi mi urlò: "Si va?"

"Che testa di minchia!" Pensai. Allargai le braccia sconsolato, entrai anch'io e misi in moto lasciandomi finalmente alle spalle quel posto e tutte le sue strane creature. Libero, e anche questa se n'è andata. Viaggiavo così contento facendo scorrere le gomme su strade che ora riconoscevo bene nel chiarore dell'alba da scordarmi per qualche istante del barbone: mi godevo l'angolo di Piazza Vittoria, i negozietti d'alimentari, le farmacie, i palazzi e tutti gli ammennicoli che mi tornavano familiari. Tutte le strade a quell'ora del mattino erano ancora deserte, e mi rattristava un poco sapere che di lì a qualche ora sarebbero state invase da un sacco di gente, ancora una volta: indigeni soprattutto, ma naturalmente anche turisti, e di quelli che bazzicano ogni angolo pur di divertirsi, rompendomi a sangue con le loro auto e i loro ingorghi. Perchè quello che non sopporto proprio dell'estate sono proprio loro, i turisti maledetti, specie quelli ricchi, che con le loro BMW fanno solo un gran fottuto casino ingombrando sempre, frenando bruscamente per chiedere informazioni a chicchessia, e non sapendo mai dove cazzo dirigersi. Ma le strade a quell'ora erano vuote, chiusi anche i bar e le edicole, così che non c'era anima viva in giro. Il barbone sedeva tranquillo accanto a me e non diceva una parola, ogni tanto lo guardavo e pareva sempre stranamente serio. Viaggiavamo da dieci minuti circa quando si decise a rivolgermi nuovamente la parola:

"So come ti chiami, ragazzo."

"Ah, sì? E come?"

Me lo disse. Ci rimasi male, cazzo, lo sapeva, ma subito dopo gli feci notare che il mio tesserino era ben in evidenza proprio davanti alla sua pancia, quindi…

"L'unica cosa che non mi ricordavo di te era se andavi a messa oppure no." "Cosa?" feci io.

Allora cominciò a blaterare sul serio, e parlò così a lungo e così violentemente che ripresero a venirmi gli attacchi di nausea e di vomito, tanto che dovetti fermarmi alla fine della parabola. Perché il barbone puzzone conosceva la mia vita. La conosceva tutta per intero e bene, anche meglio di me. Sembrava che quel fottuto mi avesse seguito come un'ombra sin dal primo giorno che sgattaiolai fuori dalla pancia di mia madre! Non c'era nessuna spiegazione plausibile a ciò che mi aveva detto. Nessuna. Il barbone cominciò a scandagliare la mia vita sin dal mio primo ricordo. Mi disse della mia infanzia, mi nominò sotto l'incredulità generale che mi avvolgeva uno ad uno tutti gli amichetti dell'asilo, mi portò alla mente persone che ormai avevo cancellato dalla memoria. Poi attaccò con le elementari e le medie, vomitò fuori persino i voti dei quadrimestri, le ragazzine che mi piacevano all'epoca, il giorno della mia prima sega persino. Coincideva tutto. Continuò col parlarmi dell'adolescenza, mi spiegò il perché avessi scelto quel particolare tipo di scuola e il perché avessi deciso di mollarla per mettermi a fare il tassista; mi raccontò della prima volta che avevo fatto l'amore con Deborah, la troiona della III C, quello che provai prima e dopo; mi disse poi della malattia di mia madre e della sua morte, indicandomi persino il numero delle nottate che avevo fatto all'ospedale vegliandola. Mi parlò di mio padre e dell'infarto che me lo tolse regalandomi la libertà, di mia sorella e di quello a cui ci piaceva giocare, fino a che non mi turbò la testa con la relazione dettagliata dei miei rapporti con lei: mi ricordò di quella volta che leccai la fica a lei e alla sua amica Stefy quando avevo tredici anni, dell'imbarazzo che provammo entrambi quando ci rimettemmo a posto eccetera, di come avevamo deciso che quello sarebbe rimasto per sempre il nostro segreto e tutte ste' belle stronzate alla Candy Candy.

Tutti argomenti che mi confondevano il cranio. Parlava dolcemente, facendo qualche pausa di tanto in tanto, e la sua voce non aveva l'impressione di volermi spaventare, o di volermi bacchettare: elencava semplicemente le cose che avevo fatto, pensato e voluto in tutta la mia vita, così… Era cauto, fermo nel descrivermi tutti i particolari, persino quelli che io mai avevo avuto il coraggio di raccontare a qualcuno, persino quelli che non avevo mai raccontato nemmeno a me stesso. Quando la piantò avevo le lacrime agli occhi.

Gesù… Dovetti accostare su un marciapiede. Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia: tenevo gli occhi sulle mie mani e le mani artigliate al volante.

"Io sono qui per aiutarti, ragazzo" mi disse dopo un po': "Non voglio farti del male, tu mi piaci. Ma devo dirti delle cose, cose che potranno sembrarti così assurde che se le raccontassi in giro penso che nessuno ti crederebbe; nessuno con un po' di buon senso intendo. Però devo rassicurarti: quello che ti dirò va al di là del buon senso e della ragione, di ogni possibile ragione. Prima ho detto che mi piacevi: ebbene, anche le persone che mi piacciono non devono, non possono, trascurare alcune cose. Prima di tutto, ascoltami attentamente, il fatto di doversi comportare sempre nel migliore dei modi nei miei confronti. Cosa che tu non hai fatto. Ma io non ti biasimo per questo, sai? In migliaia mi hanno trattato come mi hai trattato tu, in migliaia. E mi arrabbio sempre per questo! Come posso non accettare questo fatto d'altronde? Voi non sapevate chi ero, voi… Anzi, permettimi di parlare solo per te, visto che in questo momento rappresenti tu solo il mio auditorio, tu non potevi immaginare con chi stessi parlando prima, con chi stai parlando adesso. Nei milioni di anni che ho passato qui a gironzolare sul mio mondo, tra la mia gente, mi è sempre andata parecchio male per quanto riguarda i rapporti con voi. Ogni tanto entro in contatto con qualcuno, in questo caso tu, giusto per vedere come vanno le cose nel suo cuore, nella sua anima, mi capisci? Ed è sempre la stessa cosa: siete andati, marciti dentro voi stessi. E non ti credere che è questo vostro tempo che vi riduce così. Ne ho sentiti un sacco dire cose del genere! Oh, no! Risparmiati queste buffonate! Sembri un tipo intelligente, tu. Anche dietro, mille anni fa intendo, e duemila, e tremila anni fa! Persino Adamo ( e dire che lo avevo avvertito…). Sempre uguale… Identici gli uomini a se stessi ovunque. In ogni paese che ho visitato, in ogni terra che ho toccato… Sia che andassi a immergermi tra le profondità dei mari di sabbia dei deserti, sia che librassi la mia anima sulle altitudini celesti dei monti, sia che mi trovassi nel più sperduto dei villaggi tibetani, sia che passeggiassi nella quattordicesima strada di New York o che mi trovassi in Africa o a Bombay, a Roma o a Milano, a Londra o qui, proprio nella tua città, sempre è sempre stato uguale a ciò che sempre è stato e sempre sarà. Vedi ragazzo, io ho camminato tanto nella mia vita, mi sono spostato in molte direzioni contemporaneamente, e se questo potrà stupirti (ma non più di tanto, non è vero?)… Bah, che importa ormai! Non ho ragione forse? Non ti sei già stupito abbastanza oggi? Non hai visto cose che prima credevi irreali e che invece hai scoperto possono essere più reali di quello che credevi un tempo fosse la realtà, se solo lo vuoi? Hai scoperto o no che può essere reale solo ciò che sta nella tua testa, solo ciò che tu vuoi sia, profondamente, reale? Ma sto divagando, lo so: non è questo il punto, ancora. Il punto è che io sono qui per giudicarti. Sì, hai capito bene, io sono qui per giudicarti, sono il tuo giudice. Voglio essere franco con te da questo momento, basta giri di parole… Ho seguito i tuoi passi ad uno ad uno fin dal tuo primo giorno; ho cercato, a volte, di distoglierti dal fare cose di cui poi ti saresti pentito, e poi… e poi eccomi qua. Sono qua perché ho visto abbastanza della tua vita e ho deciso che è arrivato il momento di spegnerti. Mi spiace di essere così brusco e diretto con te, ma è così. Tu non puoi più continuare a vivere. E sai perfettamente il perché. Ma non hai il coraggio di confessartelo, non è vero? Vuoi che provi io allora, vuoi davvero che sia io a spiegarti i motivi che mi hanno portato da te? Perché, se non l'hai ancora capito, il nostro incontro non è stato affatto casuale. Ebbene: se lo desideri sarò io il tuo inquisitore. Per prima cosa ho da dirti che ti disprezzo, e profondamente; tra poco capirai il perché. In secondo luogo voglio che, comunque, tu sappia che non mentivo affatto quando ti dicevo che non ti avrei fatto del male, e anche questo lo capirai dopo. Andiamo con ordine adesso. Dunque. Tu non credi in Dio, non ci hai mai creduto vero? E non conduci mai la tua anima sulla retta via, e mai ti sei posto questo problema. Tu senti dentro di te lo spirito dei selvaggi, non è così? Ed è per questo che ti sei macchiato di una serie di delitti, per come la vedo io, nei confronti della vita e della morale che neanche il più terribile dei criminali ha mai fatto… e sei sempre rimasto impunito. Non solo: hai tratto vantaggi da questa tua indole. Hai un lavoro generato dalla felicità per la morte di tuo padre, lavoro che non meriti, hai una ragazza che continui a sfruttare come una merce per via del piacere che ti regala il suo corpo, hai atti di violenza alle spalle di cui mai e poi mai hai dovuto rendere conto a chicchessia. Bene. E' arrivato il momento di renderlo, quel conto. E lo devi rendere a me. Sei malvagio, questo è tutto. Però, e arriviamo così al secondo punto, forse in qualche modo hai salvato la tua anima dall'inferno che ti attende. Tu non te rendi conto e non te ne sei reso conto neanche quando hai compiuto il gesto che potrebbe averti salvato per sempre, e questo perché non sei così furbo come credi. Ascolta: quando eri preda del delirio, quando qualche ora fa stavi correndo disperatamente verso la tua salvezza e tornavi in continuazione sul luogo della tua crisi - ricordi? - per una frazione di secondo hai provato vergogna di te. E' stato un attimo, un attimo che hai subito sotterrato nei cunicoli del tuo cuore; ma io so cercare anche attraverso le più anguste fessure del mondo sai? E lì ho trovato la tua speranza. Lì ho compreso come non ancora fosse arrivata la tua ora. Quel secondo ti ha salvato. La vergogna di te stesso, la vergogna che hai provato in una briciola di secondo ti ha salvato. Va via ora, io ti grazio. Hai bisogno di star solo: ti aspetta un lunghissimo viaggio, un viaggio piuttosto bizzarro, se vogliamo definirlo così, alla ricerca del tuo Eden. Ora basta. Va via".

Detto questo, la finì. E io ero sempre più confuso, anche se mi rendo perfettamente conto solo adesso che forse il termine "confuso" non riesce a rendere minimamente il mio stato d'animo di quel momento. Io stavo sempre lì, con la faccia piegata sul volante, non sapendo a che pensare. Ascoltavo, ascoltavo tutto e non sapevo se le parole che perforavano le mie orecchie erano reali o erano il frutto marcio degli acidi che mi avevano stroncato qualche tempo prima. E il barbone, allora? Voglio dire: chi avevo seduto accanto a me sul taxi? Chi era veramente quest'uomo? E come mai sapeva tutte queste cose su di me, sul mio conto eccetera? E che cazzo significava tutta la pappardella sulla salvezza, io sono il tuo giudice, sei malvagio, e le altre stronzate? Le domande, in un secondo, mi si accavallarono nella testa ad una velocità tale che mi tornò di netto l'emicrania: un'emicrania così lancinante da non permettermi di ricordare esattamente cos'è che accadde dopo, cosa mi disse o non mi disse più. Non so. Non so proprio. La nebbia. La nebbia sì… sì, quella la ricordo perfettamente: una fitta nebulosa bianchissima che ci avvolse improvvisamente fin dentro la macchina tanto che quasi non si respirava più, e dovetti aprire la portiera e buttarmi fuori. Nel vuoto. Buttarmi via… Ma non piombai sull'asfalto. Cominciai invece a cadere nel vuoto, Cristo Santo. E mentre cadevo, mentre mi lanciavo in una scivolata nera e fredda che non la smetteva più, che sembrava non volerla smettere più, lo sentii ancora parlarmi, anzi urlarmi qualcosa da lontano, da molto lontano. "Ragazzo!" distinguevo le parole come se mi stesse parlando dall'alto di un pozzo nel quale stavo precipitando, al buio.

"Non te la prendere! La vita è solo un gran cazzo ficcato nel culo!" E un'altra cosa mi disse, una cosa che non mi ha fatto star bene per parecchio tempo, una cosa molto strana che non sono riuscito a capire perfettamente durante la mia discesa nel pozzo o quello che fu: mi disse qualcosa come "io sono io, o Dio, o qualsiasi altra cazzata, non so…E poi stop, chiuso. Continuai a scendere senza vederlo più: mi si perse.

E non l'ho mai più rivisto da allora. Come abbia fatto poi io a tornarmene a casa, questo proprio non riesco a ricordarmelo. So solo che a un certo punto della mia caduta atterrai su qualcosa di soffice. Aprii gli occhi e mi resi conto che stavo sdraiato nel mio letto, rincoglionito come dopo una bella sbronza. La testa in tilt, sconvolto come mai lo ero stato prima in vita mia e soprattutto senza più la voglia di pormi domande; solo il desiderio di dormire mi abbracciava, solo quello…

E così decisi di dormire un poco prima di andare a raccontare tutto agli altri. Dovevo pur raccontare a qualcuno quelle cose, stavo impazzendo. Non so quanto tempo dopo mi risvegliai, forse parecchio dopo, e quando riaprii gli occhi notai con un piacere immenso di essere sempre accucciato sul mio letto, nella mia stanza. Mi resi conto però di alcune cose molto brutte. Avevo di nuovo male dappertutto e non riuscivo più a muovere un muscolo, così pensai che l'unica cosa da fare, prima di tentare di chiamare qualcuno, era di starmene ancora un po' disteso. I ricordi del barbone mi si affollavano ancora nella mente, non allacciavo molto ed ero a pezzi, con un bisogno disperato di riposare. Così chiusi gli occhi e cominciai a sognare.

Sognai che stavo passeggiando nella stazione del taxi sottobraccio al barbone - un sogno incredibilmente reale - e davanti a me stavano in fila Armando, Franco lo storpio, Abracadabra, Sandro e tutti gli altri; e il barbone mi parlava di loro, delle loro vite e dei loro sogni, di quello che erano e di quello che avrebbero voluto diventare, e mi piacerebbe raccontare tutto ma in questo momento non riesco a ricordarmi i particolari. Tutti loro sembravano contenti, ad eccezione di Giorgio. Lo vedevo triste, abbattuto. Non mi rivolgeva nemmeno la parola. E io ero lì che tentavo di parlargli, ma quello si girava dall'altra parte e il barbone mi incitava ad andarmene, mi faceva segno di seguirlo. Io non volevo lasciarlo così, volevo spiegargli quello che mi era accaduto, ma quello niente. D'un tratto si staccò dal gruppetto e si mise a camminare, a camminare finché una luce morbida lo avvolse tutto e mi sparì sotto gli occhi. Dopo, nel sogno, vidi anche mia madre che teneva in braccio mia sorella, e mio padre che le stava seduto accanto a prepararsi una sigaretta, e vidi anche me stesso ai suoi piedi che lo guardavo. E mio padre che mi faceva sì con la testa senza aprire bocca, e mia sorella piccolina che ciucciava il latte dalla mammella, poi si staccava e, dopo essersi pulita la boccuccia, mi diceva: "Ciao fratellone. Occhio che tra un po' di tempo dovrai cavartela da solo, io non ci sarò più! Poi vidi ancora Angela, nuda e incredibilmente bella, che mi chiamava e mi parlava, ma io non riuscivo a sentire quello che mi diceva…"Amore" le dicevo "Ti voglio davvero bene io, sai? Non è vero quello che dice il barbone! Tutto mi piace di te, mica solo il tuo corpo! Non sono un granché a dire cose dolci, lo sai…" Poi non ricordo nulla, solo un gran buio pesto e un agghiacciante silenzio. Fino al giorno in cui mi svegliai all'oscurità e mi accorsi di essere qui, in un ospedale, e attorno a me c'erano Abracadabra e gli altri. Non ricordo altro, solo che ho sentito le voci e tutto quanto vi ho già detto. E la stanchezza.

E poi il silenzio. E da quella volta lì, da quando ho sentito Abracadabra dire così, mi sono rimesso a dormire; tanto io, da solo, che posso fare? L'unica cosa sensata è fidarsi di Abracadabra, come sempre, mettersi in testa che se ti dice una cosa lui puoi star sicuro, tranquillo. Mi aiuterà lui, ne sono certo. E ancora adesso, ancora oggi che non lo vedo più e che vedo solo nero, sono sicuro che sta facendo qualcosa per tirare il suo vecchio amico fuori dai casini. Oramai non dovrebbe mancare molto alla mia guarigione, già che io mi sento ogni giorno meglio, più in pace col mondo.

Del barbone non ho avuto più nessuna notizia. Spero sinceramente sia morto. Non ho mai più pensato alle sue parole perché l'emicrania diventa, ogni volta che tento quest'operazione, lancinante; non è ancora il momento di fare troppi sforzi, sono molto debole. Comunque delle cose che ha detto il barbone non me ne frega un cazzo. Io ho Abracadabra che bada a me. Ora basta sul serio però. Lasciate che dorma per un po', perché quando mi sarò rimesso a posto voglio proprio farmi una bella birra in compagnia dei miei amici più cari. È che ne sento proprio la mancanza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Epilogo

 

 

Carissimo,

scusami ancora se ti rompo l'anima ma ho bisogno urgente di comunicare con te. Uso il fax della stazione perché tanto so benissimo di trovarti lì. Vista la natura degli argomenti di cui devo trattare con te il telefono non mi sembrava l'idea più tranquilla. Scusami ancora. Bene, mi rendo perfettamente conto che quanto sto per chiederti possa sembrarti una cosa assurda, ma è da molte notti oramai che non riesco a dormirci. Insomma, voglio che sia tu stesso ad occuparti del trasferimento di mio fratello nella struttura privata del dott. Andreoli (tra un paio di giorni ti spedirò l'indirizzo). La clinica sta a pochi chilometri di distanza da lì. So che eravamo d’accordo che avrei dovuto pensare io a quest'evenienza ma come puoi benissimo immaginare in questo momento non posso muovermi. Te ne ho parlato pochi giorni fa, sai che ti avevo detto che avrei potuto farcela da sola ma purtroppo i guai non smettono di perseguitarci. Mi dispiace molto e sono piuttosto imbarazzata a scriverti. Il bambino sta per nascere e Kymo ha avuto dei problemi con alcuni polizziotti che gli hanno rosolato il culo per bene! Vile razza di bastardi osceni e vergognosi, mandria di xenofobi e di razzisti! Lo hanno pestato. Non erano neanche i suoi colleghi. Ha fatto a pugni ed è stato sospeso dall'incarico per qualche tempo. Ma ti rendi conto? In che porco mondo viviamo. Comunque come vedi la situazione in questo momento è un po' critica, quindi mi permetto di approfittare ancora della tua disponibilità nel chiederti un grosso favore nell'accompagnare tu mio fratello a quella clinica. Lì avrà tutte le "cure" necessarie e non dovremo più preoccuparci di lui. Il dott. Andreoli mi ha assicurato che oramai è ridotto ad una larva umana e che non mancherà molto alla sua morte. La testa, come dicevi tu, gli è scoppiata grazie alle droghe e le continue iniezioni di acido lo hanno debilitato sempre di più. Andreoli dice però che non può più fargli le iniezioni all'ospedale e l'unico modo per ucciderlo senza che nessuno sospetti niente è portarlo a Nizza, alla sua clinica privata. Le pratiche per il trasferimento le ho già firmate tutte io (l'ospedale ha richiesto il permesso di un parente) e te le spedirò oggi stesso. Ah, dimenticavo. Passa da Tony l'hawaiano un momento, ti restituirà tutti i soldi che ti deve. Gli acidi e l'LSD erano perfetti, hai visto? È stata una cosa magistrale, il decidere di potenziarli. Quella miscela ucciderebbe un dinosauro, figuriamoci quel cagone lì. Per il resto cosa vuoi che ti dica? Ne abbiamo già discusso a lungo, io e te, di mio fratello, quindi non voglio seccarti più con altre storie su di lui. Era uno stronzo e probabilmente abbiamo fatto un grosso favore al mondo nel farlo fuori: da quando ha rubato i soldi a papà non mi sono data più pace. Come ti ho già detto, io sapevo tutto perché allora già stavo con Kymo, e tu sai che lo avevo mandato da mio fratello a spaventarlo non per i debiti che aveva con lui, ma perché avevo visto quel bel cazzo di giaccone dall'Emporio (che Dio maledica il giorno che mi ci sono fissata…) e lo volevo da matti per le mie serate al Club Des Fleurs. Ma chi avrebbe immaginato che quel bastardo di mio fratello sarebbe andato a rubare il libretto bancario a mio padre per avere i soldi? Io poi a lui non gliel'ho mai detto che l'infarto a papà gli è venuto dopo che ha saputo che suo figlio gli aveva fottuto i risparmi di lavoro e sua figlia si faceva sbattere da metà popolazione maschile della città. A proposito: fare la puttana al Ffleurs era una gran merda in confronto a qui a Firenze; ti dico che l'altro ieri mi sono scopata otto tizi. Ho messo su in un giornata due milioni e mezzo. Se continuo così vengo a trovarti per natale! Comunque mio fratello ha avuto quello che si meritava. E anche a te è convenuto, mi pare. Sai, era una testa matta e chi lo sa a chi avrebbe potuto andare a raccontare le tue cose? Ti ripeto che non è stata una gran perdita per il mondo. Nel tuo fax dell'altro giorno mi hai scritto che Angela è stata trovata con quattro buchi in fronte in un vicolo e mi hai chiesto se era opera mia. Bè, consideralo un regalo. Anche a lei mio fratello aveva detto un bel po' di cose. Un vero bastardo. Un'ultima cosa prima di andar via: del barbone di cui mi hai parlato, di quello che ogni tanto mio fratello tirava fuori nei suoi deliri, non sappiamo ancora niente. E da un po' che stiamo setacciando tutti i quartieri di lì per trovare questo relitto. Ma non credo dovresti preoccuparti più di tanto, mio fratello diceva un sacco di stronzate senza senso. Magari non è mai esistito. Ad ogni modo, se questo può tranquillizzarti, sappi che abbiamo già centrato tre barboni a caso. Quelli di cui ha parlato il giornale, per intenderci. È tutto per ora, Abracadabra. Ci sentiamo presto, a cose fatte. Il numero del fax è sempre quello. Ciao.

Claudia