Francesco Bucci

Avevo una fanzine ("Doctor Sax: poesia-e-altre-storie-a-sorpresa"). Ho cantato cinque canzoni nel CD dei Vigliacchi ("1998: Gli arrabbiati se ne vanno, i Vigliacchi restano"). Mi piace la musica che fa venire giù la pioggia (ma se è per questo, anche quella che fa smettere di piovere!). Amo le teiere volanti. Quando posso, vado in bicicletta. Qualche volta, dormo con la luce accesa. Libro preferito: "Storie di Rutabaga" di Carl Sandburg.

UNA SPEDIZIONE SCIENTIFICA IN BRETAGNA

Dunque, un pomeriggio mi telefona il professor Acchiappanuvole, proprio mentre sto per prendere il the. "Pronto Franz," dice "ci siamo, finalmente. Mi trovo a Chartres, un'ottantina di chilometri da Parigi, direzione Le Mans. Devi assolutamente raggiungermi, sono sulle tracce di Dio." Quando torno in cucina, scopro che mentre ero al telefono la mia teiera è volata via dalla finestra. Niente da dire, le teiere volanti hanno molte qualità (tutte quelle che già sapete e che quindi è inutile ricordare in questa sede), ma presentano anche qualche piccolo inconveniente. Uno di questi è la tendenza a volar via dalle finestre aperte. Appunto.

Arrivo a Chartres due giorni dopo, nel pomeriggio. Fossi a casa mia, a quest'ora metterei a scaldare l'acqua per il the; ora invece punto dritto verso la cattedrale gotica. Come previsto, trovo il professore davanti alla facciata, mentre sta scattando una delle sue famose audiofotografie. Questa storia delle audiofotografie è una delle sue idee più strambe. Il professore ha un piccolo registratore portatile che porta sempre con sé. Ogni volta che s'imbatte in qualcosa di memorabile, egli accende il registratore, pronuncia una breve audiodidascalia (qualcosa come "Cattedrale gotica di Chartres, interno", oppure "Volto di donna nel vento", o magari "Partita di tennis al tramonto") e poi tiene l'apparecchio acceso per un po' davanti al soggetto o alla scena da riprendere. A volte, quando il soggetto è troppo grande, il professore muove il registratore dall'alto in basso, e poi da sinistra a destra, proprio come se fosse una cinepresa. Il professore sostiene che riascoltando queste registrazioni con gli occhi chiusi riesce a ricordare ciò che ha fotografato nei minimi particolari. In effetti, quando racconta di qualcosa che lo ha colpito, il professore mostra una stupefacente capacità di scendere nei dettagli: forse è proprio merito delle audiofotografie che scatta. Fatto sta che egli conserva una impressionante quantità di nastri (non cancella mai nulla), e ovunque vada si porta sempre dietro una valigetta con una selezione di cassette memorabili. Non mi saluta neanche, il professore. Mi guarda con aria inespressiva, poi mi chiede "Dove hai la macchina?". "Più giù" rispondo, indicando vagamente la direzione da cui sono venuto. "A Rennes" dice lui, "subito a Rennes." Arriviamo a Rennes che è già sera. Lascio il professore in albergo e vado a fare un giro: in centro trovo una via piena di caffè coi tavolini fuori e un sacco di gente seduta. Bevo una birra, vado a dormire. La mattina dopo, prima di ripartire, mi fiondo in un grande magazzino e compro una cassetta di Françoise Hardy (la mia cantante preferita). Torno in albergo che il professore sta ancora facendo colazione. "Dove sei stato?" mi chiede con la bocca piena. Gli faccio vedere il volto da madonna pop della Hardy sulla copertina del nastro. "Lo vedi?" mi dice. "Anche tu stai inconsapevolmente seguendo una pista. Ieri a Chartres ho avuto un'illuminazione mistica, poco prima che arrivassi tu. Davanti alla statua della Madonna Nera, nella cattedrale, la corrente magnetica è fortissima. Quel luogo è come uno snodo: le linee di forza si diramano in tutte le direzioni, ma la più potente e impetuosa viene proprio da questa parte, in Bretagna. D'altro canto me l'aveva anche detto quel marinaio di Treguier: mi ha raccontato tutto l'altra sera, in cambio di una birra. Gesù Cristo è stato da queste parti (i Vangeli vanno interpretati) e c'è una ragione per ogni cosa, non ti pare? Chi va per mare certe cose le sente con maggior chiarezza, nel passare da un elemento all'altro. Io mi sono limitato a fare due più due e a ripercorrere a ritroso la strada fino a Chartres, dove ho avuto la conferma che cercavo. Ma se Cristo ha percorso questi luoghi, beh, allora Dio (o almeno un suo segno tangibile) è ancora qui attorno." Non sono sicuro d'aver compreso tutti i particolari dell'esposizione del professore. Per non fare brutta figura, mi limito a chiedere "Dove andiamo ora?". "Dunque," fa lui "non a Carnac -hanno recintato i megaliti-, non a Broceliande -la foresta di Merlino è una balla per turisti-, non al tumulo di Barnenez -troppo facile-. Ci vuole qualcosa che sia come un Atto di Fede; proprio così: un Atto di Fede scientificamente plausibile. Secondo i miei calcoli (e qui si tocca un taschino della giacca) il posto giusto è l'Isola dei Monaci nella baia di Vannes. Non perdiamo altro tempo, dai!" conclude, versandosi dell'altro caffè.

Ci mettiamo tre giorni pieni per arrivare a Vannes da Rennes; questo perché il professore mi chiede continuamente di fare delle deviazioni lungo un percorso che già di per sé è abbastanza tortuoso. Ci fermiamo per studiare megaliti, affreschi medioevali di danze macabre, calvari (ossia rappresentazioni della vita di Cristo scolpite su vecchi menhir), o per osservare il flusso delle maree. Il professore prende appunti, scatta le sue audiofotografie, dice continuamente "A-ah". Finalmente giungiamo alla meta. E' il primissimo pomeriggio quando scendiamo dal battello che da Vannes ci ha condotti fino all'isola. Prendiamo due biciclette a noleggio e usciamo dal paese, inerpicandoci verso l'interno, alla ricerca -pare- di un dolmen (anzi DEL dolmen, come dice enfaticamente il professore). Ci perdiamo un po' di volte, prendiamo dei sentieri che non ci portano da nessuna parte, poi torniamo indietro, finiamo davanti al cancelletto di legno di una fattoria, riprendiamo il sentiero principale. Di tanto in tanto riusciamo a vedere il mare, veloci squarci panoramici di metallo liquido sotto le nubi, una barca a vela -sorprendentemente vicina. Una piccola radura seminascosta si apre alla nostra sinistra (ci eravamo già passati davanti senza notarla, mentre andavamo in direzione opposta). E' questo, il posto che cercavamo. Un dolmen di medie dimensioni se ne sta accovacciato in mezzo all'erba. Se questa è una traccia di Dio, beh, allora forse non ho capito niente. Il professore invece sembra moderatamente soddisfatto. Mi chiede di aiutarlo a prendere le misure (non so di cosa, ma prende un sacco di misure), scatta una lunghissima audiofotografia. Se ne sta in meditazione per un tempo indefinito, mentre io ciondolo lì attorno. Alla fine, reiforchiamo le biciclette e torniamo indietro con una lunga, planante discesa.

Seduti sul molo, aspettando il battello. Il professore sta scrivendo furiosamente nel suo taccuino. Sicuramente starà redigendo il solito rapporto per il Club delle Falesie Alte. Scommetto che anche stavolta i gentiluomini del Club resteranno perplessi (non per niente, del resto, il professore si chiama 'Acchiappanuvole'). Resto a osservare la scena (il professore, l'acqua grigia della baia, le nuvole basse), mentre in lontananza una bombarda ricama una melodia concentrica. Dalla finestra aperta di una casa lì vicino viene fuori, volando, una teiera.

 

APPUNTI DI CICLONAUTICA APPLICATA

La mia idea di strada perfetta corrisponde ad una spirale perennemente in discesa. Cercavo in cuor mio una strada siffatta, durante le mattutine uscite del Circolo Hoffman - Ciclisti Zen allo Sbaraglio. Il Circolo Hoffman era composto da tre persone, le cui differenti culture di provenienza e finalità trovavano degna armonizzazione nel culto della mountain bike. Quest'ultima, come tutte le invenzioni fondamentali del Ventesimo Secolo (il punk-rock, il pennarello, il Solero Algida) si caratterizza per essere perfezionamento del pre-esistente e strumento polifunzionale di interpretazione della realtà.

Le uscite mattutine del Circolo Hoffman mettevano dunque in campo energie e interessi che, alimentandosi dialetticamente, si aprivano a nuovi e inattesi orizzonti. Di esse ricordo alcuni istanti fondamentali, momenti di rivelazione come il sorgere del sole visto dalla cima di una specchia, subito dopo essere scesi a rotta di collo lungo il fianco della vallata, subito prima che fossimo inseguiti da alcuni grossi randagi, subito dopo aver guadagnato l'ingresso di una vecchia masseria fortificata soffocata dai rovi, subito prima che mi accorgessi di aver forato.

Provando e riprovando, incominciai a rendermi conto di come la famosa spirale perennemente in discesa corrispondesse, forse, più ad uno stato mentale che a una realtà fisico-stradale vera e propria. Questa intuizione ricevette definitiva conferma durante un'uscita pomeridiana del Circolo, in formazione ridotta (due componenti su tre). Quel giorno, il sentiero divenne così ripido e accidentato che fummo costretti a scendere con molta cautela; ci tuffammo nella macchia mediterranea, mentre il mare compariva e scompariva alla nostra destra; persi l'equilibrio lungo un crinale e caddi su un fianco con tutta la bicicletta (il mio compagno dovette tornare indietro per tirarmi fuori dai cespugli, nei quali stavo lentamente affondando); vidi il mio compagno sparire al di là di una parete di rami frondosi, che ostruivano il sentiero nella pineta: mi lanciai nello stesso punto e passai dall'altra parte, senza incontrare resistenza alcuna; ci fermammo, infine, su di una lingua di terra boscosa (quasi un'isoletta) che si allungava sulle acque tranquille del lago. Pausa. Fu allora che la vidi, tra le pieghe della stanchezza di quel tardo pomeriggio. La spirale in discesa mi era come uscita dalla testa, dispiegandomisi davanti. Saltai nuovamente in sella e, mentre riprendevo ad andare, gettai un'occhiata al mio compagno: pedalava accanto a me, ma era già lanciato sulla sua strada perfetta, che per quanto ne sapevo poteva essere diritta e pianeggiante o piena di cunette e gibbosità o magari (conoscendolo) costellata di buche e pozzanghere. Perché è così che funzionano le uscite in squadra: nei momenti di illuminazione, pur pedalando insieme, ciascuno percorre per conto proprio la strada che è dentro di sé, mentre l'ora delle rondini cede rapidamente il passo a quella dei pipistrelli.