Marco Bugatti Sono un ragazzo di 21 anni, nato e disgregato nella piccola cittadina di Desio, appena troppo fuori Milano. Dopo sei disastrosi anni di liceo scientifico, ho avuto l'opportunità di respirare un po' di aria alla scuola del fumetto di porta Genova, che frequento tutt'ora. Vivo più di musica e di insicurezze che di letteratura, ed ho seguito tutti gli "esempi negativi" che il rock e in particolare il ramo (pseudo) punk che da sempre seguo, hanno avuto la cortesia di fornirmi. Ho cominciato a scrivere per non farmi del male, ed ora ho tutte le intenzioni di continuare a farlo fra una canna e l'altra. Il mio indirizzo e-mail è: marco_bugatti@virgilio.it
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Eppure
Eppure quel
ragazzo qualcosa dovrà pur mangiare, cazzo. Si terrà in piedi con qualcosa quel ragazzo.
IL MIO SOGNO PRIMO Era solo un sogno di libertà, nient'altro. Un sogno, o meglio un miraggio, di un ragazzo di sedici anni quasi diciassette. Ed era per quel sogno di libertà che ero stato spugna per due ore su un divano, ad assorbire lacrime di un'altra ragazza. "Senti, non so se le cose riusciranno mai più a tornare come prima" le avevo detto dopo aver riso di un malsano riso isterico che non riuscivo più a fermare. E non mi aveva reso le cose più semplici. E non le aveva rese a lei. Ma è sempre stato sbagliato ed era solo un miraggio che stavo seguendo, un altro riflesso di un qualcosa che forse non può esistere nel mio mondo, il motivo per cui in quel carnevale ero lì anch'io, con gli altri, davanti al cimitero di quella città, la mia, quasi pronti per andare alla festa. Ed ero libero. Ma ora la mia realizzazione dipendeva da Socio, e io lo stavo aspettando. Niente amici, solo gente con la quale era facile fumare, di quella gente con roll up in tasca, capelli lunghi mossi sempre slegati, logo di un gruppo sul chiodo, rigorosamente anticristo e una bestemmia ogni due parole. Tutta gente che mi avrebbe odiato, poi, perché ero solo anch'io un riflesso, invece di niente, zero assoluto. Tutta gente, comunque. Quando Socio arrivò, si riunirono tutti attorno a lui, cosa che feci anch'io con un finto self control che non mi convinceva neanche per il cazzo. Solo un miraggio di self control. Scusate. Io ero l'ultimo. L'ultimo arrivato, l'ultimo in esperienza insomma, l'ultimo, e come tale avevo l'unico diritto di stare in silenzio ed aspettare. Avrebbero potuto anche incularmi, se avessero voluto, e non avrei potuto dire niente. Non si era ancora arrivati a questo. Socio mise una mano in tasca e ne estrasse una stagnola piegata su se stessa fino ad un piccolo quadratino. "Ho un Super Simpson" disse. La decisione è vostra, ragazzi. E il Super Simpson venne distribuito. Non ne rimase più niente, se non la sua eco o quella della sua fama. "Mi hanno dato un Poliziotto. Non so cosa cazzo sia. E' vostro" "Grazie Socio." La decisione è comunque vostra, ragazzi, e il mio miraggio è nelle vostre mani. Il mio socio lo prese e lo divise ancora a metà. Ecco il quadratino che mi spettava, mi apprestavo a farmi sciogliere la libertà in bocca. Mi avevano raccontato una cosa buffa; me lo avevano giurato. Che se l'LSD di un cartone ti toccava i denti, ti sarebbero caduti. Non ci avevo messo molto a crederci. E non ci avevo messo molto a farla diventare una fobia; per questo tenevo la libertà nel palato, ci giocavo con la lingua, spostandola, ma stavo più che attento ad evitare il contatto libertà-arcate dentarie. Così mi andava. Boris era ammalato quella sera e se ne sarebbe andato presto. A casa, intendo. Mi si affiancò. "Allora, tutto a posto?" gli risposi di sì, con la bocca impastata. Trovò buffo come stessi attento a non ingoiarlo e a non far marcire i miei bellissimi denti. Chiaramente mi imbarazzai, ma l'unico che avevo immaginato potesse essere la mia guida verso la libertà, non ci sarebbe stato. E infatti fu così. Mi accompagnò sul posto e mi lasciò in balia di un numero indescrivibile di quelli che sono comunemente detti amici. Il minuscolo quadratino intrappolato nel cavo orale aveva ormai raggiunto lo stomaco, dopo aver rischiato di venire sfaldato dalla saliva con la quale era venuto a contatto. Aspettavo che risalisse con tutto quello che aveva da darmi. Nel frattempo decisi di dare un'occhio in giro. Compagni di scuola, conoscenti, conosciuti di vista, tutta gente della quale troppo spesso avevo visto il sorriso. Troppa gente. Il posto era carino, grande quanto bastava per contenerci tutti e tentare di farsi fare una sega, un pompino o qualcosa di più da una ragazza troppo ubriaca per accorgersi che quello non è il cazzo del principe azzurro. Il tutto reso carino dalle scritte sui muri tipo c.s.a. cantiere, dalle luci soffuse, dai gruppi che stavano per suonare e dal fatto che, non mi ricordo come, ero riuscito a non pagare l'entrata. Avevo i capelli rossi, di quel rosso-comunismo-forse.un-po'-più-brillante, lunghi fino sotto il naso, in un taglio da donna, ma non era lo spirito del carnevale. Non ero vestito da niente. Non so quanta gente avrebbe capito la differenza, non gliela avrei spiegata allora e non lo farei adesso, per tutto l'oro del mondo. Forse è giusto che sia così. Mentre mi spazientivo raccontai ad un compagno di classe di quelli da un solo anno, coi capelli rosso-comunismo-forse-un-po'-più-brillante da bomboletta spray, di quelle da un solo giorno, quello che avevo fatto. In fondo ero solo ancora un riflesso che inseguiva un sogno. Mi sorrise, disse altre cazzate e se ne andò alla ricerca di qualcosa che non voglio ricordare. Io, da parte mia, ricambiai a pieno la sua allegria del cazzo. Aspettavo. Trovai l'Armenio, futuro chitarrista dai capelli ricci, di una magrezza alla Sid Vicious e di una intelligenza alla Bon Jovi. Raccontai anche a lui. Mi offrì da fumare. "Ci ho due canne già tirate su, vuoi fumarle con noi?". Il resto viene da se. Mi intratteni piacevolmente, le fumammo una di fila all'altra, quelle canne giovani, ed era rassicurante sentire il fumo grattare in gola e sentirlo riemergere subito con tutto quello che aveva da offrire. Così andava meglio. Ma non ero ancora libero. E stavo aspettando. Ricordo che era passata più di un'ora quando decisi di fare un giro di Martini. Ora il martini faccio più fatica a mandarlo giù di allora. Al bancone c'era parecchia gente sconosciuta alla quale non dispiaceva chiacchierare e trovò un degno compare nel marocchino che avevo mandato giù. La situazione rese tutto abbastanza piacevole, tanto che mi ero quasi convinto che la libertà non esistesse e che fosse solo un'illusione alla quale tutti agognano ma che nessuno riesce mai a raggiungere. Ero partito comunque, accontentandomi dei soliti surrogati provvisori ed immediati. La musica era cominciata. SECONDO C'era Ripe alla festa, un amico che presto avrebbe cercato di mettermi le mani addosso. Il suo sorriso ebete era circondato da un trucco che lo faceva assomigliare più ad un componente dei Kiss che a quello che lui avrebbe voluto. Il ragazzo aveva cominciato a guardarmi negli occhi, cercando di capire forse di quanto fosse aumentato il diametro delle mie pupille. La sua faccia cominciava a divertirmi, ma in un modo che non mi era dato proprio di capire avevo preso a provare anche uno strano timore. Divertito dal fatto, il mio amico anticristiano aveva cominciato ad inseguirmi mentre io, spassosamente spaventato, avevo dato inizio ad un frenetico giro tondo attorno ad una colonna. Si trattava di uno stupido gioco, era chiaro, ma sul momento, l'unica cosa che mi veniva da fare era girare attorno a quel pilastro come un topo impazzito. Cominciavo a sentirla, la libertà, che mi saliva fino nella testa e mi faceva sentire leggero. La sentivo e sapevo che dovevo esserle grato per la carica che dava ai miei pensieri, se non che, nel giro di pochi minuti, dei miei pensieri persi completamente il controllo e ne venni sottratto, come se nella foga di regalarmi dei nuovi occhi per vedere la vita, qualcuno mi avesse accecato. Sono pochi i momenti che riesco a richiamare alla memoria da questo punto in avanti, e tutti sono sempre stati spiacevolmente sfocati e lontani. Ricordo il gruppo che stava suonando, del quale avevo una volta condiviso un componente, e mi ricordo che avevo il desiderio di pogare no, forse di ballare. Comunque la decisione alla fine fu quella di volteggiare su me stesso con in mano una bottiglia di Cocacola aperta, recuperata dio solo sa dove. Non riesco a ricordare in nessun modo la relazione dei miei amici sobri, forse troppo sobri per avere un qualsiasi tipo di relazione, o per avvicinarmi e cercare di dirmi qualcosa. Fatto sta che quando mi fui stufato di ballare, la mia attenzione venne catturata da un fatto che stava inesorabilmente accadendo in un angolo della sala. Era Matteo, quello, il mio eterno compagno di banco. Il suo sguardo ubriaco stava cedendo alle advances di una ragazza molto insipida che da giorni attendeva un momento come quello che lui, dal canto suo, aveva accuratamente evitato di procurarle. Dovevo salvarlo. Le mie mani strinsero la bottiglia e mi avvicinai a quella ridicola coppia da festa comandata. Con un gesto rapido e deciso scaraventai una discreta dose di quel liquido disgustosamente appiccicoso sul vestito di lei. "Ma che cazzo ! " mi tuonò. La sorpresa impediva ai suoi occhi di essere minacciosi così come lei forse li avrebbe voluti. Mi apprestai ad aamonirli entrambi e il mio cervellino che friggeva già stava pensando con quali frasi avrei dovuto spiegar loro quel gesto così sacrosanto e giusto. Le puntai il dito indice in pieno volto. "Tu." le dissi. La mia attenzione venne catturata da chissà quale altro sacro particolare. Me ne andai. Non mi seguirono. Avevo salvato il mio amico. Dopo qualche ora, le persone che avrebbero dovuto scortarmi a casa vennero a cercarmi, e mi condussero quasi con forza alla macchina di un ragazzo chiaramente troppo ubriaco per mostrarci di nuovo la sua guida sportiva sulla macchina del padre. Lo conoscevo. Dovevo conoscerlo. Era un mio compagno di classe. Erano quasi riusciti a piegare la mia volontà, i porci, ma con uno strattone improvviso ottenni la libertà prima che riuscissero a chiudermi nell'auto, giusto in tempo per scavalcare una recinzione che sembrava essere stata messa apposta in quel punto in quel preciso istante, e ritrovarmi catapultato in un nuovo magnifico mondo. I miei amici psichedelici tentarono di riportarmi fuori a parole, fino a quando, stanchi dello sforzo e spossati dall' alcol, furono costretti ad inviarmi un ambasciatore con lo scopo di scortarmi di nuovo nella dimensione in cui avevo il dovere di stare. La libertà andava veramente pagata cara. Arrivati finalmente al mio domicilio, dopo aver rischiato un tamponamento e forse la vita, tanto per avere qualcosa su cui scherzare il giorno successivo, non avevo la minima intenzione di scendere e rinunciare al mio miraggio. Preso per le gambe fui trascinato sull'asfalto dal quale mi rialzai senza fatica e incapace di provare rancore nei confronti di quelle creature ormai distanti anni luce da me. Le chiavi di casa le avevo, dovevo averle da qualche parte, cristosanto, ma comunque non aveva più importanza, dato che non riuscivo più a trovarle. La cosa più facile fu quella di suonare con il palmo della mano tre dei sei campanelli, tra i quali quello di casa mia, all ingresso del mio cortile. Una volta che mi fu aperto il cancello, non mi restava altro da fare che indirizzarmi con passo sicuro verso la porta di casa. Ma qualcosa non aveva funzionato, qualcosa doveva essere per forza andato maledettamente storto, perché non avevo percorso ancora un quarto della distanza che mi separava dal mio focolare che mi apparve la figura interrogativa e assonnata di mio padre. Com'era possibile? Non era previsto lui nel mio sogno di libertà. Veloce come non sarei più in grado di esserlo mi fiondai fuori dal cancello d'entrata e mi fermai nel parcheggio subito a sinistra. Mi tolsi una scarpa e cominciai ad osservarla molto interessato. L'intervento del ragazzo che anni prima avevo salvato da una reazione morta sul nascere mi intimò a rimetterla, mentre i suoi compari spiegavano al mio genitore che quei comportamenti erano dovuti ai troppi Martini. Cercavo di mantenere un'espressione il più possibile normale mentre venivo scortato nei miei appartamenti, e rispondevo con naturalezza alle domande di mio padre che mi interpellavano, chissà poi perché, sui nomi di tutto il mio ceppo famigliare. Arrivato in camera mi infilai a letto (vestito, naturalmente) e in qualche strano modo riuscii a prendere sonno. La notte feci uno splendido sogno. Una donna stupenda vestita in modo provocante mi veniva in contro e si inginocchiava di fronte a me, all'altezza dell'inguine, aprendo la bocca. Io, da parte mia, mi slacciavo i pantaloni e prendevo fra le mani il mio scettro, pronto a donarle tutto il nettare dorato che lei era disposta a ricevere dalla mia persona. Nel frattempo, nella mia camera da letto, sprofondato nel cuscino, rilasciavo i muscoli della vescica. E fu così che sul mio sogno di libertà ci pisciai sopra.
PARENTESI Sono così pesante che sto sprofondando nel divano. Sento la gravità che mi tira sotto, sempre più in basso e non riesco a fermarmi. Mi accorgo del mio sguardo fisso nel vuoto da chissà quanti minuti ormai e mi libero da questa ovatta che ho nel cervello con uno sforzo piano piano crescente. Decido per uno sguardo di esplorazione della stanza. Jonas sta fumando. Inutile chiedersi dove e quando sia riuscito a tirarla su. Mi stupisce sempre Jonas, quando sono trasportato dai pensieri e mi fisso su di lui, estraendo una canna da chissà quale cilindro invisibile con la fattanza di un mago lento e silenzioso. Aspira con indifferenza e sbuffa dense cortine di fumo che si perdono nel vuoto della stanza. Mi stacco da lui alla ricerca di Mischa e la testa mi cade quasi sul petto, ciondolando, e mi soffermo ad osservare quello che un tempo doveva essere il tavolino del suo appartamento. Si intravedono ancora alcune zone scoperte sotto pacchetti di sigarette, bicchieri e bottiglie di plastica, posaceneri, candele, piattini strabordanti di verde speranza e sogni che noi esseri ormai fragili abbiamo riposto prima di lasciarci abbracciare dalla notte ormai morente. Una mano invade il mio campo visivo e afferra un sottobicchiere sponsorizzato Cocacola che chiunque è stato qui conosce fin troppo bene. Il mio orsacchiotto preferito comincia a sbriciolare con le sue dita lunghe e affusolate, mentre io decido che questa me la gusterò a reni vuoti. Mi alzo con uno scatto che definirei felino se avessi la forza e la voglia di parlare, decisamente, e mi faccio strada tra piedi sconosciuti. Riesco a sentire l'aria densa, pregna di noi stessi, accompagnata da una luce troppo soffusa, che si perderà chiunque non ha avuto i denti per tirare, strascicando, fino a questo punto. Sono in piedi. Punto insicuro verso la porta del bagno. Influenzato da una distorta visione di dinamismo, faccio scattare l'interruttore svizzero con una manata sulla parete. Guardo la tazza e sono scocciato dal fatto che quella bruciatura riesce sempre a calamitare la mia attenzione come la vedessi ogni volta per la prima volta. Mi appare la mia faccia allo specchio e la osservo con un filtrato senso di disagio per il mio aspetto. Gli occhi marroni hanno un vivace tocco di capillari rossi che si diramano attorno alle pupille. I cerchi neri che li circondano stonano nettamente con il pallido della carnagione, risultato della veglia forzata, o di una dieta povera di qualsiasi cosa. Ruoto di tre quarti passando la mano sulla barba incolta che fra qualche ora comincerà quel prurito fastidioso tanto odiato da chi, come me, è troppo pigro per radersi e troppo poco virile per non farlo. Trovo un brufolo nato nel dormiveglia e non resisto alla sensazione di vederlo saltare in aria. Niente male. Devo pisciare. Ma devo muovermi. C'è qualcosa che sta succedendo e io non posso permettermi di non stare in prima linea.
LA COSA GIUSTA Dopo aver bruciato l'infinito alla ricerca di soluzioni, possiamo finalmente aspettare il momento nel più calmo e insignificante silenzio. Come nell'attesa di qualcuno che non verrà, come nella speranza di una nuova era che mai si realizzerà, come nell'attesa di un nuovo stupido anno già morto ancora prima di nascere. Silenzio come di morte venuta a liberarci dai fantasmi. Fantasmi di volti dimenticati, di nomi scolpiti sulla sabbia, di padri rinnegati dai propri figli. Dicevano che ci saremmo evoluti, che saremmo arrivati a capire, che avremmo conquistato la conoscenza non sapevano di cosa stessero parlando. Millenni, secoli, anni, giorni, minuti. La grande era della religione, il tempo universale, l'era della pace come ultimo soffio di speranza e chissà quanti altri, sono stati solo interminabili viaggi all'interno di noi stessi per scoprire che l'unico punto di arrivo è il nulla. Problemi e soluzioni, vita e morte, illusioni, lacrime, sorrisi, visioni, sofferenze, domande, risposte, paure tutto è passato ormai. Ci siamo voluti spingere verso l'intelligenza. Abbiamo pagato i nostri prezzi. Abbiamo aspettato a sufficienza; ora il momento è arrivato. La vita e la contraddizione che essa stessa porta in seno ci hanno tenuti in mano per tutto il tempo che è passato. Ma il tempo sta per finire. Solo la fine di tutto è la cosa giusta. E non possiamo che aspettare che si compia il nostro destino con la più sobria lucidità, mentre ci apprestiamo a uccidere quello che da sempre abbiamo chiamato futuro.
SABATO POMERIGGIO E' sabato pomeriggio in un cielo grigissimo di dicembre e io devo uscire allo scoperto. Ho bisogno di vaselina per la mia ragnatela e le corde della chitarra si stanno assottigliando da mesi per via della ruggine. Ormai non potrei più suonarle nemmeno se avessi il tempo per farlo. Ieri notte ho lavorato fino alle due e trentacinque ad accompagnare gente ai tavoli perché potessero avanzare le loro birre e non parlare di cose vuote, cercando disperatamente il consenso del proprio compagno di uscite, troppo preoccupato per lo stesso motivo per non annuire sorridendo, anche se la musica troppo alta gli ha impedito di afferrare adeguatamente il concetto. Sono due mesi ormai. Risultato: troppi soldi e nessuna motivazione per spenderli. Mi allaccio le all star, scosto delle ciocche verdi dietro le orecchie, chiudo il golfino a coprire il pigiama e mi infilo la giacca. Do un'occhiata allo specchio. Decido che forse è arrivato il momento di riprendermi la mia vita. Spingo i Bush nell'autoradio e circumnavigo la zona pedonale fino a trovare un parcheggio. Sono nel pieno di un sabato pomeriggio al centro. Dopo aver riconsegnato una videocassetta porno al distributore automatico (una cosa in superotto, di un regista sommo, che si fa chiamare Buttman, un vero genio, l'uomo culo) sfocio nella via principale e comincio a camminare. Penso che sono nella mia città. Un gioiello di interland dell'interland di Milano, la brianza pura, dove ormai il dialetto si parla col telefonino. Sono di nuovo su questi marciapiedi, mago delle contraddizioni e sono passati tre anni da quando mi specchiavo in tutte le vetrine e in tutte le macchina per cercare un po' di riconoscimento almeno in me stesso. Queste sono le persone che mi hanno cresciuto, allevato, nutrito con il loro modo di essere morti. Questo è il mio territorio, dove avrei dovuto imparare a vivere e a sconfiggere altruismo, solitudine e buonsenso. La rabbia è come una droga che non riesco mai a procurarmi. Troppo cara ed introvabile nel fondo della mia anima, il suo effetto dura sempre troppo poco e svanisce per dare spazio ad una rota di frustrazione, autolesionismo, insicurezza e prostrazione nei confronti di chiunque non si presenti a me con un calcio fra i denti invece che con una stretta di mano. La rabbia molto spesso è la sicurezza. Una macchina mi passa accanto e frantuma questa alchimia di sensazioni attirando la mia attenzione sulla freccia direzionale mentre svolta a destra ad uscire dalla zona pedonale. Ho deciso che è arrivato il momento di riprendermi la mia vita. Lentamente con sicurezza mi dirigo al centro della strada e comincio a camminare sulla striscia di coca che ne divide le corsie. Come un ubriaco troppo lucido, metto un piede dopo l'altro sulla riga bianca di mezzeria. E aspetto. Eccolo, il rumore che stavo cercando. Il figlio di puttana si avvicina, sento il rombo del motore. Mi immagino un solitario su una stescion vegon o un ventenne con ragazza quasi consorte e carrozzeria lucida del tipo pulisciti le scarpe prima di salire in macchina. Non mi volto. Mi sta dietro. Aumenta i giri del motore; io non mi volto e continuo a camminare. Dopo qualche secondo la sua mano pigia il tasto del clacson. Mi volto con gli occhi rossi e le pupille dilatate dentro due occhi a fessura, con una mano raduno le dita in un unico punto al di sopra del palmo e gli faccio cenno di espormi il suo problema. Il problema dello stronzo è, come da copione, che vuole passare. Vorrei voltarmi e continuare a camminare, ma in un attimo di lucidità gli indico il cartello che spiega che non può portare le ruote pulite della sua macchina di merda né le sua paure che possa piovere da un momento all'altro su questa cazzo di strada dove io ho il sacrosanto diritto di camminare dove stracazzo voglio. Alza le spalle. Mi scosto e lo lascio passare. Lui accelera e scompare dalla mia vita. Non sa che è stato fortunato; fossi stato più tossicodipendente e meno perdente gli avrei sfasciato senza pietà la macchina.
DILEMMA DEL NON DROGATO N. 1 Il vuoto è nel mio stomaco. Un buco nero, risucchia tutto quello che c'è in questa cazzo di stanza, il mio stomaco fottuto. Lo risucchia senza mai fermarsi, sento l'aria che gli passa attraverso e mi oltrepassa. Il mio stomaco del cazzo. E' come un formicolio che a volte si espande per ogni via del mio corpo e lo pervade, dalle vene al sistema nervoso a quello linfatico. La merda nelle vene. E non c'è niente da fare, non c'è nessun posto dove andare e non c'è nessuna falsa ideologia a cui aggrapparsi. Non c'è una sicurezza, non c'è un pensiero che possa valere per quello che è, non c'è un cazzo di niente che possa servire a qualcosa perché tutto l'universo è il mio stomaco fottuto. |