Gian Luca Baldrati

Trovo che vi sia un’incomunicabilità irrisolvibile fra il mondo nel quale io vivo e quelli in cui vive il resto dell’umanità. Può esserci uno scambio di parole, di suoni, di immagini o di odori, ma, comunque, ogni messaggio non ha, per il ricevente, lo stesso significato che il mandante voleva conferirgli. Allora perché scrivere? Forse per gioco, sicuramente per conoscere meglio l’unico mondo che mi è più estraneo: il mio.

IL FAZZOLETTO

Cammino reggendomi a stento lungo un muro sgretolato. I piedi non mi rispondono e le gambe sembrano cadere a pezzi come un antico edificio abbandonato. Persone mi passano accanto fingendo, ipocrite, di non vedermi. Perché? Forse, effettivamente, non mi vedono. Forse, invece, la mia vista è fastidiosa per loro. Rappresento qualcosa che non rientra nei loro canoni. Senza rendermene conto una gamba cede al mio peso, stremata, e cado a terra. Sbatto violentemente la faccia contro il duro e lurido asfalto prima ancora di aver capito cosa sta accadendo. Qualche indaffarato passante si ferma. Odo un insieme cacofonico di voci, ma non riesco a distinguerle. Non voglio capire, non mi importa. Nessuno mi aiuta. Non mi importa.

Lentamente mi levo in ginocchio, poi, con uno sforzo mi rialzo. Posso continuare a camminare. Con un braccio sposto una donna che, per vedere cosa è accaduto, non mi lascia passare. Mi guarda: la sua espressione raccoglie ribrezzo e repulsione. Allontano il mio sguardo dal suo viso. Non voglio vederla.

Mi duole tutta la faccia. Mi tocco la fronte con una mano e la vedo sporca del mio sangue, sto perdendo sangue! Ho perso molte cose. Le persone continuano a scansarmi. Ne prendo una per le spalle e la fisso intensamente negli occhi, voglio vedere se anch'esse hanno un'anima. Si tratta di un uomo, giovane e ben vestito. Forse un impiegato di banca. O un ragioniere. Con un indispettito strattone si libera e pulisce la sua giacca dal mio sporco e contaminato tocco. Fa bene, senza il suo bel vestito non resta più nulla di lui. E di me cosa resta?

Le luci dei negozi lussuosi mi infastidiscono. Prendo un sasso da terra e lo lancio contro una vetrina a pochi metri da me. Il vetro, evidentemente molto fragile, si infrange in mille pezzi e il padrone esce fuori infuriato. Non riesco a trattenere una risata. Scappo via. Pur senza forze corro da un vicolo all'altro senza seguire un percorso preciso e, all'improvviso, mi ritrovo un uomo in bicicletta davanti. Cerchiamo entrambi di evitare lo scontro, ma ci ritroviamo per terra. Senza nemmeno constatare cosa mi sono fatto nella caduta cerco faticosamente di rialzarmi, ma cado nuovamente a terra. Rido ormai follemente. Il conducente della bicicletta mi guarda. Si tratta di una donna, una ragazza. Il suo volto è spaventato. Mi guarda. Perché non la smette? Perché non si rialza e se ne va fingendo che io non esita come fanno tutti? La sua espressione diventa preoccupata. Il mio viso deve essere ancora sporco di sangue, me ne ero dimenticato. Mi porge un fazzoletto candido indicandomi la fronte. Perché lo fa? Prendo il fazzoletto e scappo via. Non posso usarlo per pulirmi, è candido. Forse avrei dovuto aiutarla a rialzarsi, ma poi lei avrebbe dovuto pulirsi del mio tocco come quell'uomo.

Corro a rifugiarmi in un altro vicolo. Mi copro con dei cartoni trovati di fianco ad un'uscita secondaria di un negozio. Posso riposare un poco.

Vengo svegliato da un brutale calcio ad una gamba. Si tratta di un uomo in divisa. Cosa vuole da me? Mi parla ma non lo ascolto. Rido. Rido sempre quando qualcuno se la prende con me. Vorrei aggredirlo, ma non ce la faccio, così rido. Non è anche questa un'aggressione? E lui si infuria. Un altro calcio. Un'altra risata. Mi prende per i capelli e tira la mia faccia davanti alla sua facendomi gustare il suo fiato puzzolente. Mi dice che non posso dormire qui. Gli chiedo se io sono mai stato a casa sua a prenderlo a calci mentre dorme. Sembra essersi irritato e mi tira un pugno in faccia. Questo mi ha fatto male. Molto male.

L'uomo inizia a perquisirmi. Perché? Sono io la vittima, non lui. Nelle tasche non ho alcunché che possa interessarlo. Maledizione! Ha trovato il fazzoletto! Non può sporcarlo con le sue mani lorde di continue ingiustizie. Ricordo il volto della ragazza: era preoccupata per me. Tiro all'improvviso un calcio ad un ginocchio del gendarme e lo faccio cadere. Sono molto stanco e debole, ma ora è la mia ira ad avere il sopravvento. Inizio a prenderlo a calci con tutta la forza che mi rimane. Non si aspettava certamente questo da un povero barbone. Mi abbasso su di lui e lo colpisco al volto con un pugno. Non doveva prendere il fazzoletto. Gli mordo il collo. La sua pelle è morbida. Continuo a stringere mentre mi da un pugno nello stomaco. Io stringo più forte. Cerca di strangolarmi e io stringo sempre più forte. La sua carne si lacera. Sento il suo caldo sangue scorrermi sulle labbra. Posso lasciare la presa. I suoi occhi sono fissi nel vuoto e si tiene la gola con le mani. Sta perdendo molto sangue.

Raccolgo il fazzoletto che mi ha dato la ragazza. Ha una macchia rossa in un angolo! Non è più candido! Cosa ho fatto? Attorno alla testa dell'uomo si va formando un lago rosso di sangue. Credo che stia morendo. Ancora una volta scappo via. Non doveva prendermi il fazzoletto. Penso al viso della ragazza. Non è più preoccupata per me. Ora mi teme. Forse non è mai stata preoccupata. Probabilmente ha sempre avuto paura. Cosa ho fatto? Ora il gendarme sarà già morto. Non mi sono nemmeno degnato di aiutarla ad alzarsi. Cosa ho fatto? Non doveva prendermi il fazzoletto...