Francesco Principato

(Sciacca  AG 10/05/58)
Studi in giurisprudenza.
Impiegato con l'hobby della scrittura.
"Livello Zero" ( romanzo) pubblicato da ILA PALMA di Palermo nel 1995
"Più a sud di Tunisi" (romanzo) inedito
Racconti vari sparsi per la rete.

POMODORI SECCHI SOTTOLIO
(Lezione di scrittura creativa n^8: un'avventura in treno)

"Non sei veramente fregato fin quando avrai una buona storia da raccontare". Non ricordo se l'ho letto prima in novecento o l'ho sentito nella leggenda del pianista sull'oceano. Sì, se ti chiami Baricco! Se ti chiami Baricco puoi anche non averla la storia da raccontare. Puoi scrivere City, Seta. E poi continuare con Sette, Otto, Nove… E se non ti viene di scrivere niente puoi sempre aprire una scuola di scrittura e continuare a far soldi, in attesa che passi il blocco dello scrittore. Il blocco dello scrittore! Che cos'è? Non lo conosco. Il blocco dell'editore sì, lo conosco. E' quello che ti rifiuta il dattiloscritto, che lo tiene nel cassetto per anni, che ti risponde che è in lettura. E' quello che ti pubblica, grazie al contributo col quale potresti stamparti tutta la tiratura per conto tuo, ma non ti dice che fine fanno i libri. Li cerchi in ogni libreria e la commessa ti dice con espressione allibita:
- Se vuole glielo posso ordinare…
E che ordini se ne hai in casa un centinaio ancora imballati?
A me fa ridere, il blocco dello scrittore. Potrei scrivere per anni e anni e avere sempre di che raccontare. Senza sforzarmi di fantasia, di inventare. Mi basta dare un'occhiata indietro, al mio passato. O immaginare il futuro che non ho avuto. Potrei scrivere chilometri di storie, rotoli di storie, bobine di storie. Potrei scrivere su qualsiasi argomento, qualsiasi fatto e su qualsiasi oggetto. Ed essere originale, unico. Essere io.
Voglio scrivere sul treno? Non viaggiando, argomento treno. Un'avventura in treno. Facile! Potrei scriverci un romanzo di cinquecento pagine. Potrei scrivere la versione italiana di 'Pomodori verdi fritti'. Solo che non avrebbe senso. Non ha senso friggere i pomodori.
Da noi i pomodori, rossi e maturi, si facevano seccare al sole, d'estate giorno dopo giorno, allineati su tavole di legno, le stesse su cui prima si era fatta asciugare la passata. E poi, i pomodori seccati, si salavano e si mettevano sottolio nei barattoli di vetro, di marmellate e conserve varie, accumulati per tutto l'inverno.
Potrei scrivere anche di quando sono nato e raccontare quello che mi hanno raccontato fin dai miei primi giorni di vita. Ma abbiamo detto treno.
Dove sono nato io, la casa dove sono nato, c'era il mare davanti e la ferrovia e la stazione alle spalle. Proprio come nella Little Rock (o era Castle Rock?) del romanzo americano. Proprio come in quel bel libro, insomma. In estate si cresceva e si giocava sulla spiaggia, sempre bagnati di mare. D'inverno l'unico spazio era quello della stazione, dello scalo merci. I passeggeri erano già pochissimi. Quella era già l'unica ferrovia d'Italia a scartamento ridotto. Viaggiavano littorine deserte. Gli autobus erano molto più veloci ed efficienti. Il traffico merci stillava le ultime gocce di vagoni e treni a vapore. Belli, neri, col gigantesco tubo davanti e i pistoni lucidi di lato che spingevano le ruote rosse. E ad ogni giro uno sbuffo. Era bello vederli partire. Il conducente ci strillava asciugandosi le mani nere con il cascame di fili colorati. Strillava e rideva mentre noi ballavamo nello spurgo del vapore, inebriati nell'unica nebbia mai vista, tiepida ed evanescente. Scappavamo appena accennava di scendere o compariva il ferroviere che noi chiamavamo Capolino. Noi eravamo quei bambini, una decina, che abitavano proprio a ridosso del capannone dove sostavano le merci appena scaricate dai vagoni o da caricare. Merci che non ricordo più di aver rivisto: sacchi di carrube, di sansa d'oliva, di orzo. Animali vivi non se ne vedevano più da un paio d'anni. Che spettacolo veder scendere dai carri i maiali grugnenti, e che divertimento quando ne scappava qualcuno. Poi avevano chiuso il macello e i recinti erano stati abbattuti. Così fra il deposito e il binario morto c'era solo uno spiazzo molto grande. Quando arrivò un nuovo capostazione con un figlio della nostra età, diventò il nostro campo di calcio. Non venne più nessuno a cacciarci via. Dovevamo solo stare attenti a qualche rara manovra di vecchi treni. Eravamo diventati gli unici occupanti della stazione merci. Però non avemmo più carrube da sgranocchiare e sacchi di olive verdi da bucare per portare a casa i frutti da salare.
Una volta in quello spiazzo atterrarono due elicotteri. Li abbiamo toccati. Dopo non ci furono altre avventure. La stazione morì. Non c'erano più le mandrie da scortare ma neanche più camion da scaricare. Continuò a vivere solo il nostro parco giochi invernale, il nostro stadio con le porte fatte da due blocchi di tufo. I vagoni scolorirono immobili con le porte bloccate da lucchetti arrugginiti. Fino al 1968, fino all'inverno del 1968.
Mia madre mi svegliò in piena notte. Ero nel lettone e mio padre era già vestito. Anche i miei fratelli, tutti più grandi, si stavano vestendo in gran fretta. Qualcuno mi infilò il maglione sopra al pigiama, anche i pantaloni.
- Dove andiamo?
- Fuori, fuori di qui. Fuori di casa. Tutti fuori, presto.
Mio padre aveva infilati gli stivali da pesca, anche la cerata sopra il grande maglione di lana. Continuava a far fretta a tutti.
- Veloci, fuori!
Uscimmo tutti assieme. C'era altra gente. Qualcuno piangeva e non erano bambini. Il mare arrivava oltre la piccola banchina. C'era vento e io tremavo ma non era per il freddo. Avevo paura e non sapevo perché. I grandi, gli uomini di tutto il vicinato, si misero a discutere e guardavano le case. Guardavano il mare vicino e le case, ancora troppo vicine. Mio padre tornò e mi prese in braccio.
- Andiamo alla stazione.
La processione intirizzita si mosse veloce richiamando per nome chi si attardava ad esaminare i muri abituali. Non riuscivo a parlare, non riuscivo a chiedere.
Attraversammo i binari. Alzai lo sguardo alla torre dell'acqua. Colava da una fenditura. I due ferrovieri, il padre del mio compagno e un altro più giovane, correvano lungo i binari con lanterne rosse in mano. Ci fecero segno di correre, di non indugiarci sui binari. Mio padre mi passò a mio fratello e aiutò mia madre a muoversi più veloce, gli tolse la coperta di dosso.
Ci fermammo nel nostro campo di calcio e i pali delle porte diventarono sedie per i più vecchi. Aspettammo in silenzio, stretti nei cappotti e nelle coperte. Qualcuno raccolse legna e mio padre accese il fuoco. Eravamo però troppi per poterci scaldare. Ne accesero altri due. E poi ancora quando altre persone arrivarono dai palazzi più avanti alla stazione. Alcuni erano ancora in pigiama.
Mio padre fumava seduto su di un sasso. Si alzò di colpo e anche gli altri. Mio fratello gridò e si rizzò in piedi. E io… fu come se avessi avuto una scrollata. Uguale a prima, quando mi avevano svegliato in piena notte scuotendomi. Stavo guardando la stazione passeggeri. La vidi oscillare, vidi i muri allargarsi e richiudersi. Cominciarono a gridare tutti.
- Il terremoto!
- Un'altra scossa!
- Più forte!
C'era chi si faceva il segno della croce. C'era chi, come mio padre, voleva tornare a controllare la casa. Mia madre lo scongiurò di non andare. Mi misi a piangere di nuovo. Mio padre mi accarezzò e tranquillizzò la mamma.
- Non ci entro. Vado solo a vedere se è ancora in piedi.
Lo seguii nell'oscurità con lo sguardo fin quando la flebile luce della cicca rimase visibile. Non distolsi lo sguardo dal buco di buio dove lo aspettavo ricomparire.
Prima arrivò il nuovo capolino con tutta la famiglia. Mi scrollai da mia madre e raggiunsi il mio amico. Guardavo sempre il buco e rividi la piccolissima luce rossa della Nazionale. Era carico di coperte, del pane avanzato, di barattoli e di un cesto di frutta. Mia madre lo rimproverò.
- Sei stato un incosciente ad entrare a casa. E se ce n'era un'altra?
Ignorò il rimprovero coniugale. Salutò i nuovi vicini.
- E' ancora in piedi. - indicò le provviste - Ma non credo che ci rientreremo tanto presto.
Capolino ci affidò la famiglia, sua moglie e il mio compagno Guglielmo.
- Devo tornare in stazione. Siamo stati allertati. Da Castelvetrano sono partite diverse littorine. Alcuni paesi sono stati evacuati. E' un disastro. Li raccomando a voi.
Si girò e fece qualche passo. Tornò indietro e cercò di rivolgersi anche agli altri fuochi, alle agapi silenziose e infreddolite.
- In stazione ci sono delle panche. Se ve la sentite di tirarle fuori… L'edificio ha qualche lesione ma non è pericolante. Per ora. La sala d'attesa è aperta.
Si avviò verso il suo dovere. Mio padre tirò una lunga boccata dalla sigaretta, sputacchiò qualche filo di tabacco appiccicato alla lingua.
- Le panche? Che ce ne facciamo della panche. Neanche il fuoco serve.
Capolino attese. Tornò un'altra volta.
- Che serve?
Mio padre girò lo sguardo a tutti i presenti. Eravamo diventati tanti. C'erano almeno cinquanta famiglie strette e infreddolite. Alzò la mano fumante, indicò il binario morto e le ombre delle piccole case su ruote.
- I vagoni. Apra i vagoni.
Il capostazione scosse la testa.
- Non si può. Ci sono i sigilli.
- A sigillare cosa? Carrube marce? O merda di maiali? Ma guardi sua moglie.
Sua moglie tremava stretta a fianco di mia madre. Dividevano una coperta buttata sulle gambe.
- Aprili Alfò! O vai in casa anche tu a prendere qualche coperta.
Un fischietto sibilò nell'aria. Alfonso corse verso il segnale del collega. Mio padre buttò la cicca nel fuoco e lo girò per rianimarlo. Il vento faceva decollare scintille di brace. Ci fu un'altra scossa ma non creò l'eccitazione della precedente. Si cominciava già a misurarne l'intensità. Era stata più lieve delle precedenti. Solo alla moglie del ferroviere generò agitazione. Controllò la stazione ma non fu serena. Pregò mia madre.
- Tenga mio figlio, signora. Io torno subito.
Si alzò e fece solo alcuni passi. Suo marito stava tornando. Si fermò davanti a mio padre, gli mostrò un martello grosso e tozzo.
- Le chiavi chissà dove sono andate a finire. Andiamo a rompere sigilli e lucchetti.
Mio padre fece cenno ai miei fratelli. Mi unii a loro. Li seguirono anche gli altri uomini del rione. Si fermarono davanti al primo carro. Due giovani issarono il capostazione. Sferrò una martellata sul lucchetto. Mio padre ebbe bisogno di aiuto per far scorrere il portellone incastrato. Mio fratello saltò dentro e aprì i finestrini in alto. Chiamò mia madre e l'aiutò a salire. Anche le altre famiglie raggiunsero il binario morto. Il corteo cominciò a muoversi lungo il convoglio. L'accompagnamento si assottigliava ad ogni colpo di martello. Tutti ebbero un riparo. Mio padre e il ferroviere tornarono dopo aver sistemato l'ultima famiglia. Papà accese un'altra nazionale.
- Grazie.
- Di che? Aveva ragione. Devo chiederle un favore: mia moglie può restare nel vostro vagone?
- Nostro?
- Sì. Sono soli. Io stanotte non potrò stare vicino a lei e al mio bambino. - portò la mano a cornetta sull'orecchio - Continuano ad arrivare brutte notizie. Montevago, Salaparuta, Gibellina non esistono più.
Mio padre si girò verso il vagone, mi intimò di rientrare la testa dalla fessura del portellone. Lo vidi annuire al capolino e allontanarsi sottobraccio a continuare la discussione vicino alle braci abbandonate.
La puzza dentro al treno cominciava a stemperare. Alcune coperte furono stese sul pavimento. Anche i miei fratelli si sdraiarono e si coprirono. Mia madre restò seduta appoggiata alla parete a fianco della nuova amica. Io e il mio compagno stavamo appoggiati ai loro ventri a tenerci per mano. Scrutavamo ogni centimetro del treno, del soffitto arcuato, dei finestrini sbarrati, del suolo di legno. Immaginavamo viaggi interminabili verso terre sconosciute, i percorsi delle carrube e la provenienza dei maiali, la destinazione delle olive e della sansa puzzolente. Godevo dell'avventura fantastica di essere salito su un treno. Un treno vero, non la littorina dal fischio asfittico e dalla puzza di nafta. E' un treno la littorina? Era questo il vero treno ed era tutto nostro. Nostro, l'aveva detto il capostazione.
Mi addormentai. Ebbi la fortuna di addormentarmi. Potei solo immaginare, dai racconti dell'indomani, il dolore e l'orrore dell'arrivo delle littorine cariche di feriti e morti, il via vai delle ambulanze dalla stazione all'ospedale. E l'immaginazione fu più clemente della realtà.

 

GIORNALISTI !

Neanche il fresco sibilante dai condizionatori fermò il ribollimento che gli infiammò le guance e arrossò gli occhi.

- Fammi parlare col direttore.

- Sono io il direttore.

- Quello vero!

- Faccio finta di non sentire.

- Forza!

- Il dottore è irreperibile; avrà il diritto di farsi in pace le sue ferie. E il direttore sono io e decido io: il tuo pezzo non sarà pubblicato. E basta!

- Vaffanculo tu e il giornale.

Rinaldi, responsabile della cronaca locale, sbatté la porta e uscì definitivamente.

Piazza Barberini era un crogiuolo di razze di turisti, di romani ansanti, di vigili sfaccendati; solo il traffico, a Roma ad agosto, era sopportabile. Il tritone, nel centro a soffiar note d'acqua, raccoglieva a raduno accaldate membra in ammollo. Rinaldi immerse il fazzoletto nella fontana e lo poggiò, ordinatamente piegato in triplice, alla fronte a calmare il bollore nato al fresco per l'insulsa ostinatezza del suo capo.

- Il tuo pezzo è pura fantascienza. Ma da dove ti vengono certe pensate?

- Fantasia? E' il ragionamento più sensato, lucido e logico che si è fatto attorno a questa storia.

- Ma ti sembra che ci mettiamo a pubblicare illazioni? E poi proprio su questa storia così incresciosa? Ma tu sei pazzo!

- Se ragioni, se ci riesci, capisci che è così. Quantomeno potrebbe essere.

- Bravo! Potrebbero essere tantissime cose. Soprattutto potrebbe essere il gruppo terroristico su cui hanno puntato le indagini e di cui fa parte la ragazza che ti sta tanto a cuore.

- Farebbe parte! Farebbe.

Il giornalista osservò il 41, il suo autobus, ripartire semivuoto dalla fermata. Normalmente poteva sedersi solo poche fermate prima del capolinea di largo Somalia. Normalmente faceva una doccia nel suo mini appartamento da ottocentomila lire al mese, una controllata alla posta elettronica, e poi a letto fino all'una o le due. Adesso, alle sei del pomeriggio, quando i giornali sono nel pieno della composizione, a casa si sarebbe sentito un solitario estraneo. Si passò il fazzoletto umido attorno al collo e scese. Un paio di turisti gli chiesero dell'ambasciata americana e indicò in inglese la strada che lui stesso avrebbe percorso; per ringraziamento ricevette un accenno di saluto militare.

Un anno prima un alto ufficiale dell'esercito italiano, incaricato di chissà quali incarichi al ministero dell'interno, fu assassinato mentre si recava al suo ufficio. Dopo ventiquattro ore ci furono: la rivendicazione dei terroristi, il ritrovamento del volantino e i simboli spruzzati sui muri della periferia romana. Adesso una ragazza e il suo avvocato stavano lottando per riconquistare una libertà rubata.

- Ti rendi conto! Arrestano una ragazza sulla base di indizi che potrebbero coesistere a carico di altre centinaia di persone. Ti rendi conto che migliaia di potenziali eversivi potrebbero trovarsi nella medesima condizione? Anche tu ed io se a quell'ora non fossimo stati in ufficio o se qualcuno avesse detto di averci visti chissà dove.

- Tu parla per te. In comune abbiamo solo gli studi alla Normale. E nient'altro!

- Cos'è? Memoria corta o rimozione mentale?

Le serre dei ristoranti sui marciapiedi di via Veneto ospitavano stranieri al fresco a sorbire l'ennesimo cappuccino. Cappuccino a merenda, cappuccino dopo pasto o solo per pasto italiano. Scosse la testa e fu salutato dalla dimenticata e stagionata attrice sempre di posta al tavolino accanto all'ingresso del bar. Una volta era il punto di contatto per eventuali scritture, adesso era la speranza di compagnia per la giornata o per un'improbabile notte. Rinaldi sorrise alla patetica distrazione.

- Perché non vedi di saperne di più sulla fuga di notizie, invece? O sulla rinascita dei gruppi.

- Ma allora parlo arabo! Quale fuga di notizie?

- Sull'indagine! E che ha permesso la fuga dei complici.

- Ma quali complici! Ma sei di coccio! Le notizie fuggono se c'è qualcuno che le lascia scappare. Le notizie le hanno lasciate scappare per giustificare l'unico arresto. E' difficile costruire indizi su molte persone, difficile collegarli..

- Sei tu che hai la testa dura.

- Difficile, se sono collegati, incolparli tutti. L'alibi di uno potrebbe scagionare tutti gli altri e far crollare il disegno….

- Becera dietrologia!

- Allora se ne prende una, una dal passato politico estremistico, con militanza sindacale, con attività ambientalista d'assalto, da studente a capo della pantera, con contatti nei centri sociali; insomma una persona che potrebbe essere benissimo un terrorista.

- Una persona che è stata registrata dalla telecamera di sorveglianza all'ingresso del giornale la mattina che ricevemmo il volantino del proclama.

- Stiamo nel centro di Roma. Migliaia di persone passano qui davanti, migliaia di persone vanno a finire su quel nastro ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.E poi tu ci credi a questi nuove fantomatiche cellule terroristiche? Io no! Esistono solo sulle informative rese note dal ministero. Secondo me hanno solo lo scopo di giustificare azioni di forza contro i centri sociali, quando le proteste raggiungeranno la soglia o il solista sarà di peso.

- Non sarebbe male.

- Cosa?

- Niente, niente.

Il centro di Roma toglieva a tutti il respiro, a tutti tranne ai pellegrini guidati dalla solita bandierina. La fila ordinata davanti alla galleria Colonna sbarrò il passo al suo errante giro. Rinaldi cambiò marciapiede e destinazione: non più fontana di Trevi ma piazza Navona e una granita. I tavoli all'ombra erano tutti occupati. Si infilò in un vicolo, in un bar. Sorbì in piedi il refrigerio ma lo pagò un terzo. Uscì ancora alla canicola serale e rimpianse l'impianto di condizionamento del suo ufficio.

- E poi la perizia recita che altre persone sono somiglianti alla ragazza.

- Ma non hanno la stessa personalità dell'indagata. Ma tu fai il giornalista o l'avvocato?

- Questa è la prima cosa giusta che ti sento dire oggi. Siamo ancora giornalisti? Riportare la notizia: mai espressione è stata così vera e sconfortante. Ci danno la notizia e noi la riportiamo. L'andiamo a prendere e la riportiamo: verbali, veline, comunicati stampa, conferenze stampa, fughe di notizie. Ce le confezionano e noi le riportiamo.

- Il nostro giornale le inchieste le svolge.

- Si! Reportage da "turisti per caso". Ma io questa notizia la scoverò.

- E quando la scoverai passerò il pezzo. Notizie vere però, non illazioni calunniose.

Ancora la vampata salì dal collo fino alla fronte, fino alle orecchie che sentì infiammate. Al Pantheon finalmente potè godere della frescura naturale. Ignorò lapidi e statue e dipinti a circonferenza del mausoleo. Ignorò ciceroni dotti e qualificati e vecchi e improvvisati a caccia delle mille lire. A metà del diametro reclinò completamente la testa a mirare l'inesistente culmine della cupola. Respirò profondamente come se quel buco di cielo comunicasse direttamente coi suoi polmoni, solo con i suoi. Inalò ancora con forza, ancora, ancora e poi uscì a sedersi sui millenari gradini della millenaria tomba. Multisonici idiomi gli confusero la mente stanca. Erano stanche anche le gambe. Richiese alla memoria l'ennesimo sforzo per cercare di individuare la più vicina fermata del 41. Si alzò e si guardò attorno per individuare la via che l'avrebbe riportato a casa. Il telefonino squillò e interruppe l'intimo colloquio accosciato di una coppia in calzoncini e scarponi da trekking. Si guardò i suoi mocassini firmati e rispose.

- Pronto.

- Ciao, sono il direttore vero.

- Non era irreperibile?

- Ho chiamato io il giornale. Non mi saluti?

- Salve.

- Torna in redazione. C'è lavoro per te, lavoro tuo: cronaca nera, non intrighi politici.

- Non lo so se torno.

- Si che torni. Torna! Ma perché sei così ostinato? Eppure non sei uno che si innamora delle idee, della proprie idee. Almeno non più, non più. Perché ti ostini su questa storia? Perché non lasci perdere? Perché?

- Perché, perché! Perché se ricominciassero, se ci fosse una ripresa io, io lo saprei. Io l'avrei saputo.

Aspettò l'arrivo del 41 sotto la pensilina di piazza Venezia. Avrebbe deciso dopo se scendere a piazza Barberini o al capolinea. I fazzolettini gli erano finiti e si asciugò col dorso la fronte sudata. Pensò che a casa il condizionatore non l'aveva ancora.

(18/06/00)