James Glob

nato a Roma nel 1964, vive e lavora a Roma, dove collabora con un Tour Operator Italiano specializzato nell’area del Medio-Estremo Oriente ed Australia.

In veste di Product Manager è solitamente in giro per il mondo a raccogliere colori, profumi, emozioni e magie di luoghi lontani che spesso ritroviamo, tradotti in parole, nei suoi esotici racconti.

J’ACCUSE
La storia di Biancaneve dal punto di vista della matrigna

Egregi signori, gentili signore e, soprattutto voi, genitori attenti e sostenitori accaniti dei metodi "Montessoriani".

Dopo aver sopportato in silenzio assurde calunnie, ingiurie e maledizioni, ho deciso di prendere la parola e fare la mia arringa. Rispondere finalmente, all’atto d’accusa che mi è stato mosso (e a torto vi dico) nei secoli dei secoli, amen.

Prestatemi orecchio per qualche minuto e forse, dico "forse", la vostra opinione su me medesima e sulla mia figliola, cambierà un pochino.

Mi presento: sono colei che in tutto il mondo è conosciuta come la "perfida matrigna" di quell’innocentina di Biancaneve e, voglio raccontarvi una storia.

Allora, andò pressappoco così:

Il papà di Biancaneve, re giusto e buono, perse la moglie a seguito di una grave malattia e rimase solo, con una figlia piccola e un regno da amministrare.

Pensate sia facile per un monarca, gestire al meglio uomini e mezzi quando si deve, allo stesso tempo, osservare la crescita di una ragazzina in età pre-adolescenziale?

No di certo, ed è qui, per questo, che entro in scena io.

Bene.

Io sono di famiglia benestante, agiata e con un quartino di nobiltà. Nonché bella, molto bella (aborrisco la falsa modestia) e, di questa bellezza, ne ho fatto un’arma. Alzi una mano colei che, tra le signore presenti, non ha mai approfittato un pochino di un aspetto, come dire, ecco sì, "avvenente" (ovviamente qualora ne fosse dotata…). Intendiamoci, non voglio dire chissà cosa, ma si sa: si vincono più guerre con un bel sorriso e uno sguardo d’ambra che con bazuka e carri armati.

Allora per tornare a noi: il re, di cui io ero segretamente innamorata da anni, era disperato. In me ha trovato una spalla su cui piangere, un poco di conforto e tanta dolcezza. L’avvenenza di cui sopra ha fatto il resto.

Questa, signori, è stata la mia colpa più grave. Quella di amarlo a tal punto, da accettare di sposarlo in seconde nozze e diventare madre di Biancaneve.

Ovviamente all’inizio tutto filava liscio. Biancaneve era una bambina bella e simpatica, con la quale giocavo spesso.

Io oltre alla gestione domestica del castello e della numerosa servitù, mi dedicavo ad opere di beneficenza e frequentavo i circoli femminili del nostro reame.

Vista la mia posizione, ero tenuta in gran considerazione da tutti. E sempre a causa della mia posizione dedicavo qualche ora al giorno alla cura della mia persona: un’ora di palestra, venti minuti d’idroterapia con le alghe del mar morto, un bel massaggio rilassante agli olii essenziali, manicure, pedicure, make-up appropriato e un’aggiustatina ai capelli. Va bene, lo confesso, sono forse un po’ troppo vanitosa ma chi, con un marito re e un conto in banca stile Berlusconi, non indugerebbe a tali piaceri della vita?

Questo mio desiderio di apparire sempre al meglio (e debbo dire che ci riuscivo bene), scatenò pettegolezzi ed invidie.

"Specchio specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?" E voi potete credere, anche solo per un istante, che io possa aver detto una tale idiozia? E tutti i giorni, più volte al giorno?

Macchè, non avevo bisogno di chiederlo allo specchio se e quanto fossi bella. Bastava osservare il torcicollo dei miei servitori quando passavo nei corridoi, per avere il polso del mio fascino (per altro ben documentato su numerosi rotocalchi di fiabe rosa).

Ah, la linguaccia delle donne. E’ più velenosa del siero di vipera cornuta: specie se è di donne brutte.

Comunque, per non divagare oltre, io mi mantenevo in forma e Biancaneve cresceva.

Non mi è mai piaciuto essere chiamata la "Matrigna". Quel "gn" ha un suono sinistro, cattivo, che non rende merito a tante donne che si sono trovate, in altre famiglie, nella mia stessa condizione di "seconda moglie" e "seconda madre".

Una donna che accetta di prendersi cura della figlia di un’altra, che si fa carico dei suoi problemi, che la consola quando si sveglia in preda a brutti sogni, che le disinfetta le ginocchia se le sbuccia cadendo, che cerca di educarla nei migliori dei modi, ecco, una donna così non solo non si apprezza, ma viene appellata con quest’orrendo nomignolo: "Matrigna".

Invece, la gentil donzella che tiene in braccio un neonato davanti alla fonte battesimale, le impone un nome e si fa vedere solo a natale e al compleanno, merita il dolce nome di "madrina". Chi si dedica giorno e notte, no. Non lo merita. Merita quell’odioso "gn" che la marchia a vita.

Insomma la situazione all’esterno era proiettata così: la matrigna vanitosa e cattiva e Biancaneve bella, buona e innocente.

Innocente…

Era bella, sì, questo non lo posso negare. Bella come un fiore, e anche fresca come un fiore, visti i suoi sedici anni.

Spesi ore ed ore ad insegnarle l’arte dell’estetica. Le rivelai tutti i segreti per mantenere una pelle bianca ed elastica, lo sguardo lucido e brillante. Lei apprendeva molto velocemente e altrettanto velocemente iniziò a mettere in pratica le tecniche di seduzione che aveva innate.

Che gran caos nel castello. Non v’era servitore che non fosse oggetto d’attenzioni da parte della "piccola" principessa. E quei poveracci non sapevano come fare. Lei era bella ma era anche la figlia del Re. Un’intoccabile insomma. Pena il taglio della testa.

Iniziò un periodo veramente pesante: scarpe con le zeppe alte venti centimetri (c’è costata più d’ortopedico che di diademi), capelli viola con le ciocche arancione, piercing all’orecchio, alla palpebra, all’ombelico, persino sulla lingua.

Tutto il giorno con lo stereo a palla con quell’orribile accozzaglia di rumori che lei si ostinava a chiamare musica "tecno".

Il giorno del suo diciassettesimo compleanno, mio marito (suo padre) le regalò un anello con un rubino grosso come una nocciola. Quello lo ha apprezzato molto. Solo che se l’è messo all’alluce del piede sinistro e non all’anulare destro.

Al mio povero vecchio a momenti viene un infarto. E dire che già s’era sentito male dopo aver scoperto che s’era fatta tatuare un Pokemon sul fondoschiena.

Un periodaccio davvero.

Abbiamo dovuto metterle una guardia del corpo alle costole, travestito da cacciatore, ma dopo una passeggiata nel bosco (non si è ancora capito se la guardia, il corpo lo ha perso di vista o se lo ha guardato troppo) è riuscita a scappare lo stesso.

A me e a suo padre, ci ha fatti imbiancare anzitempo.

Anni e anni girovagando per ducati e contee, valli e montagne. Finchè io mi ritrovai ad essere una povera vecchia e mio marito quasi impazzì dal dolore.

Poi, un giorno, improvvisamente m’imbattei in un nano. Un tal "brontolo" mi pare. Era disperato.

Mi raccontò, che lui e i suoi sei fratelli erano finiti tra le grinfie di un’esagitata che li faceva sgobbare tutto il giorno in miniera. E inoltre erano dieci anni che la notte li obbligava a lavorare ad una bara di cristallo finissimo e resistente dove si chiudeva a dormire. Aveva ideato un impianto d’erogazione d’ossigeno normobarico, da 8 litri al minuto (progetto originale di Michael Jackson) e i nanetti dovevano, tutta la notte, azionare la pompa a mano per non interrompere il flusso "rigenerante".

Andai a trovarla, con la scusa di portarle della frutta fresca. Le mie mele erano veramente invitanti e lei accettò di incontrarmi.

Stavamo dialogando educatamente (e già iniziavo a sperare di ricondurla a casa e alla ragione) quando mi chiese: - sono di produzione biologica in serra sterile queste mele, vero? E intanto ne masticava un bel pezzo, con gusto.

No, Biancaneve – risposi – sono dell’albero del giardino di tuo padre. Ricordi? Quello che piantò il giorno della tua nascita.

Apriti cielo! Iniziò ad urlare come una pazza. Mi accusò di volerla avvelenare con il buco dell’ozono, i pesticidi, gli insetticidi, la guerra batteriologica, il morbo della mucca pazza e chi più ne ha più ne metta…

Andò a chiudersi nella sua bara di cristallo – a ventilazione controllata - per sei mesi di disintossicazione.

Ebbe persino il cattivo gusto di indirizzarmi un gestaccio con il dito medio della mano.

Me ne tornai a casa e decisi di non cercarla più.

Ho saputo che dopo qualche mese, un povero principe ha aperto la bara per vedere se stava bene e quella iena lo ha costretto a sposarla.

Gli auguro di riuscire a sopportarla, con tutte le manie che ha…

Ecco, questa è la storia. Come è andata veramente, voglio dire.

Walt Disney, che conosceva la verità, l’ha dovuta stravolgere perché quella disgraziata lo ha ricattato. Però un ritocchino glie lo ha dato lo stesso: mi fece morire gettandomi da una rupe. Ma non è mica così che finiva la fiaba originale di Grimm. Anche lui, ricattato dal quel mostro della mia figliastra (e qui mi vendico con un altrettanto odioso "stra", odioso quasi quanto lo "gn" di matrigna) aveva dovuto infliggermi una fine atroce.

Bè, io spero che adesso qualcuno di voi ci pensi due volte prima di credere a tutto quello che si racconta. Soprattutto senza ascoltare un’altra campana.

Che qualcuno ci pensi due volte prima di gridare: J’accuse!


INCUBO

Lara si guardò allo specchio. Con la punta del dito mignolo asportò la lieve sbavatura del burrocacao alla fragola dall’angolo della bocca. Poi strizzò le labbra all’indietro come per spalmarlo ancora di più e farlo aderire meglio. Ne sentiva nelle narici e in gola il sapore dolce e fruttato.

Con movimenti imprecisi e tremolanti scurì le ciglia chiare con il mascara "resistente all’acqua", regalo della sua amica Annamaria. Era la prima volta che si truccava.

Si osservò meglio. Prima il profilo destro, poi quello sinistro, poi di nuovo di fronte. Atteggiò il viso e le spalle a pose da vamp. Fece boccuccia e sbatté più volte le lunghe ciglia sporcate di nero, emulando scene d’improbabile seduzione. Poi scoppiò a ridere facendo sberleffi alla propria immagine e compromettendo ancora di più il già debole risultato del suo make-up.

Una cerbiatta magra e ancora acerba. Due occhi verdi sempre in movimento e curiosi di scoprire chissà quali segreti; le gambe lunghe e muscolose, dono di ore e ore d’allenamento sul campo da pallavolo; una spruzzata di lentiggini sul naso e sulle guance rendevano grazioso un viso abbastanza regolare, mentre la zazzera bionda e cortissima sembrava animarla ancor di più dello spirito allegro che abitava in tutte le sue fibre.

Era un ciclone in compagnia, sempre pronta ad entusiasmarsi per idee scapestrate e a correre dietro a sogni irrealizzabili. "Per gli altri" amava precisare ogni volta che era rimproverata. "Per gli altri saranno irrealizzabili. Non per me."

Acquario. Ascendente sagittario. Un dramma, dicevano in famiglia. Una "figata", diceva Lara con le sue amiche.

 

Prese la borsa fatta con lo strofinaccio dei pavimenti, ricamato a punto croce con fili di lana colorata. Era la fine degli anni settanta ed impazzava lo stile "hippy". Lara non fumava spinelli e non amava bere. Però indossava jeans a zampa d’elefante, portava la camicia fuori dei pantaloni e l’immancabile foulard era ora annodato su una coscia, ora avvolto intorno al collo, ora a cingerle la fronte. Lo aveva acquistato di nascosto il foulard, risparmiando tutte le mattine sui soldi della merenda. In casa non volevano che lo portasse. E lei rispettava il divieto. Lo metteva dopo essere uscita dal portone e lo toglieva prima di rientrare. Le procurava un formicolio nello stomaco tenere il suo segreto in tasca.

Uscì alle tre e mezza. Alle sei doveva essere di ritorno, altrimenti sarebbero state storie, e di giorni segnati in nero n’aveva già qualcuno sul diario. Oltre alle punizioni aveva annotato anche tutte le gite alle quali non aveva potuto partecipare perché si rientrava troppo tardi. Il "troppo tardi" equivaleva a "dopo le sei del pomeriggio". Spesso scambiava battute scherzose con gli amici sulla sua condizione di "sorvegliata speciale". Ovviamente cinema e discoteche e feste a casa altrui erano argomenti tabù.

Prima figlia femmina di una famiglia mediocre ed ignorante. E di un padre geloso e ossessivo. Pazzo. Qualche volta Lara pensava fosse pazzo. Ancora ricordava quella volta che, in occasione di una partita di campionato, era stata convocata come titolare a giocare fuori Roma. Una tragedia. Accuse assurde furono scagliate su di lei e sui motivi per i quali voleva andare a quella partita. "Sono stato a controllare al capannone, domenica scorsa. Stanno tutti ammucchiati sulle gradinate. Chissà che combinano la in mezzo…" aveva asserito urlando con rabbia. Lara, per la prima volta in tanti anni, si era infuriata e aveva scagliato valanghe di parole, veleno e risentimento contro il suo atteggiamento indagatore e oltretutto totalmente ingiustificato, che tanto la umiliava.

Uno schiaffone a mano aperta le lasciò evidente il segno di cinque strisce di fuoco sul viso. Nell’anima invece, lasciò un’impronta di cemento armato che indurì nel tempo e appesantì i suoi sentimenti per quel padre violento.

 

Era sempre stato così, fin da giovane. Scorbutico e manesco. Lara non riusciva a capire come sua madre, mite e paziente, potesse sopportarlo; come avesse potuto dividerci diciassette anni della sua vita e dargli anche tre figli.

Con la moglie non aveva mai alzato le mani. Ma con i figli era un’altra cosa. Loro erano di sua proprietà e poteva maltrattarli gratuitamente.

Tutti i giorni, a tavola, guai a lasciarsi distrarre da un’immagine in TV. Se s’impiegavano più di dieci minuti a mangiare, si ricevevano pezzi di pane in faccia, scagliati con violenza. O tovaglioli appallottolati sparati sugli occhi o per il malcapitato che gli sedeva accanto, spesso erano serviti altri sonori sganassoni.

In quei momenti, la mamma con lo sguardo supplicava Lara e i fratelli più piccoli di fare in fretta a finire quello che c’era nei piatti.

Lui intanto si godeva lo spettacolo trasmesso dalle reti nazionali mangiando rumorosamente e ignorando anche le più semplici regole della buon’educazione. Se ne faceva un vanto della sua rozzezza e non perdeva occasione di metterla in mostra ogni qualvolta n’aveva l’occasione. Soprattutto se questa si presentava nelle vesti di qualche compagno di scuola di Lara. Sembrava godere nel far vergognare la figlia di suo padre. Sembrava soddisfatto soltanto quando, grazie a lui, gli amici di Lara rifiutavano anche solo di venirla a trovare a casa.

"Devono rispettarmi, come io rispettavo mio padre" questo era quanto amava ripetere quando qualcuno gli chiedeva perché fosse sempre così scontroso con i figli.

Non gli passava neanche per l’anticamera del cervello che in quel modo non avrebbe mai ottenuto rispetto. Poteva incutere paura o anche terrore, forse. E qualche volta disgusto. Ma mai, mai avrebbe avuto rispetto. Non da Lara.

Lei aveva in sé una tale pienezza di spontaneità, di sincerità, che negli occhi trasparenti galleggiavano i suoi pensieri e i suoi sentimenti. E, in fondo a quelli, si poteva scorgere la robusta pianticella dell’odio che pian piano aveva messo radici e s’inerpicava fin dentro al cuore. A Lara di suo padre dava fastidio persino l’odore. Puzzava di prepotenza. E le faceva venire il voltastomaco. Quando era in casa, lei apriva tutte le finestre, anche in inverno. Sperava, invano, che insieme alla puzza se n’andasse anche lui.

 

Erano le sei passate da quasi trenta minuti quando Lara suonò il campanello. Uno scalpiccio veloce si fermò dietro la porta che, con uno scatto metallico, si aprì.

"Lara, entra forza. Fai piano che tuo padre è in camera che dorme" mentre diceva questo, la mamma gettò uno sguardo all’orologio da muro in un muto, implicito, rimprovero. Lara represse a stento un sospiro di rabbia. Era inutile discutere con la madre: sottomessa era e sottomessa sarebbe rimasta. Il vero problema era che sembrava considerare normale il modo in cui era trattata. Mai, finché Lara n’aveva memoria, aveva sentito il padre rivolgerle parole gentili. Mai lo aveva sentito chiedere alla mamma qualcosa "per favore", o dire "grazie" dopo averla ottenuta.

Questi ormai erano discorsi ammuffiti e lei era stanca di lottare anche per chi non n’aveva nessuna voglia.

Entrò in bagno e chiuse la porta trattenendo a malapena l’istinto di bloccare la serratura con la cesta della biancheria sporca. Era rotta e la chiave era sparita. Lara odiava non poter chiudere fuori, a doppia mandata, quell’atmosfera pesante seppure per pochi minuti.

Sfilò, facendo forza con la punta dei piedi sui talloni, le espadrillas decorate con le perline colorate.

Seguirono i jeans e la camicia. Dopo una veloce rinfrescata accese la radiolina poggiata sulla mensola e le note di Staying alive riempirono l’aria intorno. Lara sedette sul water, con indosso solo slip e reggiseno e iniziò a sfogliare una rivista. Amava leggere di tutto. Dai libri al dizionario, da topolino all’enciclopedia. E soprattutto libri d’avventura e romanzi storici: con quelli poteva evadere dal suo inferno personale e compiere imprese ardue e coraggiose.

Quella rivista doveva essere nuova perché la mattina non c’era. Chissà chi l’aveva portata? Forse la zia Miriam, l’unica lettrice della famiglia. In casa sua, leggere sembrava essere un delitto e soprattutto uno spreco di soldi.

Gli occhi correvano veloci sulle pagine patinate scegliendo foto ed articoli da ritagliare quando, con uno schianto, la porta del bagno si spalancò. Lara balzò in piedi afferrando l’accappatoio e cercando di coprire il corpo nervoso come quello di una puledra spaventata. Le budella s’annodarono in uno spasmo dolorosissimo, mentre la rabbia riempì prima i polmoni e poi la gola quasi soffocandola col suo stesso odio. "Perché non bussi prima di entrare?!?!!! Perché non lo fai mai!!???" urlò quasi annegando nelle sue stesse lacrime. "Mammaaaaa!!!"

"Non c’è tua madre, è scesa a ritirare la posta: è inutile che strilli" intanto un ghigno sadico si era dipinto su quella faccia orrenda che tanto le ricordava l’immagine descritta nel "ritratto di Dorian Grey".

Lara era paralizzata dall’orrore e dallo schifo. Guardava suo padre, immobile sulla porta che l’osservava con uno sguardo tutt’altro che paterno. Cercò di coprirsi ancora meglio. Cercò di coprirsi ancora di più stringendo fino a farsi male la cinta dell’accappatoio.

"Sei rientrata tardi oggi. Dove sei stata? Con chi sei stata?" Il tono si era fatto minaccioso ed ironico allo stesso tempo.

"Sono stata ai grandi magazzini, con Annamaria". Lara si era rintanata nell’angolo più lontano. A farle scudo soltanto la rivista.

"Ah sì? Annamaria è una puttana. E tu? Tu ti sei fatta toccare da qualcuno?" Intanto si stava avvicinando con quel passo strascicato, trasandato. Lara pregava che cadesse e sbattesse la testa. E non si rialzasse mai più.

"Annamaria è una brava ragazza ed è mia amica" Rispose con un filo di voce. Le labbra le tremavano, perle di sudore le brillavano sul viso, mentre brividi freddi s’insinuavano sotto la sua pelle provocandole scariche nervose ad alto voltaggio.

Poi vide quella mano avvicinarsi, farsi sempre più vicino. Artigli che volevano ghermirla e che, se l’avesse lasciati fare, l’avrebbero ferita più con una carezza che con una coltellata in pieno petto.

Quel pensiero le annebbiò la ragione, la rabbia le gonfiò le vene, il dolore e la repulsione fecero scorrere adrenalina in tutti i vasi sanguigni. Con una mossa felina si alzò ben ritta in piedi sovrastando il padre di pochi centimetri. Lo fissò negli occhi e avanzò verso di lui. Con un gesto secco spinse via quella mano oscena. Lui iniziò a perdere sicurezza davanti a quella che non riconosceva come la succube figlia.

Lara gli puntò un paio di forbici sul petto. "Non ti azzardare mai più a fare quello che hai appena fatto. Non lo fare mai più. Sono stata chiara?" Ora l’odore del padre non sapeva più di prepotenza. Adesso era odore di paura. Paura della sua ribellione.

Lara si allontanò dal bagno e si diresse verso la sua camera. Poi, come se un pensiero l’avesse colta alle spalle, si voltò di nuovo verso il padre che ancora la osservava a distanza.

Lo fissò e per alcuni secondi lunghi come due vite non parlò.

Poi con calma: "se ci riprovi t’ammazzo."

E con un tonfo si chiuse la porta alle spalle. Il padre alle spalle. L‘orrore alle spalle.

Accese una candelina e ci soffiò sopra.

E poi pianse perché il giorno dopo sarebbe stato il suo compleanno.

Quindici meravigliosi, schifosissimi, anni.