Paolo Brunelli

Ho pubblicato, nel 1993, per l'Editrice "Il Cardo", un romanzo dal titolo LEVANTE ( ... Levante è una riga blu nell'orizzonte. Un occhio languido. Un brocco secco. È un posto caldo luminoso e aperto. L'ombra tiepida ristoratrice di un portico, sotto un pergolato fresco di rose rosse rampicanti. È una condizione della mente, dilatata e molle. Un passaggio e un incontro davanti allo specchio, dentro ed oltre se stessi. Levante è una piana desolata e brulla. Ed è anche un nome ch'è una burla delle coincidenze. È un orientamento dell'animo: una porta chiusa socchiusa e spalancata sulla luce dell'evidenza. Fra cento voci sussurrate e mille volti. È un fatto vero, imprevisto, ma non casuale... Levante è in mezzo a noi. Levante è dappertutto, ma non finisce lì... ); nel 1996 e nel 1997 ho collaborato, con alcuni brevi racconti, a due pubblicazioni della Croce Rossa Italiana dal titolo, rispettivamente, "Solidarietà senza confini" e "Tolleranza, solidarietà, repressione: il dibattito contemporaneo sulla prostituzione". Un mio racconto dal titolo "Tanino", è stato illustrato e pubblicato, nel 1995, sul numero 22 della Rivista Letteraria "Ellin Selae"- raccolta illustrata di pensieri, tracce, armonie e disarmonie umane. Nel 1997 ho pubblicato, per Luna Editore, "La scellerata vita breve di Marco Princese". .

Nel 1999, nell'ambito del Concorso Letterario "Parole di Carta", organizzato dal Thomas Maine Group (cfr. sito internet www.thomasmainegroup.org/index.htm), un mio racconto dal titolo "L'UOMO DELL'ARMADIO", - compreso nella raccolta intitolata "AREA SUCCESSIVA 35 KM", si è classificato tra i venti finalisti pubblicati nella primavera 2000 da MARSILIO EDITORI.

E.mail: paobrunel@tin.it

L’ANGELO DI SPADE

Fu il più grande giocatore di tutti i tempi. Lo conoscevano in Val di Magra con un solo nome. E quel nome se lo porta ancora appresso, ogni volta che in un bar, un circolo, un’infrascata, c’è un gara di briscola, e in qualche modo, da qualche parte intorno ai tavoli, il suo nome aleggia come fumo sui discorsi dei curiosi, di quelli un po’ in bevuta e della gente che si ricorda.

Aveva l’aria del tipo che vive nella sua pelle. Tanti fatti e pochi discorsi. "I discorsi stanno in poco posto", diceva. Maniche di camicia rimboccate. Stuzzicadenti sempre in bocca, da quando aveva smesso di fumare. Gran bestemmiatore, più per connessione alle poche parole ch’era solito pronunciare, che per vera e giudiziosa intenzione di offendere Dio. Amava le carte più di ogni altra cosa. Le piacentine sempre in tasca. Ne aveva un mazzo a casa vecchio di trent’anni che aveva giocato centoventinovemila partite e ne aveva vinte centoventottomila cinquecento sessantotto. Fu il più grande campione di briscola che si sia mai visto da queste parti. Il compagno di gioco ideale, la certezza; il fuoriclasse con il quale ognuno di noi avrebbe voluto partecipare a un torneo, per vincerlo di sicuro e poter dire, un giorno, quella volta in coppia con L’Angelo di Spade c’ero io. Avere una foto ricordo da inquadrare in casa nella sala. Come un cimelio. La firma di un artista e tu con lui nel suo quadro. Un artista da sempre senza identità, conosciuto soltanto da tutti col nome di Angelo di Spade.

Lui diceva che la vita è una staffetta, si arriva, si passa il testimone e il compagno riparte. "E così è la briscola – diceva -, si gioca, si passa il testimone, e il compagno quando tocca a lui riparte." Una volta vinse tre tornei – Bagnone-Terrarossa-Filattiera - in tre domeniche consecutive in coppia con tre compagni diversi. Diceva che la briscola va "sentita", e se uno sa sentire la briscola vuol dire che ne conosce l’odore. Prima di giocare annusava le carte. Era quello il "gesto della briscola". Il suo rito propiziatorio, la "preghiera dell’ateo", come la chiamava lui.

Una sera che aveva bevuto come un cavallo – ed era per questo insolitamente ciarliero -, esordì dicendo che il gesto di mescolare le carte prima di ogni partita ha sempre la funzione di creare un "disordine", ma che in realtà quel disordine nasconde sempre un "ordine di briscola ", che un giocatore, attraverso il "gesto della briscola", già dalla prima mano - e dal profumo della prima carta -, deve saper seguire. Lui diceva di conoscere a memoria decine di ordini di briscola possibili, dato il profumo della prima e tutt’al più della seconda carta della seconda mano. Aveva disputato centinaia di migliaia di partite. Non si sa quanti anni avesse di preciso perché all’anagrafe risultava come apolide. Lui era sempre stato così, del resto: né vecchio né giovane. Non si sa dove fosse nato né da dove fosse capitato qui. Pareva esserci stato da sempre, forse ancor prima di tutti noialtri. L’ultima volta che giocò fu una sera di venerdì. Buttò sul tavolo il due di bastoni che era anche briscola e si passò lo stecchino dall’angolo destro al sinistro della bocca. "Giocare così è come farsi rapinare da una banca", ululò il compagno di turno seduto di fronte a lui e scaricò il solito moccolo terra-aria-paradiso. E aggiunse: "A te ti ha dato la briscola al cervello. Ormai non ci capisci più niente, chi me l’ha fatto fare di giocare con uno come te", mentre calava un pugno sul tavolo e un asso di coppe. Rispetto, pensavamo noi ragazzi. Ci vuole del rispetto. Poi Moccolo prese il bicchiere del vino e lo guardò. Noi ragazzi rispettavamo l’Angelo di Spade perché lui era il mito. Si guardarono il tempo sufficiente a una farfalla per sbattere le ali. Moccolo cignò prima di bere con l’angolo della bocca; impercettibilmente qualcosa di preciso, ma cignò. L’Angelo capì che aveva il tre. E così era, naturalmente.

I due che stavano contro giocavano d’astuzia, contavano i punti a mente e parevano giocatori di scacchi, dotati ognuno di proprio metodo e concentrazione. Quello di mano calò un cinque liscio di coppe altamente rinunciatario, e a turno il suo compare versò tre punti a cavallo senza poterne fare a meno. 53 a 54, contarono i due, già sapendo matematicamente di averla persa. Fu a quel punto che Moccolo, il compagno dell’Angelo, s’illuminò a giorno e spiattellò un ultimo, pesante, definitivo carico di spade nel mezzo del tavolo, l’avversario di fianco sventolò un insufficiente quattro di bastoni uguale briscola e l’Angelo di Spade, proprio in quel momento, nell’atto di concludere l’ennesima finale, si sentì precipitosamente mancare. Un ago di paura volgare nel petto, come un soffoco di doloroso scuotimento, nausea, calore, che ne so. Lasciò cadere la carta sotto il tavolo e in un istante a cavallo di un istante perse conoscenza. Subito cercarono di rianimarlo, a piccoli sbuffi, schiaffi, anche scuotendolo, blaterando, meravigliandosi di lui e pure tenendogli alta la fronte, dita sulla lingua, alte le gambe, fin quasi a sollevarlo dal suo posto. Tutto intorno infatti era pieno di gente accalcata a seguire la finalissima, e non appena fu necessario due o tre uomini di quelli si diedero da fare come meglio poterono. Fu portata dell’acqua, fu portato dell’aceto da annusare, intanto fu chiamato per telefono un dottore, poi si provò con l’ammoniaca, infine whisky imbevuto nel cotone, grappa secca, chiodi di garofano bolliti, tabacco da fiuto e pepe nero, ma niente. Moccolo provò persino con un mazzo di carte, glielo passò più volte sotto il naso. Ma lui non si rianimava. E anzi, a un certo punto, dopo quasi mezzora, lo sollevarono sotto le ascelle e per i piedi e lo adagiarono sopra due tavoli uniti. Una pila di tovaglie sotto la testa. Gli allentarono la cintura dei pantaloni, gli levarono le scarpe, gli stesero in grembo un cappotto e lo lasciarono beatamente dormire. Di lì a poco arrivò il dottore, tastò il polso, tastò le vene del collo, poi si levò gli occhiali, si fece il segno della croce e disse che L’Angelo era volato via. Probabilmente ictus, o forse infarto, o forse tutt’e due le cose insieme.

Di conseguenza gli avversari si videro assegnare partita vinta a tavolino e furono loro i campioni provinciali di quell’anno. E pensare che avrebbero perso, 53 a 67. E dire che quella era stata la partita più attesa di tutto il torneo. L’Angelo di Spade che non era in forma. L’Angelo che dopo lo dicevano tutti che si vedeva che non era in forma. Denari Spade Coppe Bastoni. Maniche di camicia rimboccate. L’aria del tipo che vive nella sua pelle. Lui diceva che la briscola è simile alla vita. Diceva che se il compagno non riparte, la partita va in bocca al cane.