F. Bolivar Ho trentadue anni e vivo a Mantova. Penso che scrivere sia divertente. Lo faccio per questo. Ho un problema enorme: perdo continuamente la mia battaglia giornaliera contro il tempo. Non ne ho mai a sufficienza. Troppe cose da leggere, da scrivere, da vivere. E questo non mi consente di giocare come vorrei con Jhon Jhon Steward, il mio gatto. |
coppie Laltra sera ho assistito in prima persona ad una delle cose più tremende che possano capitare ad un essere umano, anzi a due esseri umani. La morte al suo confronto era un piatto di spaghetti alla carbonara. Lui aveva pochi capelli, gli occhiali e un maglione blu, lei una camicetta bianca di quando era giovane e un paio di orecchini moribondi appesi alle sue stanche orecchie. Erano seduti uno di fronte all'altro, in pizzeria. Li avevo visti entrare e sedersi proprio davanti a me. Li potevo vedere bene entrambi. Erano sulla cinquantina, probabilmente sposati da una vita, da una vita di merda a quanto pareva. Lei si guardava le unghie mentre lui ispezionava i quadri appesi alle pareti. Li guardò attentamente fin che arrivò la cameriera. Finalmente parlarono: una quattrostagioni e una birra per lui, una margherita e mezza dacqua per lei. Allora non erano muti, pensai. Cerano molte altre persone nel locale tra cui qualche bambino che starnazzava come durante la ricreazione. Ma i minuti passavano lentamente per quella coppia e io stavo male per loro. Lei continuava a guardarsi le unghie come se non le avesse mai viste prima. Toh, guarda ho le unghie, una, due, tre una, due, tre erano dieci anche a contarle al contrario, che strano. Lui invece giocava con la forchetta. Ma che bella forchetta, proprio una bella forchetta. Poi vide i grissini, oh, ecco un nuovo divertente passatempo. Finalmente arrivarono le bibite. Iniziarono a bere a piccoli sorsi in attesa della pizza. Lei si accorse che la cameriera aveva lasciato il menù sul tavolo. Lo prese velocemente prima che venisse la stessa idea anche a lui, poi lesse e rilesse tutto almeno tre volte. Lui pensò bene di tornare con lo sguardo sui quadri e si accorse di alcuni particolari che prima gli erano sfuggiti. Avrei voluto ucciderli entrambi, li avrei tolti dai guai, per sempre. Passarono altri minuti che sembravano giorni di pioggia, poi arrivò la pizza. Non si degnarono di uno sguardo e non si rivolsero la parola per tutto il tempo. Stavo male per loro, veramente male. Finirono di mangiare, presero il caffè, pagarono e se ne andarono, tutto senza considerarsi. Cercavo di convincermi che avessero litigato poco prima a volte succede. Mi sforzavo di pensare che avessero fatto una scommessa. Ma certo, una scommessa che li obbligava a ignorarsi e a starsene zitti tutta sera. Ma sì, doveva essere andata proprio così.Niente da fare, non riuscivo a convincermi, cercavo di trovare delle spiegazioni ma sapevo benissimo cosaveva provocato quel silenzio. Pensavo che se anchio mi fossi ridotto così, mi sarei sparato un colpo in testa. Ma no, mi dicevo, a me non succederà, io me ne accorgerò in tempo, in tempo per sistemare le cose, in tempo per recuperare il rapporto. Del resto si sa che prima del tracollo ci sono dei chiari segnali, e io sarò lì pronto ad individuarli e ad affrontarli con intelligenza e serenità. Vero cara? Ma dove cazzo era finita? Eppure un quarto dora prima era lì. Credo. lultima corsa Me ne stavo lì seduto come un idiota senza far niente. Sapevo di essere un vecchio trentenne stanco, con le rughe sul fegato e sul culo. Lestate fuori bestemmiava sui tetti tutto il suo calore, le zanzare se ne stavano rintanate in qualche scantinato fresco e i giovani erano tutti là fuori, in moto o in piscina a ridere e scherzare. Maledetti bastardi! Dovevo far qualcosa per la mia anima moribonda. Mi rendevo conto di agire contro natura, visto che la natura stessa aveva previsto per me un pomeriggio dozio premorte. Ma ero talmente vecchio che anche lozio mi aveva annoiato. Decisi di farla finita, ne avevo abbastanza di quella vita. Mi misi pantaloncini e scarpe da ginnastica e andai fuori a fare jogging. Salutai per lultima volta la mia pianta, Actarus, un ficus con cui di solito mi intrattenevo per ore a parlare di cinema e donne. Dicono che parlare alle piante faccia bene, alle piante. Ma qualcuno aveva senzaltro detto alle piante che sarebbe stato meglio per loro non parlare con me. Actarus evidentemente non aveva dato retta a quelle voci, a suo rischio e pericolo. In effetti per una pianta deboluccia, la mia compagnia sarebbe stata letale, ma Actarus aveva la scorza dura. Prima di scendere le scale incontrai sul pianerottolo la signora Vincenzi, unottantenne della mia età. Mi salutò, mi guardò le gambe bianche e pelose, aprì la porta di casa sua ed entrò con la spesa. Poi la sentii sghignazzare per conto suo dietro la porta chiusa. Dovevo proprio essere ridotto male. Raggiunsi camminando il lungolago e iniziai a correre. Erano mesi che non facevo del moto. Chiunque si metta a fare jogging in un agosto caldo come linferno, alle quattro del pomeriggio, dopo mesi di inattività, con un pessimo umore nello stomaco, una condizione fisica da degente dospizio e con un paio di gambette bianche, pelose e ridicole, è chiaro che vuol tentare il suicidio. Dopo aver percorso alcune decine di metri mi venne in mente che forse cera una possibilità su mille di poter recuperare la condizione fisica. Certo, il giorno seguente avrei chiuso con sigarette e alcol, mi sarei iscritto in palestra, avrei fatto jogging tutti i giorni alle sei del mattino e avrei iniziato a nutrirmi quasi esclusivamente di frutta e verdura. In fondo avevo trentanni, mica cento. Ma dopo altri cinquanta metri mi resi conto che quel pensiero era solo frutto di unallucinazione dovuta a tachicardia da preinfarto. Incrociai altri podisti, sembrava fossero in moto tanto andavano forte. Mostravano unabbronzatura perfetta, dei muscoli lucidi e rigonfi che uscivano dagli indumenti succinti allultima moda. E poi parlavano tra loro, come se stessero conversando in salotto bevendo del te. Come diavolo facevano? Io arrancavo sul sentiero con la mia andatura da maratoneta defunto. Sembrava che avessi sulle spalle uno zaino di mattoni immaginario. Il sudore mi scendeva dalla fronte, mi entrava negli occhi per poi uscire dal naso, ero così a corto di liquidi che inconsciamente tentavo di riciclare i miei. I movimenti erano talmente scomposti da dare limpressione che stessi correndo in due direzioni diverse. I pensieri incespicavano, respiravo quindici volte ogni due passi, la lingua copriva quasi interamente il mento. Ceravamo! Fu in quel momento che Dio guardò giù, e tra tutte le persone sofferenti al mondo scelse me. In effetti avrei attirato lattenzione anche durante lo sbarco in Normandia, se avessi corso a quel modo. Nel mio stato mentale e fisico, ero lessere umano al mondo più vicino alla morte. E per questo fui premiato. Quindi Dio diede lincarico ad un calabrone dassalto per darmi il colpo di grazia. Il sudore continuava ad entrarmi negli occhi annebbiandomi la vista, la lingua non cessava di penzolarmi sul mento modello cocker esausto e la mia andatura aveva assunto larmonia di un cucciolo di boxer distrofico. Non vidi il calabrone kamikaze arrivare, sentii solo il suo ronzio da battaglia. Mi entrò direttamente in bocca e andò a sbattere proprio in fondo alla lingua, come Dio gli aveva chiesto. A quel punto non so se fu per la sorpresa, per la paura, per una reazione istintiva o per uno sfortunato colpo di tosse, fatto sta che sputai fuori il calabrone quasi allistante. Mi fermai e sentii uno strano dolore in fondo alla lingua. E fatta, quel gesto istintivo non è servito a molto, pensai, quel dannato insetto ha fatto in tempo a pungermi. Non che mi dispiacesse intendiamoci, è solo che avrei preferito un altro tipo di morte. Invece no, di lì a poco mi si sarebbe gonfiata la lingua e sarei morto soffocato. Lì, dietro la ferrovia, in un caldo pomeriggio di inizio agosto. Nellunico pezzo sterrato e polveroso di tutto il tragitto. Poi mi venne un dubbio: e se non mi avesse punto? E se il dolore che sentivo fosse stato solo frutto della testata ricevuta dal calabrone? Del resto non sè mai visto un calabrone volare di culo altrimenti come farebbero a vedere dove stanno andando? Aspettai qualche minuto ma non morii. Va be, pazienza, pensai, e tornai piano piano verso casa. Ero sfuggito allimboscata di Dio come un eroe? Ce lavevo fatta o mi ero fatto di nuovo fregare come un pollo? Dovevo essere felice o triste? Boh. Arrivai a casa e incontrai di nuovo la Signora Vincenzi. "E già di ritorno?", mi chiese. "Sì, oggi non è giornata", risposi. |