Pietro Giliberti sono
nato nel 1961. Amo molto la letteratura contemporanea. Ho un a passione
per Ian McEwan, Philip Roth, Josè Saramago. Scrivo da molti anni, in
prevalenza racconti. Sposato, ho due bambine, sono laureato in Scienze
Politiche e mi occupo di comunicazione online per un'azienda di
telecomunicazioni. www.pietrogiliberti.it |
Era
bello chiamarsi compagni?
"A chi fascist'? A chi?" urlava
dal palco, con voce isterica, la storica consigliera regionale del PCI.
E poi scendeva per affrontare a muso duro i contestatori.
"A mem', fasc'st'! Con la mia storia! A chi fascist'?".
A pensarci col senno di poi, forse non era l'occasione più opportuna per
quella gazzarra libertaria. Ma tutti i gruppi extraparlamentari erano
stati tenuti fuori dalle celebrazioni per il ritrovamento del corpo di
Moro, non dico uno di Democrazia Proletaria, ma neanche a uno dei dieci
radicali locali era stato permesso di salire sul palco con i rappresentati
dell'arco costituzionale.
"Moro è qui con tutta la DC!" urlavano i numerosi elettori
democristiani accalcati nella piazza.
Ma intanto i gruppuscoli dei malvestiti con cura urlavano a distesa il
loro "fascisti, fascisti".
Erano come sempre disorganizzati e disorganici. Peraltro, a parte i
democristiani che godevano di percentuali elettorali bulgare e di una
gestione delle tessere puntigliosa e litigiosa, anche gli altri partiti
lasciavano molto a desiderare in fatto di organizzazione. Persino il PCI,
che pure contava su uno storico seggio senatoriale, non riusciva a tenere
testa al dominio del biancofiore. Figurarsi gli altri: i socialisti
pre-craxiani erano una rarità; i liberali avevano un unico consigliere
che era probabilmente anche l'unico iscritto locale del partito; i
socialdemocratici poi, giusto se azzeccavano il candidato con un minimo di
seguito personale o professionale riuscivano a essere rappresentati. C'era
sì il MSI, ma il grosso della truppa dei nostalgici era confluito più
proficuamente nella DC e il presidio di qualche rottame consentiva al più
che la sezione locale non chiudesse.
Tutta questa truppa era sul palco, mentre gli altri, elettori e voci fuori
dal coro, in basso a calpestare le pietre grigie del grande marciapiede
posto al centro della piazza. Un calpestio d'abitudine, quasi quotidiano.
Dopo la scuola, il primo luogo di sosta era "dietro la villa",
un'entrata a lungo considerata secondaria dei giardini pubblici. Si
affacciava su una strada stretta, dove le auto transitavano con
difficoltà nonostante il senso unico. C'era chi si fermava per pochi
minuti, nel doveroso rito quotidiano, ma era poi tenuto a correre a casa
per il pranzo. Taluni potevano contare su genitori che lavoravano fino
alle 2 e quindi si attardavano, magari facendo un salto al bar per un
panzerotto fritto con pomodoro e mozzarella filante, oppure attraversando
fino alla noia la villa da un'entrata all'altra. Era qui, nella villa, che
avevano luogo gli incontri più importanti. Chi poteva, invidiatissimo, si
appartava con una ragazza sulle panchine laterali, anche se non
sufficientemente nascoste alla vista dalla rada vegetazione delle aiuole.
Altri discorrevano di politica, dividendo il giornale, Paese Sera,
acquistato in società per risparmiare. Si sfruttava il tempo leggendo le
pagine che poi si sarebbero cedute al socio, in cambio di quelle non
ancora lette. E naturalmente c'era tutto lo spazio per il cazzeggio
libero, le ironiche considerazioni sulle donzelle che, con passo svelto,
rientravano a casa dal lavoro, parrucchiere, operaie delle confezioni.
Naturalmente, quando il tempo lo permetteva, ma spesso anche
nell'inclemenza dell'inverno, di sera ci si trovava ancora lì, dietro la
villa, formando gruppuscoli sempre variabili, aspettando il passaggio di
qualche ammirata ragazza, schernendo il fighetto americanissimo, capace di
presentarsi con l'allora raro cappellino da baseball quando non
addirittura con il guanto e la palla. Si salutavano gli zii che
rapidamente si recavano al vicino Circolo dei Forestieri per una partita a
carte o a biliardo.
Appoggiati al muretto, con le gelide inferriate a segnare le schiene, si
facevano improbabili programmi futuri per quel mai così remoto che
neanche si riusciva a immaginare, distanti da qualsiasi profezia. In tutti
una sola certezza: bisognava andare via da lì, fuggire al più presto dal
paese, dalla villa, dalle poche ragazze decenti. L'esempio degli amici
più grandi, degli universitari, non aiutava però a sognare. Quasi tutti
tornavano, si sposavano, lavoravano, cambiavano prospettive esistenziali e
ideali, finti nomadi rapiti dalla stanzialità e dalla malia di quella
città bianca. Del resto, la maggior parte dei ragazzi erano del tutto
disinteressati alle vicende politiche e sociali. Avrebbero conservato
quell'atteggiamento superficiale e distratto per tutta la vita, anche in
relazione alla propria esistenza, evitando per quanto possibile di
lavorare, facendosi mantenere da suoceri arrivisti, e proprio in virtù di
tali meriti la città li avrebbe premiati con seggi da consiglieri
comunali, regionali, quando non con elezioni a sindaco o a senatore della
Repubblica.
A sera inoltrata, il guardiano, con la mano paralizzata protetta da un
guanto grigio, veniva a chiudere i cancelli della villa, e i reduci si
trasferivano in piazza, sullo stradone, scacciando i vecchi e i notabili,
occupando lo spazio per uno struscio generazionalmente più vivace.
Raramente si superava l'arco che conduceva nella piazza del municipio e da
lì nella città vecchia. Solo quando l'appuntamento era alla sezione del
Partito Radicale o al "locale" ci si infilava nel corso o si
facevano tortuose deviazioni per le stradine del centro storico.
La sezione del partito era sotto gli archi, nella piazzetta della
cattedrale. Dei dieci iscritti non ce n'erano contemporaneamente mai più
di 3 o 4. Franco, il segretario era lì, sempre presente la sera,
impegnato a organizzare le prossime raccolte di firme referendarie,
ordinando i pochi volantini pervenuti da Roma o ciclostilandone di propri.
Lasciava da qualche parte, sull'extramurale, la Bianchina verde alimentata
a benzina agricola e presidiava. La sezione era un buon punto di
osservazione. Dalla piazzetta nasceva la breve strada in discesa che
conduceva alla casa signorile del nonno di Giovanna. Per incrociarla,
Marco faceva le più complesse evoluzioni, arrivando persino a rinunciare
talvolta all'incontro preprandiale con gli amici dietro la villa, al solo
fine di appostarsi dalle parti della sezione, sperando di vederla arrivare
da sola, senza il ragazzo - fascista per giunta.
Per raggiungere il locale, invece, bisognava penetrare ancora più a fondo
nella città vecchia. Quella passeggiata, un sogno da flaneur, tra slarghi
e scale, palazzotti del barocchetto locale, cortili introdotti da archi di
grossi mazzacani grezzi e squadrati valeva il prezzo. Il prezzo della noia
che inevitabilmente prendeva dopo poche decine di minuti nelle atmosfere
male illuminate e fredde di quei seminterrati umidi e disadorni, che
parevano scavati nella pietra.
C'erano i musicisti, innanzitutto. Perché in fondo la politica era un
lamento e la gioia ogni rielaborazione delle canzoni popolari locali
riprodotte con l'immancabile concerto di tamburelli attorno a un paio di
chitarre.
"U' sunn, u' sunn, u' sunn… u' sunn, u' sunnaridd', u' lop s'ha
mangiet u' p'curidd"
Qualcuno poi avrebbe approfondito fino allo studio queste prime assunzioni
ideologiche. Altri sarebbero rimasti stonati.
Seguivano quindi i politici. Il nucleo era formato dagli impegnati
cronici, quelli che partecipavano a tutti gli scioperi, scrivevano i
bollettini, li ciclostilavano, li distribuivano davanti alle scuole. Si
vestivano tutti con sciatteria, i ragazzi con i capelli lunghi le ragazze
con i capelli corti. Maglioni sformati, jeans e giacconi, qualche eskimo
ritardatario, lascito di fratelli maggiori già integrati nella borghesia
locale. Talvolta appariva un guru nuovo, venuto da fuori. C'era un tale
Francesco di Roma, bello come un attore e dichiaratamente bisex: mai il
locale fu meta di ragazze pronte a sposare ideologie per loro aliene come
nel non lungo periodo della sua permanenza.
C'erano parole d'ordine, certamente. Ma sopratutto il bisogno di non
soffocare in quell'ambiente conformista e cloroformizzato che era la vita
cittadina, con i suoi ritmi immutabili, le gerarchie indiscusse, i
potentati ereditari.
Tutti provenivano in qualche modo dall'azione cattolica. Gli spazi di
confronto e di cultura, i cineforum e le discussioni erano nati quasi
tutti là, nelle salette ai piani superiori del convento, guidati da un
sacerdote illuminato. Si usciva da quel luogo, magari fidanzati, si
abbandonavano le seggiole del catechismo e si scendeva per strada chi per
confondersi con la massa chi per distinguersi, almeno per qualche anno
felice.
Altri locali, piccoli garage, nascevano per incontri certo politicamente
disimpegnati, ma non meno proficui in quanto a relazioni, soprattutto fra
sessi diversi. La musica era sempre un buon traino. Le prime radio locali
emulavano, anche nei nomi, quelle lombarde ed emiliane. Le discussioni tra
personale e politico, il "dibattito" occupavano però molto
raramente lo spazio della musica e soprattutto della pubblicità. Chi
investiva nella radio privata - e qualche anno dopo nella Tv locale -
preparava inconsapevolmente il suo futuro da imprenditore nel settore
pubblicitario.
Marco poteva contare anche su un suo personale luogo di aggregazione, uno
studiolo posto mezzo piano sotto l'appartamento dei suoi genitori. C'erano
una scrivania anni Cinquanta di legno, formica e pelle, una piccola
libreria con una vetrinetta, nella quale erano conservati i libri
scolastici di tutta la famiglia, un'altra libreria a muro piena zeppa di
edizioni economiche e dei testi più torbidi della biblioteca paterna e
raccolte rilegate di Tempo Illustrato accatastate in un angolo. Da una
finestrella orizzontale ci si poteva affacciare sul terrazzo della
palazzina adiacente e con qualche fortuna ammirare le belle gambe di una
vicina che andava a stendere i panni. Era in questo ambiente che tutti i
pomeriggi Marco leggeva, suonava la chitarra, studiava, scriveva sulla
vecchia Lettera 22 di suo padre, incontrava gli amici e qualche volta,
raramente, ospitava come in un evento storico, un estraneo con qualche
qualità. Fu nello studio che un pomeriggio fece capolino il poeta Dario
Bellezza che era in città per ritirare un premio di poesia. Si erano
conosciuti durante un incontro a scuola quella mattina e poi rivisti
dietro la villa. Il poeta era accompagnato da un ragazzo. Qualche anno
dopo, ai tempi dell'università, Marco lo avrebbe nuovamente incontrato,
in compagnia di un altro uomo, nella metropolitana di Napoli e Dario
Bellezza si sarebbe ricordato di quel pomeriggio nel quale, con Maurizio e
Peppone, avevano parlato di politica - e di cos'altro? - nello studio.
In un diverso ambiente, un ex-negozio o magazzino al piano terra di un
piccolo edificio del centro storico, una ragazza, la donna del suo
migliore amico, avrebbe tirato a Marco uno scherzo barbino, invitandolo a
entrare, abbassando la saracinesca, simulando di volerlo iniziare alle
gioie dell'amore fisico. E solo per timidezza, solo per l'incredulità che
potesse capitare proprio a lui, Marco non ci sarebbe cascato. All'arrivo
vociante dei suoi amici lo avrebbero trovato seduto, imbarazzato, ma
vestito e con accanto la ragazza che allargava le braccia sconsolata:
"parlava di politica!"
Quando non c'era da portare per strada cavalletti e tavolacci di legno per
raccogliere le firme dei referendum radicali, nella sezione del partito si
finiva per discutere. Marco era considerato troppo filo-PCI. Intratteneva
cordiali relazioni con il suo professore di filosofia e non disdegnava di
andarlo a salutare all'ARCI, sfogliando giornali fra cataste di manifesti
arrotolati. Si difendeva sostenendo che i compagni comunisti non erano
tutti come li si dipingeva, arcaici, bigotti, operaisti ad oltranza. Aveva
avuto modo di appurare quanto breve fosse la distanza sui diritti civili,
sulle tematiche ambientali. Tranne qualche vecchia cariatide, non c'era
più nessuno che si dichiarasse omofobo: le belle barbe dei giovani
intellettuali erano già oltre lo strappo da Mosca, erano figli del
Manifesto, tolleravano con qualche divertimento persino i lazzi degli
indiani metropolitani di cui giungeva eco ai confini dell'impero,
"Andreotto fai fagotto", "Il papa fuma e vede la
Madonna", almeno finché non si toccava l'icona di Berlinguer.
Di lì a qualche anno il partito radicale avrebbe perduto tutte le sue
peculiarità, i temi forti dell'ambiente e dei diritti civili sarebbero
diventati patrimonio comune di tutta la sinistra. Marco avrebbe
abbandonato Pannella e la Bonino che, per sopravvivere, per distinguersi,
per smarcarsi, si sarebbero scoperti iperliberisti, filoamericani, persino
a favore degli interventi bellici. È il destino dei movimenti che nascono
fortemente motivati da una ispirazione nuova e poco condivisa. Le
battaglie radicali avevano all'inizio una sponda solo tra i socialisti ed
alcune forze extraparlamentari. Sarebbe accaduto la stessa cosa per i
Verdi con l'ambiente e per la Lega con il federalismo. Finché nessuno ne
parla, finché il movimento è portatore unico, isolato, spesso
discriminato di un tema nuovo e potente ha una forza propulsiva che gli
consente di penetrare, sia pure con un duro impegno e grandi sacrifici,
fra sconfitte e timide vittorie, nell'agone politico. Ma quando vince,
quando riesce ad affermare i suoi valori fino a farli diventare valori
fondanti di grandi gruppi di opinione, di forze politiche strutturate, il
movimento perde la sua ragion d'essere. Ed è uno sforzo patetico quello
della ricerca di nuove idee, di originali visioni del mondo: un'operazione
contronatura, lontana dal proprio DNA. Questa manipolazione genetica non
riesce mai e il destino di queste forze è la consunzione.
Marco c'era e suo malgrado faceva parte di una generazione di post e di
pre. Poteva sforzarsi di leggere Marcuse, ma il dado era tratto e il
Rubicone lo avevano passato altri, quando era ancora troppo piccolo per
rendersene conto. Neanche la liberazione sessuale sarebbe mai giunta a
lambire quelle colline, anche se nelle pieghe dell'ipocrita sessuofobia,
avrebbero sguazzato le malelingue con tutti i gossip reali e inventati
della cornuteria locale.
In quel luogo lontano dal cuore, terrorismo e antiterrorismo sarebbero
stati poi simili a un film e persino una voce su un palco, una voce che
non avrebbe saputo cosa affermare di diverso dalle voci degli altri, era
debole quanto quello stridente silenzio.
E infine, ragazzi troppo vecchi sarebbero stati per le pantere delle
timide rivolte scolastiche degli anni del poterismo assurto a religione
dei tanti aspiranti yuppies.
Quali parole avrebbe potuto pronunciare Francesco il bel romano o il
segretario del partito se i "fascisti" gli avessero concesso
l'onore della tribuna? Avrebbe avuto il coraggio di affermare che aveva
sentito con le sue orecchie dei consiglieri comunali da un lato proporre
la pena di morte per i terroristi e dall'altra lagnarsi che fosse stato
colpito soltanto Moro perché avrebbero dovuto mettere una bomba in
Parlamento e farli saltare tutti?
Eccola allora, quella incazzata dozzina di disomogenei, ognuno con il suo
bisogno di esserci, ma solo con le sue idee, ancora confuse, stretto agli
altri unicamente dalla forza della discriminazione. Eccoli, Marco e gli
altri, sotto il palco di legno, nel bel mezzo dello stradone, con la luce
primaverile che illuminava la statua del santo sull'arco, in attesa che la
piazza venisse liberata per ricominciare lo struscio.
FOTOGRAFIE
guarda, ho ritrovato le foto del viaggio in California
che non hai mai voluto mettere nellalbum, questa dovera, no, ti ricordi, a
Carson City a casa di quella coppia che avevamo conosciuto nello shop di Yosemite Park, la
felpa di cosa indossi qui, dellUniversità della Carolina, chissà che fine ha
fatto, guarda cera quel quadro finto egiziano che poi abbiamo detto sai come
starebbe bene a casa nostra, le risate, per questo forse scattammo la foto, che bel taglio
di capelli che avevi, quella sera ero geloso di lui che ti guardava, dai, non te lo
ricordi, eh, invece lei, orribile, come no, voi donne avete la capacità di trovare
difetti in ragazze bellissime e pregi in certi mostri da collezione, aveva un naso che il
mio in confronto, poi dopo cena, neanche mi ricordo che mangiammo, andammo al casino,
quello lho ben presente, cambiai venti dollari e uscimmo con ventuno e ottanta e
andammo in quel saloon a bere birra fino alle 4 di notte, almeno io e te perché la coppia
tornò a casa prima, come si chiamavano, Peter e Mary, Ann e John, boh, so solo che per
andare a cena da loro restammo a Carson City a dormire e non avemmo più il tempo per
andare a Reno, e tu lo sai quanto mi secca rinunciare alle cose, e anche il saloon me lo
ricordo bene, davano una partita di baseball in TV e oltre al barman cerano due
persone, e ad un tratto ci offrirono da bere, quel tizio ciccione che mi chiese se ero
musulmano, e tu dicesti ancora! perché me lavevano chiesto anche a Los Angeles,
quel tipo con il pastrano nero, vicino alla stazione, sembrava un predicatore o un
barbone, e il tipo del saloon mica ci credeva che fossi italiano, insisteva, e poi
tornammo al casino con lui, ma non giocammo più, bevemmo e basta, che mestiere faceva non
lo rammento più, mi pare fosse laureato in psicologia ma faceva loperaio, era
iraniano o iracheno, direi iraniano, e poi ce ne andammo al motel, ma non era come uno di
quei motel da film nei quali ci saremmo fermati le notti successive, un hotel normale di
quattro o cinque piani, non ci giurerei, eravamo troppo ciucchi, ma forse abbiamo fatto
lamore quella notte, no, forse è stata quella volta che abbiamo dormito vestiti, e
il giorno dopo, ti ricordi che bello il lago Tahoe, quella passeggiata mitica che abbiamo
fatto nel piccolo parco sulla riva, tra scoiattoloni grossi come rottwailer e gli uccelli
di quel blu così intenso che non siamo riusciti a fotografare, ho una visione nitida del
lago, nonostante sia passato tanto tempo, sai e tu, ti ricordi il bagagliaio
dellauto, la Toyota che avevamo preso a noleggio a LA, pieno di cartine, vestiti,
regali, tutto sparpagliato, come ci ritrovavamo in quel disordine, magliette e felpe che
cambiavamo in continuazione, ogni volta ti guardavo il seno e sorridevi lusingata, pronta
sempre a provocarmi, e guarda questa foto, qui eravamo in una camera del motel di San
Francisco, in Lombard street, ah già, prima eravamo stati a Sacramento, si, ti ricordi la
cameriera carina del ristorante che mi ha lasciato il suo numero sulla ricevuta della
carta di credito, non sapevi se prendermi in giro o arrabbiarti con me, come non era
carina, era molto carina, e poi a San Francisco quando volevamo fare le foto in posa osè,
anche a me ne hai fatte un paio, chissà dove la abbiamo buttate, spero siano state
bruciate insieme ai negativi, soprattutto quella con il pezzo di sopra del tuo costume da
bagno, dio che vergogna rivederla, ma allora ci facemmo un sacco di risate, e questa foto
qui, lo sai che è una delle mie preferite, uscivi dal bagno e ti sei tirata su la
minigonna, non labbiamo messa nellalbum perché ti vergognavi a farla vedere,
ma a me piace da morire, questo è un gesto tuo, così dolce e sexy, così provocante e
ingenuo, sei proprio tu, intrigante, complice, a te invece non piaceva perché sotto la
gonna, le belle gambe magre e i ginocchi aguzzi, avevi i calzini, adesso non dirmi che
quella volta non abbiamo fatto lamore, forse avevo ancora indosso il tuo bikini
quando abbiamo cominciato, si deve essere stato quella volta che volevi fare luomo,
ma è durata 3 secondi, per fortuna, poi abbiamo litigato, ricordi, perché ci siamo messi
a commentare quello che lindovina armena mi aveva detto leggendomi la mano sul molo
di San Francisco, quella storia del nemico che avevo, un uomo che mi voleva del male e io
quella sera, un po per scherzo, ti ho fatto il suo nome e tu sei diventata
insopportabilmente aggressiva, cosa centra lui, perché proprio lui, gridavi, ci
abbiamo messo tutta la notte per fare pace, forse avrei dovuto prestare più attenzione
alle parole dellindovina e al mio istinto, e queste altre tre foto le abbiamo
scattate al motel di Santa Maria, sulla costa, mentre tornavamo a LA, qui sei bella da
morire, sul letto, neghittosa e imbronciata come non mai, eri seccata da tutti i problemi
che avevamo avuto quel giorno, però non era andato storto fin dal mattino, anzi, era una
giornata bellissima quando partimmo da San Francisco e ci innamorammo del quartiere
Castro, ci sarebbe piaciuto vivere là, dicevamo, tra artisti, froci e puttane, e poi la
strada lungo la costa, eravamo così innamorati che ci sembrava una favola o era davvero
uno spettacolo da togliere il fiato, e ti ricordi quel tipo che faceva lautostop,
mentre aspettavamo che raggiungesse lauto dicesti sembra un paranoico, aveva i
capelli grigiastri e lunghi ed una cassetta di birre in mano, era nato in Inghilterra, e
disse di aver vissuto a Buckingham Palace perché era figlio di uno stalliere della
regina, ci raccontò che era in California da ventanni e faceva limbianchino e
il meccanico, due giorni alla settimana limbianchino e tre il meccanico o viceversa
perché un solo lavoro lo avrebbe annoiato, e ci offrì una birra e in cambio gli passammo
una Camel, allepoca fumavamo ancora tutti e due, non gli piaceva San Francisco
perché gli ricordava Londra e che ci salutò guardando un tramonto spettacolare tra le
rocce e il mare dicendo sono ventanni che tutti i giorni passo di qua e non sono
ancora stanco, poi cominciò a fare buio, e a piovere, una tormenta, i vetri appannati, la
visibilità al minimo tu che volevi fermarti io che volevo arrivare il più vicino
possibile a La per non perdere laereo, il giorno dopo, a San Luis Obispo abbiamo
dovuto fermare lauto perché non si riusciva a fare un metro e come diavolo si
chiamava quel posto piccolo, che sembrava un villaggio dei film western dove prima ci
hanno fatto entrare nel ristorante e sedere e ordinare e poi ci hanno detto che era troppo
tardi per mangiare, alle 9 di sera, tu eri pronta a fare la guerra, a tirare fuori una
mitraglietta e trucidare tutti i presenti, ti ho quasi trascinata fuori e ci siamo
inzuppati di acqua nel breve tratto tra la porta del ristorante e lauto, non hai
voluto che ti coprissi con il k-way, avevi i capelli appiccicati alla fronte e
lacqua sulle guance, sembrava avessi pianto, e quando provai a metterla in moto la
macchina non partiva, mi sentivo come i personaggi sfigati dei cartoni animati, aspettavo
che da un momento allaltro passasse un figo su una bellissima auto e ti portasse
via, invece non so come trovai la fottuta calotta dello spinterogeno e non so cosa diavolo
toccai, ma il motore si accese e tu mi abbracciasti forte come fossi un eroe da romanzo di
appendice, e come al solito, tra la gioia e limbarazzo ti prendevo in giro, si,
luomo della tua vita, un meccanico, in sostanza, di cosaltro ha bisogno una
donna, e poi facemmo una disperata ricerca di un motel libero e alla fine trovammo questo
di Santa Maria, un motel proprio come ce leravamo immaginato, il grande parcheggio
davanti ai mini appartamenti, lanonimato più assoluto, te la ricordi quella tv che
si vede dietro al letto, no, non era un forno a micronde, cera un telefilm su un
legale dei marines o qualcosa del genere, abbiamo fatto una doccia insieme e poi queste
foto, hai voluto mettere il due pezzi, nuda era troppo, ma sebbene il tuo corpo sia
bellissimo, è il tuo viso che mi colpisce, guarda questa qui in piedi davanti alla tenda,
non avevi voglia di farla, questa anche puoi prenderla, ma queste due, queste due in cui
mi guardi così, come forse non mi hai più guardato da allora, ti prego di lasciarle a
me. |