Massimo Canario Mi chiamo Massimo Canario, ho 37 anni, sono laureato in storia contemporanea. Con 4 amici ho fondato una società che si occupa di ricerche, di riordinamento, di gestione e di informatizzazione di archivi. |
Lettera quasi privata a un pubblico ministero Egregio dottor Gerani, le scrivo nonostante il parere contrario del mio legale e nonostante mi renda conto che questo non sia esattamente ortodosso. Probabilmente lei nemmeno leggerà queste righe, ma tant'è. Sa, in carcere si ha molto tempo e mi piace impiegarne parte pensando a lei, che tra una settimana, in un'aula di tribunale, chiederà in pubblico dibattimento, la mia condanna. Mi è parso quindi giusto, prima che ciò accada, farle sapere qualcosa di me, della mia vita e di questa sgradevole storia che mi vede coinvolta. Sono una donna di quarantatré anni, sempre giudicata, forse con un eccesso di generosità, da amici e parenti, assai piacente. Sono laureata in ingegneria, lavoro presso una ditta, sono ben pagata e decisamente apprezzata per le mie qualità professionali. Un po' meno per quelle umane: i miei colleghi, ho saputo, parlando di me mi chiamano "Algida", e non credo si vogliano riferire alla dolcezza di un gelato. Questo comunque è un altro discorso. Sa, alla mia età, cominciano a passarti per la testa strane idee. La comparsa di rughe un po' più profonde, ti rende più vulnerabile, maggiormente esposta al giudizio del mondo, che magari avrà anche altro a cui pensare, ma che cominci a credere sempre concentrato su di te e sul tuo aspetto. Gli sguardi che prima ti sentivi addosso e che ti creavano un misto di imbarazzo e di piacere, ora iniziano a ferirti. Hanno un bel da dire gli altri che sono ancora attizzante, come ha suggerito un giovane collega in vena di complimenti. Tu ti guardi allo specchio e cominci a scoprirti difetti che prima neanche immaginavi di avere. Guardi le colleghe più giovani e inizi a sentirti dentro un'invidia assolutamente insensata eppure, a tratti, così genuina e rabbiosa che quasi ti preoccupa. Ma è soprattutto altro che comincia a darti angoscia: è la vita che ti vedi correre davanti temendo di non essere più in grado di tenerle il passo. Io sono sempre stata educata a valori di competizione, che per quanto possano sembrarmi discutibili, mi hanno aiutata comunque ad arrivare dove sono ora. Mi hanno detto che al mondo va avanti chi è più duro e chi ha meno incertezze. Io ho talmente introiettato in me questi concetti che non credo sarei più in grado di organizzarmi diversamente. Ma inizio ad essere stanca e vorrei fermarmi un attimo per riposarmi. Scatta però sempre una sorta di riflesso condizionato, per cui man mano che avverto che sto perdendo dei colpi cerco sempre un modo per ottenere nuove gratificazioni. Ma forse mi sono dilungata un po' troppo su dettagli che non credo la possano interessare più di tanto. Veniamo allora alla storia per cui ora mi trovo qui e per cui le nostre due vite si sono incrociate. Circa tre mesi fa ero in un bar e stavo prendendo un caffè. C'era molta confusione, abbastanza insolita per quell'ora. Ad un tratto ho sentito una mano scivolare sul mio, come dire, fondo schiena. Lì per lì ho pensato ad un gesto involontario, ma ho dovuto presto ricredermi: la mano non mollava la presa ed ora stava decisamente palpeggiando. Mi sono voltata di scatto e ho fatto il primo gesto che mi è venuto istintivo: ho afferrato la mano dello sconosciuto con la mia sinistra e con la destra gli ho dato uno schiaffo. Ripeto, è stato un gesto spontaneo: d'un tratto mi sono sentita addosso gli sguardi interrogativi degli altri avventori e fisso nei miei occhi il sorriso di sfida, beffardo, di questo adolescente che si e no avrà avuto l'età di mio figlio più grande. Gli ho urlato di non provarsi mai più a fare niente del genere, l'ho minacciato di una futura denuncia e sono uscita adirata dal locale. In strada, mentre mi avviavo alla macchina, ripensando a quanto successo, accanto alla rabbia, è iniziata a crescermi dentro una strana sensazione di divertimento. Sentivo che quanto era accaduto pochi attimi prima da un lato mi feriva e mi indignava, da un altro lo trovavo così inverosimile che quasi mi rallegrava. Con questo stato d'animo mi stavo recando al lavoro quando alla fermata di un autobus ho rivisto il mio giovane molestatore. Non so dirle, dottor Gerani, cosa mi sia passato per la mente in quel momento: solitamente sono una persona misurata e razionale. Fatto sta che mi sono fermata e ho invitato il ragazzo a salire. Lui è rimasto un momento perplesso, probabilmente non si fidava. Ma alla mia seconda richiesta, con quella sfrontatezza che è tipica dell'età ha accettato senza più esitare. Mi sono a lungo domandata il perchè di quel gesto, che a tutt'oggi mi sembra assolutamente insensato, e la risposta che mi sono sempre data è stata che volevo parlargli per fargli capire quanto odioso fosse stato quello che aveva fatto. Ed in effetti, appena salito, l'ho immediatamente investito con una lunga tirata. Gli ho ricordato che il corpo di un'altra persona, meglio, che un'altra persona in genere, non può essere considerata alla stregua di un oggetto sempre disponibile a soddisfare i desideri altrui. Gli ho anche detto, nella speranza di farlo sentire più stupido ancora, che avevo un figlio della sua età. Mentre parlavo avevo la sensazione che mi guardasse con aria annoiata non ascoltando la benché minima parola tra quelle che andavo proferendo. Aveva in faccia l'espressione di chi sta pensando: "che palle". Ciò mi ha irritato profondamente. Aggiungeva inutilità ad un gesto che già di per se era assurdo. Mi sono fermata d'istinto e l'ho invitato ad andarsene. Ma prima che scendesse ho voluto fargli un'ultima domanda, in definitiva, forse, quella che mi stava più a cuore: "Perchè lo hai fatto? Ma dimmi la verità" "Mi piaceva il tuo culo", mi ha risposto, semplicemente, sorridendo e facendo il gesto di andarsene. Lo afferrai per un braccio e lo trattenni: "Ti ho promesso un passaggio, dimmi dove posso lasciarti". Mi diede un'indicazione. Lo Lasciai sotto il mio ufficio e parcheggiai. Verso l'una e mezza, quando scesi per il pranzo, me lo ritrovai là davanti. Mangiammo insieme. Mi domando spesso che meccanismo mi fosse scattato per la testa. Quella risposta semplice e beffarda che mi aveva dato, mi suonava in qualche modo familiare. In definitiva il mio stile deontologico, se così vogliamo dire, mi aveva sempre spinto ad afferrare ogni cosa che mi piaceva o che mi serviva e sentivo che in cuor suo lui non aveva fatto nulla di molto diverso: il mio culo gli piaceva, e gli era parso normale toccarlo. Dopo pranzo, era un venerdì e la ditta quasi completamente deserta, lo invitai a salire nel mio ufficio e chiusa a chiave la porta alle nostre spalle facemmo l'amore. Constatai con sorpresa che era esperto e sicuro di se e pensai a mio figlio, che a me appariva ancora tanto imbranato. Chissà se invece è solo una maschera che indossa in casa, con noi, pensai tra me. Il ragazzino se ne andò e io rimasi sola a pensare: non era la prima volta che tradivo mio marito e avevo perso il conto delle corna, confesse, che lui aveva messo a me. Ma ora era diverso. In definitiva poteva anche apparire una situazione ideale, la scopata senza cerniera, come direbbe Erica Jong, ma non mi sentivo a mio agio. Lei sicuramente si starà domandando in che razza di famiglia sono costretti a crescere i miei figli. Eppure, mi creda, noi siamo dei genitori modello. L'ambiente in cui loro vivono è confortevole e sereno. Mai un litigio davanti a loro. E anche noi, a modo nostro ci amiamo. Io non saprei immaginare una vita lontana da mio marito e sono certa che per lui è valida la stessa cosa. Non sono pazza, mi creda, e non voglio nemmeno teorizzare che il tradimento reciproco sia alla base della riuscita di un buon matrimonio. Sono discorsi assolutamente privi di senso e quando li sento fare vado su tutte le furie. Le voglio solo raccontare come ha funzionato il mio di matrimonio, nella sicurezza che oltre tutto non potrà mai costituire un modello. Lei può pure non crederci, ma io mi sento felice. So che può essere difficile, ma io vorrei essere giudicata, al di là di ogni giudizio morale che si può dare sul mio comportamento e che sarei anche disposta a tollerare se non fossi sicura che andrebbe a costituire un aggravante, solo per quello che ho fatto. Rividi spesso Maurizio e facemmo altre volte l'amore: nel mio ufficio, nella villa al mare, perfino in macchina che, ammetterà, per una donna della mia età era un'esperienza assai singolare. Mi rifiutai sempre, categoricamente, di andare negli hotel: mi sapeva squallido e poi faceva troppo 'Il laureato'. Ero tranquilla, sebbene mi rendessi conto dei rischi a cui andavo incontro: no rischi di ordine legale, per carità, a quelli non avevo mai nemmeno pensato: la corruzione di minorenni, che ora mi pesa come un aggravante non l'avevo neppure presa in considerazione. Anche del giudizio degli altri, ammesso che ci avessero mai scoperti, mi interessava poco. Ero in grado di gestirmi la mia vita come meglio credevo. I rischi che temevo erano quelli di una dipendenza psicologica da questo ragazzino: gli facevo da amante e da madre insieme, posizione per la verità assai scomoda, non smettendo mai di dargli dei consigli che rimanevano per lo più inascoltati. Ma sapevo perfettamente che per lui non rappresentavo altro che un comodo sfogo per i suoi appetiti sessuali da adolescente ed ero conscia che quando avesse deciso di sparire dalla mia vita non avrei potuto fare assolutamente nulla per fermarlo. Sapevo che quando questo momento sarebbe giunto mi sarei sentita sola e vecchia. Inoltre tutto questo mi feriva profondamente come donna e come essere umano. Ma nonostante questo non sapevo smettere, non volevo smettere, e quando mi assaliva un pensiero del genere lo cacciavo con estrema velocità. Un giorno ero nel mio ufficio, occupata da un lavoro che negli ultimi tempi mi aveva preso tantissimo tempo. Non vedevo Maurizio da più di tre settimane, un periodo abbastanza lungo per i nostri ritmi. Ad un tratto lo vidi precipitarsi dentro, senza nemmeno bussare. Si richiuse la porta alle spalle; era decisamente agitato. Mi disse che dovevo aiutarlo e mi chiese se potevo accompagnarlo alla villa che avevamo fuori Roma. Provai ad accennare al lavoro, ma lui mi scongiurò quasi piangendo. Sul momento non gli domandai nemmeno cosa gli era capitato, avvertii la mia segretaria e andammo. In macchina non parlava: accesi la radio, ma lui la rispense con gesto istintivo. Gli chiesi cosa fosse successo. Mi disse che la mattina, con un suo amico, avevano rapinato una banca, cosa che lei, dottor Gerani, ben saprà. Gli era andata male: il suo amico era rimasto ferito ed era stato arrestato. Avevano anche sparato ad un poliziotto ed ora non sapeva nemmeno se fosse vivo o morto. Lui aveva fatto perdere le sue tracce, ma temeva di venire presto trovato. Mi scongiurò nuovamente di aiutarlo, mi disse che non voleva finire in galera a sedici anni, ne sarebbe morto. Eravamo arrivati. Per un attimo l'elemento razionale in me sempre vigile, riprese il sopravvento. Gli dissi che avrebbe dovuto pensarci prima, che adesso era troppo tardi per piangerci sopra. Lo consigliai di costituirsi e gli dissi che con un buon avvocato, che ovviamente io gli avrei procurato, se la sarebbe cavata con poco, soprattutto se l'uomo a cui avevano sparato era sopravvissuto. Non mi diede minimamente ascolto. Accendemmo la televisione. Il notiziario confermò che nel corso della rapina c'erano stati solo due feriti. Maurizio ora appariva rilassato, ma vedevo che stava meditando qualcosa. Di nuovo smisi di pensare e mi apprestai mentalmente ad accettare ancora una volta quanto aveva per la testa. Lui si spogliò e mi spogliò con foga. Facemmo l'amore: nei suoi occhi però non intravedevo il piacere che altre volte gli avevo visto, ma solo decisione e rabbia. Avevo la sensazione che in questo modo stesse anticipatamente pagando il prezzo per qualcosa che aveva da domandarmi. Mi fece per un attimo sentire una donna disperata che chiede prestazioni ad un cigolò per godere ancora dei piaceri della carne. Provai a cacciare questi pensieri, mi dissi che erano solo frutto della mia immaginazione, ma mi irrigidii. Lui, con l'istinto animale che lo distingueva, se ne accorse immediatamente e si fermò. Andò in bagno, fece una doccia e tornò in camera con una pistola in mano: "Dammi tutto quello che hai, mi disse quasi urlando, poi andiamo in banca, ritiri altri soldi e me ne vado all'estero". Restai esterrefatta. Oltre la sorpresa c'era la rabbia e la delusione. Gli dissi che era uno stupido, che io lo avrei comunque aiutato, e che così facendo si stava solo rovinando la vita; gli dissi che lo avrebbero comunque preso. Lui mi intimò di tacere e mi ricordò che se lo avessero preso mi avrebbe trascinato nella merda minacciandomi di accusarmi di complicità e, addirittura, non so bene su quali basi, di essere la mente della rapina in cui era coinvolto. Era fuori di se, iniziai a temere per me stessa, ma stranamente mi sentivo abbastanza forte e rilassata. Non so se riesco a spiegarmi, ma era come se mi aspettassi tutto quello che era successo. Sapevo che con Maurizio doveva finire, questo glielo già detto, e le varie ipotesi che avevo fatto contenevano tutte un fondo di insensata drammaticità: nei miei incubi a occhi aperti vedevo sangue, sentivo urla. Certo non avevo mai pensato al mio ragazzo coinvolto in qualcosa di poco lecito. Era soprattutto questo, me ne avvedo solo ora, a ferirmi; mi rendevo conto che tutto quello che avevo immaginato di aver fatto per lui, badi dottor Gerani, che avevo immaginato di aver fatto, non era servito a nulla. Io pure avevo sempre preso con ostinazione tutto quello che avevo voluto, ma sempre con mezzi leciti. Per la prima volta mi era chiara la differenza tra il suo comportamento ed il mio modello di vita. Lui, con i suoi sedici anni spesi male, non sapeva accettare una costruzione dell'esistenza lenta e progressiva, cercava scorciatoie. Non so dirle se a quell'età questo sia un atteggiamento comune, ma mi ricordavo che io, quando avevo i suoi anni, non buttavo le mie giornate al vento, studiavo perchè volevo conquistare qualcosa. Anche io non guardavo in faccia nessuno, ma me ne assumevo le responsabilità, se è vero, come è vero, che non ho mai condotto, fino ad oltre la laurea, una normale vita di relazioni interpersonali, sia con gli amici sia con i vari ragazzi che si sono succeduti negli anni e che dopo un po' che mi stavano vicino scappavano esasperati da quella che consideravano una mancanza di attenzione nei loro confronti. Ma sto di nuovo divagando. Stavamo tornando verso Roma. Mentre questi pensieri mi si affollavano per la testa ed ero combattuta tra il desiderio di concedere ancora una chance ai suoi sedici anni e la voglia di venire al più presto fuori da questa situazione, Maurizio cominciò a parlare. Ancora oggi non so spiegarmi il perchè lo fece, ma mi accorsi subito, dalle prime frasi che pronunciò, che voleva ferirmi, umiliarmi, provocarmi. Iniziò dicendomi che i suoi amici mi avevano soprannominato, non appena gli aveva raccontato della nostra relazione, "la tardona". Disse che un giorno gli aveva detto dove saremmo andati con la macchina in modo che loro avrebbero potuto spiarci e convincersi che lui non raccontava balle. Poi mi disse che da un mese circa aveva avvicinato mio figlio e, dopo esserci entrato in confidenza, gli aveva raccontato, della sua avventura e che solo alla fine gli era mancato il coraggio per dirgli anche la peccatrice, insieme al peccato. Infine soggiunse, ridendo in maniera sguaiata e senza mai smettere di giochicchiare con la pistola, se l'aver scopato con me poteva costituire un buon lasciapassare per arrivare a mia figlia che aveva visto un giorno, seguendomi di nascosto, e che con i suoi tredici anni prometteva assai bene e poi, concluse, se il proverbio che dice tale madre tale figlia non sbaglia, ci sarà da divertirsi. Ovviamente non credetti ad una sola parola tra quelle che avevo sentito, ma fu proprio in quel momento, credo, che decisi che l'avrei ucciso, bastava solo aspettare l'occasione buona. Arrivammo a Roma. Lui si sentiva sicuro e commise l'imperdonabile, per lui, errore di uscire prima dalla macchina e di attraversarmi la strada davanti. Fu un lampo: partii di scatto e lo investii. Tornai indietro e mi fermai. Non credo che ho bisogno di aggiungere altri particolari che lei conoscerà fin troppo bene. Vorrei dirle ancora che mio marito, dopo che gli ho raccontato tutta la storia, ha deciso di chiedere il divorzio, accusandomi di essere una pazza depravata. Mi aspettavo una reazione del genere: nel nostro ambiente si può fare di tutto, basta che non si sappia in giro. E poi forse era invidioso: solitamente sono gli uomini che hanno una storia con le ragazzine. Gentile dottor Gerani, non le ho scritto tutto questo per giustificarmi e nemmeno per muoverla a compassione: sappia che non sono pentita di nulla o quasi di questa incredibile storia: il finale lo avrei preferito diverso ma sinceramente mi sono anche divertita e per un breve periodo ho provato quell'ebbrezza che non avevo mai vissuto nei miei giovani anni. La ringrazio per la pazienza e a rivederci presto in aula. |