Gibò

Romano, quarantenne, mi occupo di polverosi documenti e di archivi elettronici. Sul mio desktop c'è una foto del Ghiacciaio del Calderone.

SOGNI

Quella di ieri non è stata una notte come le altre. L'ho visto di nuovo, ho ascoltato le sue parole che parlavano di me e di altro. L'ho visto svanire lentamente, restando presente come un profumo che evapora ma lascia un'infinita traccia di sè ovunque, sulle cose e sulla pelle. Ho di nuovo sognato Dio.
Mi era già successo il mese scorso, in pieno pomeriggio. Leggevo distrattamente riviste e giornali in una giornata vuota, senza lavoro, di festa. Il tempo sospeso delle feste forzate e non cercate, dell'attesa per riprendere il proprio lavoro. Una giornata dalla luce violenta, il sole d'inverno che al sud quasi ferisce gli occhi di noi del nord e delle nebbie. Nella mia casa, mia da due settimane, cercavo di tenere a freno lo smarrimento e la noia. E aspettavo, aspettavo che il sole tramontasse per poi prepararmi e uscire con una donna che avevo conosciuto all'Università.
Nell'attesa, lasciati i giornali, iniziai a leggere la bozza dell'accordo che avevo scritto per provare a porre fine all'ennesimo conflitto che infiammava e che uccideva, chiedendo alla mia mente un po' di attenzione in più. Mi addormentai per un momento, come spesso mi accade negli ultimi tempi. Il sonno del gatto, così mi sembra che qualcuno lo abbia definito. Riesco a dormire seduto, con i muscoli tesi che sorreggono il libro, al più la testa reclinata di lato, sorretta da una caritatevole mano che agisce di sua iniziativa senza che io gli abbia chiesto nulla. E in quel sonno breve, che a me è sembrato eterno, ho visto Dio, io che non credo in lui da trent'anni e che mi trastullo con la nostalgia di lui. Aveva un viso qualunque, forse un po' anonimo e mi parlava.
Nel sogno comprendevo perfettamente ciò che mi diceva, quello che mi chiedeva. Era timido, stupito dalle mie risposte. Comprensivo per gli sforzi che gli uomini incessantemente facevano per cercare di non uccidersi e ammirato dalla folle tenacia che avevano nell'uccidersi. Si chiedeva il perché, lui, ma a quella domanda -perché uccidere?- voleva una risposta, la voleva da me. Sapeva che io conoscevo le storie delle guerre, le cercavo, le narravo e talvolta le inventavo. Sapeva che io cercavo le cause, o una traccia, un senso in quel groviglio di avvenimenti, e che cercavo anche la soluzione per fermare le fabbriche della morte. Sapevo che il mio lavoro era provare a costruire le paci. Voleva una cronaca del mondo, lui, da me . In quei 40 secondi di sogno gli ho detto tutto: gli incubi e i sogni degli uomini. Ma al risveglio non ricordavo le parole. Sentivo solo che avevo narrato come mai avevo fatto e che lui aveva capito, aveva compreso, almeno a me sembrava, tutti gli sforzi.
Ieri, invece, l'ho sognato di notte, nel letto della mia casa dove a poche ore dall'alba mi era rifugiato fuggendo da un letto estraneo, dal letto di quella donna. E' tornato a chiedermi di nuovo ragione di tutto quello che era successo, di quello che accadeva ancora, come se io potessi sostenere con le mie parole e i miei pensieri tutta la storia dell'uomo. Ma le parole, questa volta, sembravano non bastare, non spiegare abbastanza. Evocai allora, come uno sciamano, i gesti, le facce, i corpi e le idee, i colori, i suoni e i sentimenti, la violenza, la compassione, l'odio, il dolore, gli odori e le speranze. Ma restò indifferente, quasi contrariato da questo mio cercare rifugio oltre le parole. Mi guardò con occhi come mai aveva fatto prima, incredulo, perplesso. Sentivo le sue mute domande che scuotevano la mia vita. Cercavo conforto nel mio impegno, nei miei sforzi, nei mie studi, nel mio lavoro di seminatore di razionalità e di pace. Poi, improvvisamente, vidi quello che lui aveva visto e quello che continuava a vedere, tutte le guerre che sono state, la sequela di orrori e di felicità, luce e ombra, l'assoluta contraddittorietà dei fatti, le anime graffiate, quelle ribelli e quelle assassine. Capii finalmente il suo sguardo deluso, come non fosse mai accaduto niente di nuovo, con noi a ripetere sempre quello che era già accaduto, chiusi in un cerchio magico che lui aveva tracciato sperando che fossimo capaci di saltare. E noi invece incapaci di vedere oltre, condannati a replicare, solo più crudeli, presuntuosi che si illudono di essere liberi. Allora ebbi pena di quella sua tristezza. Cercai le parole per consolare Dio.

 

Portici di guerra

Chiusi la porta. Buttato sul letto, la sensazione di spaesamento mi avvolse, consolante e penosa. Ero sudato, appiccicoso, bagnato, i vestiti inzuppati di pioggia e di paura. Non mi riusciva di fermare l'accavallarsi dei sentimenti, delle sensazioni. E la loro natura selvaggia mi frastornava ancora più di quanto non fossi per quello che era stato: attendere, cercare, per poi uccidere. Avevo atteso quasi un'ora sotto quei portici. Poi, per non dare troppo nell'occhio, avevo camminato con passo svelto lungo un marciapiede, in una delle poche strade aperte della città. Fatto il giro dell'isolato, le prime gocce. Mi affrettai, come altri, per sembrare come gli altri. Guardavo le ragazze, la loro eleganza da guerra, le vetrine povere. Uno sguardo all'orologio per avere la conferma che era una questione di pochi minuti, dieci, forse venti. E un uomo mi chiese l'ora. "Sono quasi le cinque" risposi e riconobbi sotto le falde quella faccia, quegli occhi. Non avrebbe dovuto essere già qui, eppure c'era. "Grazie - le gocce aumentavano -. Strano tempo oggi. Stamane si gelava, ora piove e fa caldo" Non sapevo cosa dire, uno strano calore correva lungo la mia schiena. E i suoi occhi interrogandomi mi si piantarono addosso. Fiutava il pericolo? Voleva forse rovistarmi l'anima come faceva quando torturava i corpi degli altri? Sentiva la mia tensione? "Già, e non riesco neppure a trovare via Rosmini. Voi sapete dov'è?" riuscii a dire per trovare un rifugio dal suo sguardo, per mimetizzarmi. Gli si rilassò la faccia. "E' due traverse più avanti, a sinistra, subito dopo corso Minghetti" rispose abbassando la guardia. "Grazie tante. Buonasera" e presi ad andare proprio all'opposto di dove sarei dovuto andare, da lui, per lui. Lo vidi avviarsi dove sapevo sarebbe andato, in quella casa calda, umida, disponibile, l'unico luogo dove quelli come lui potevano sfogare quel poco di vita che avevano ancora in corpo dopo aver cantato per ore, per giorni le lodi della morte. Io sapevo dove andava, lui non sapeva che l'avrei raggiunto anche se forse aveva sentito una lieve scossa in una zona nascosta dentro di sé, lontana, profonda, antica, come un allarme. Se pure l'aveva sentita non l'aveva ascoltata. Girai alla prima, allungai il passo sotto la pioggia sempre più fitta, la mia giustificazione per la corsa. Con la mano nella tasca toccavo la pistola, la scaldavo, la preparavo. Guardai ancora l'ora e maledissi la sua puntualità: tutte le settimane ogni mercoledì alla stessa ora, dalla stessa donna per cercare un brandello di umanità, per non dare sempre la morte, per spiare il piacere provato dal suo corpo. E proprio oggi s'era mosso in anticipo. Dovevo affrettarmi, andare più svelto. Girai e lo vidi un po' in lontananza, sotto i portici, fermo di fronte al 23, chino a legarsi una scarpa. Rallentai e mi avvicinai con passo deciso. Si alzò per attraversare la via vuota e per suonare il campanello. Ascoltò quell'allarme vecchio di pochi minuti e si voltò a cercarmi con gli occhi, quasi mi avesse intuito. Si chiedeva, forse, come mai era lì uno che avrebbe dovuto essere in via Rosmini. Ma un'altra domanda - perché quell'uomo gli puntava una pistola contro?- sopraggiunse. A questo sapeva di poter rispondere: urla, parole strappate, uomini che aveva venduto per potere e per paura, facce che non aveva salvato, violenze, schegge di umanità. Allora scattò, impaurito ma scaltro. Quasi riuscì a togliermi la pistola. Lo colpii sul viso, allo stomaco. Poi finalmente sentii sotto la canna il suo corpo e sparai , sparai ancora. Corsi via, più leggero. Lontano, urla di donna. Aveva forse già suonato il campanello o gli spari, chissà. Corsi ancora, mi liberai del cappotto, del cappello con l'arma nella cinta sotto la giacca. Poi andai sotto il portico, il passo tranquillo di uno che vive in una città dove gli abitanti con timore si guardano o con tristezza si fanno la guerra. Presi il tram che doveva essere lì in quel momento perché così avevamo deciso con chi lo guidava. Gli bastò uno sguardo per capire. Saltò due fermate, non c'era nessuno. Ormai la pioggia non dava tregua e le strade si erano svuotate. Scesi: pochi passi ed entrai nel mio rifugio. Chiusi la porta. Solo sul mio letto sentii allentarsi tutte le corde che tendevano il mio corpo. Solo, sentivo che piangevo. Con compassione cercavo di assolvermi per aver ucciso un uomo.

 

Nostalgia

Oggi compio quarant’anni. La vita che faccio non mi dispiace, almeno non troppo. Mi sono svegliato e dalla profondità della mia testa è affiorata una scheggia, un ricordo, anzi un'immagine: la bella faccia di una bambina, con il viso tondo e dei capelli nerissimi un po’ ricci. Era lì, sul balcone come la prima volta che l’avevo vista, con le mani aggrappate alla rete di protezione.

Forse mi è tornata in mente perché oggi torno a lavorare con la corda. E’ un lavoro che mi piace, stare appeso a sistemare canaline per antenne o cavi. Da solo, a un bel po’ di metri dai cortili e dalle auto, sapendo che gli altri ti guardano come fossi comunque uno mezzo matto. Facendo finta di stare in montagna o in falesia. E io tranquillo, perché so di aver fatto tutto a regola d’arte, con le mie corde e i miei moschettoni, con i mie nodi, la mia passione. Passero il mio compleanno appeso a un palazzo, guardando balconi, finestre, intonaci scrostati. Per questo forse la mia testa mi ha restituito quel frammento vecchio di trent’anni e più.

Calarmi dal suo terrazzo per arrivare a quel balcone del quarto piano: lo sognavo spesso allora. Per poter parlare finalmente con lei e vederle la faccia senza quella grata verde davanti, e per sentire il suo accento così diverso. Non chiesi mai a mia madre se potevo andare a casa di quella bambina, e lei non mi disse mai di invitarla. Ci guardavamo per un po’ e poi parlavamo. Cosa ci siamo detti? Cosa si dice alla bambina del balcone di fronte, venti irraggiungibili metri lontana? Poche cose, comunque, e poi ci facevamo compagnia giocando ognuno sul proprio piccolo balcone, tra gerani ed edere. Ogni tanto ci guardavamo. Ci assicuravamo che l’altro stesse lì, ci facevamo compagnia, colmando la solitudine di quelle ore pomeridiane, con il sole tiepido e i compiti che potevano ancora aspettare. Io con i miei soldati e le automobiline, lei non ricordo bene con cosa. Passarono molti giorni o forse furono solo due. Per superare quello spazio, quel vuoto le lanciai una delle mie macchinette preferite. Un omaggio, un gesto ma cadde giù nel cortile. E così finirono i pomeriggi( o fu un solo Pomeriggio?).

Quel piccolo spazio libero di solitudine comune ci fu strappato con l’indifferenza che hanno i grandi, penso mentre cambio la punta del trapano appeso alla mia corda e vedo in un balcone più in basso una bambina che gioca e ogni tanto mi guarda. Allora manovro e mi calo per vedere meglio. Ha i suoi capelli neri e penso che oggi è un bel giorno per parlare finalmente con lei. Ma questa corda, i cordini, il discensore non mi vogliono far muovere. Allora sgancio tutto e mi libero. Devo solo arrampicare in discesa, passaggi facili su intonaci e cornici pericolose, pochi metri per parlarle. Finalmente le potrò chiedere come si chiama perché proprio non me lo ricordo, penso mentre i miei piedi perdono l’appoggio le mani la presa e io cado sentendomi urlare di nostalgia.